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Young Guns
Glielo dicevo all’amico/socio/direttore di Sunday Morning che rischiamo di apparire un po’ vintage e siamo solo agli inizi. Io sono vintage di natura, ero già vintage a 5 anni di età, ma lui no e insomma ho sentito due bei dischetti di giovani virgulti così ne (s)parlo un po’. Mi piace metterli assieme non solo perché mi sono piombati in iPod praticamente in contemporanea, ma anche perché sono due dischi diametricalmente opposti così uno si complimenta con l’altro. Nel senso che uno dice all’altro: hey che disco fico e l’altro risponde anche tu però.
Yes, sono già al quarto Bloody Mary ma oggi va così. Nel senso che ieri a quest’ora ero ancora a tre Bloody Mary. Comunque, uno dei due dischetti è poderoso rock’n’roll stile 50s, l’altro tenere ballate acustiche stile 70s. I 60s li stiamo ancora cercando, ma d’altro canto se ti ricordi i 60s vuol dire che non c’eri, e io nel 1968 andavo alla prima elementare e sì me li ricordo bene. Gli uni sono inglesi e gli altri americani, anzi no, due sono americani e uno è inglese purosangue anche lui.
Gli inglesi fanno Jim Jones Revue, a onor del vero mi sono interessato a loro perché dentro ci suona alle chitarre il fratello della goddess, Beth Orton, e cioè Rupert Orton. Ma sono bravi assai tutti quanti, frontman in primis, il rude Jim Jones che mi piace già il nome perché è lo stesso del protagonista di una delle più belle ballate folkie anglosassoni. Suonano come i nipotini incazzati di Little Richard (che in verità era già bello incazzato di suo) e di Jerry Lee Lewis (l’attacco del brano che apre il cd è proprio quello di Rock’n’Roll degli Zeppelin che ovviamente lo avevano rubato a – su fate lo sforzo di ricordarvela – Jerry Lee) con un suono bello zozzo e rutilante come si vuole dalla genìa che li influenza – apparentemente – in modo vistoso, i Bad Seeds di Nick Cave. Ops. Infatti il produttore di questo Burning Your house Down è proprio uno di loro, Jim Sclavunos. Un disco diretto e fanculante, un disco da havin’ a party.
Gli altri sono i Fistful of Mercy (come dire, per un pugno di misericordia…) c’è dentro quel gran piacione di Ben Harper quello che piace alla gente giusta – a me molto poco in verità, ma io non sono mai stato uno giusto, a un suo concerto una sera mi sono anche addormentato e no, non suonava acustico, ma scimmiottava Jimi Hendrix dall’inizio alla fine, Voodoo Chile compresa), Joseph Arthur, songwriter dell’Ohio scoperto e lanciato da Peter Gabriel e un figlio d’arte, come piace al mio socio/direttore, Dhani Harrison, figlio di George. Mi sovviene or ora mentre scrivo che di tre ne ho intervistati due, Ben Harper e Joseph Arthur, in persona, quando le case discografiche avevano ancora i soldi per portare gli artisti in promozione dagli Usa fino a Milano. Bei tempi, simpatici ragazzi, credo fosse stato più di dieci anni fa. Be’, il loro As I Call You Down è proprio un bel disco, estremamente beatlesiano nelle armonie vocali – anzi harrisoniano – e ricco di mestizia, dolcezza, tristezza. Tutte le cose che piacciono a me. Acustico, con lo straordinario Jim Keltner alla batteria, e una serie di ballatone che virano dal gospel al blues al folk. In chiave deliziosamente pop.
Recensione del cazzo, me ne rendo conto, E pure doppia. Quello che ci vuole adesso è allora un Bloody Mary doppio. Peace. And Hate.
Yes, sono già al quarto Bloody Mary ma oggi va così. Nel senso che ieri a quest’ora ero ancora a tre Bloody Mary. Comunque, uno dei due dischetti è poderoso rock’n’roll stile 50s, l’altro tenere ballate acustiche stile 70s. I 60s li stiamo ancora cercando, ma d’altro canto se ti ricordi i 60s vuol dire che non c’eri, e io nel 1968 andavo alla prima elementare e sì me li ricordo bene. Gli uni sono inglesi e gli altri americani, anzi no, due sono americani e uno è inglese purosangue anche lui.
Gli inglesi fanno Jim Jones Revue, a onor del vero mi sono interessato a loro perché dentro ci suona alle chitarre il fratello della goddess, Beth Orton, e cioè Rupert Orton. Ma sono bravi assai tutti quanti, frontman in primis, il rude Jim Jones che mi piace già il nome perché è lo stesso del protagonista di una delle più belle ballate folkie anglosassoni. Suonano come i nipotini incazzati di Little Richard (che in verità era già bello incazzato di suo) e di Jerry Lee Lewis (l’attacco del brano che apre il cd è proprio quello di Rock’n’Roll degli Zeppelin che ovviamente lo avevano rubato a – su fate lo sforzo di ricordarvela – Jerry Lee) con un suono bello zozzo e rutilante come si vuole dalla genìa che li influenza – apparentemente – in modo vistoso, i Bad Seeds di Nick Cave. Ops. Infatti il produttore di questo Burning Your house Down è proprio uno di loro, Jim Sclavunos. Un disco diretto e fanculante, un disco da havin’ a party.
Gli altri sono i Fistful of Mercy (come dire, per un pugno di misericordia…) c’è dentro quel gran piacione di Ben Harper quello che piace alla gente giusta – a me molto poco in verità, ma io non sono mai stato uno giusto, a un suo concerto una sera mi sono anche addormentato e no, non suonava acustico, ma scimmiottava Jimi Hendrix dall’inizio alla fine, Voodoo Chile compresa), Joseph Arthur, songwriter dell’Ohio scoperto e lanciato da Peter Gabriel e un figlio d’arte, come piace al mio socio/direttore, Dhani Harrison, figlio di George. Mi sovviene or ora mentre scrivo che di tre ne ho intervistati due, Ben Harper e Joseph Arthur, in persona, quando le case discografiche avevano ancora i soldi per portare gli artisti in promozione dagli Usa fino a Milano. Bei tempi, simpatici ragazzi, credo fosse stato più di dieci anni fa. Be’, il loro As I Call You Down è proprio un bel disco, estremamente beatlesiano nelle armonie vocali – anzi harrisoniano – e ricco di mestizia, dolcezza, tristezza. Tutte le cose che piacciono a me. Acustico, con lo straordinario Jim Keltner alla batteria, e una serie di ballatone che virano dal gospel al blues al folk. In chiave deliziosamente pop.
Recensione del cazzo, me ne rendo conto, E pure doppia. Quello che ci vuole adesso è allora un Bloody Mary doppio. Peace. And Hate.