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June Miller e Antigone
Dei June Miller avevo già scritto qui, sul loro blog ci sono stati diversi aggiornamenti.
In sintesi: disco nuovo in arrivo, ma non c'è più alla voce Federica, probabilmente (?) rientrata nel "suo" gruppo, gli Antigone.
Devo dire che molto mi spiace: senza nulla togliere al resto del gruppo, la voce di Federica era una vera marcia in più per i pezzi dei JM.
Sul sito di Komakino, webzine che seguo da parecchio tempo (direi 2001 almeno, avevo letto per la prima volta lì di due gruppi come Moonbabies e Giardini di Mirò) c'è la recensione di un concerto dei JM di un anno fa circa, e c'è soprattutto il video del pezzo acustico qui sotto (ma acustico davvero, chitarra e voce assolutamente non amplificate) da brividi.
Come dice il commento, una breve canzone di poesia e dolore, mentre sullo sfondo le altre persone parlano, ridono, bevono, ignorando completamente quello che sta accadendo sul palco, e ci vuole un coraggio o un'incoscenza colossali per fare quello che fanno qui i June Miller.
Ci sono canzoni così belle che fanno male, e questa può stare tranquillamente insieme, per coraggio e sincerità, a quelle di Nick Drake di cui parla Paolo Vites nel suo post su "Pink Moon", o a quelle di Judee Sill, scoperta da poco grazie al blog appena citato, di cui ascolto a ripetizione da qualche tempo due canzoni incredibili: "The Kiss" e "The Donor".
Poi certo, il vero rock'n'roll non passa mica di qui, passa piuttosto dai Kiss, dagli Ac/Dc, dai Pink Floyd, dai Genesis e dal Boss: come si diceva una volta, "da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo le sue necessità"...
P.s. - Questo post era già pronto qualche tempo fa, prima che i miei cari buoni amici (anonimi e nonimi) mi facessero capire quanto sarebbe stato meglio per il mondo se avessi smesso di partecipare a questo blog.
Poi oggi, facendo il solito giro su indieitalia (niente link, sbattetevi un minimo, su...) ho trovato un video degli Antigone.
In questo periodo di nuovi dischi di Radiohead e Rem, mi sembrava doveroso parlare di qualcosa di veramente bello.
Gli amici di cui sopra stiano tranquilli, questo è un intervento "una tantum": c'è anche la giusta dose di polemica che rovina tutti i miei post e non avrà ulteriori seguiti :)
Idaho - Cuori di Palma
La storia discografica di Jeff Martin, losangeleno classe 1964, si dipana ormai da un ventennio sotto il suggestivo moniker Idaho, ovvero come l’angusto e selvaggio stato nel nord degli USA. Passando attraverso diversi stili, cambiando continuamente il personale coinvolto nel progetto fino ad assumere praticamente lo status di one man band, ma mantenendo un livello personale e di integrità artistica invidiabili.
E pensare che ce ne ha messo del tempo, Martin, per emergere. Si forma come pianista classico e nel 1983 neanche ventenne tenta l’avventura, trasferendosi per un po’ di tempo a Londra, in cui registra del materiale da provinare ad una casa discografica chiamata Ensign. Evidentemente la cosa non funziona, visto che l’anno successivo torna a L.A. Qualche anno fa, un paio di quelle registrazioni sono state rese disponibili su www.slidingpast.com , che è uno dei 3 siti in cui si promuove, e mostrano Martin alle prese con un interessante synth-wave per certi versi vicina a Japan, Talk Talk e primi Tears For Fears.
Il resto del decennio lo vede militare in formazioni locali assolutamente sconosciute, a quanto pare mai arrivate al fatidico traguardo discografico. Nel 1990, però, succedono un paio di avvenimenti chiave: nasce il sodalizio con John Barry, chitarrista figlio di un attore di Hollywood, e a casa di un amico si ritrova in mano una chitarra acustica priva delle ultime due corde. Da lì nasce l’idea folgorante di una elettrica custom a 4 corde che da allora diventerà il veicolo principale delle sue composizioni almeno fino a quando, verso fine decennio, non deciderà di recuperare il buon vecchio pianoforte.
Nasce così Idaho, sotto forma di duo. Mentre Martin si occupa di composizioni, voce, chitarra custom e basso, Barry di batteria e di solista che, nelle sue mani, diventa un altro tratto estremamente distintivo; il suo suono lacerante, dilatato, in feedback quasi perenne, riflette l’inquietudine di un personaggio tossicodipendente che si adegua alla perfezione all’esistenzialismo perturbato di Martin. La Caroline se ne assicura le prestazioni e ad inizio 1993 esce prima un EP (The Palms) e poi l’album Year after year. La stampa tende ad inserirli nel calderone slow-core, insieme ad altre stelle come Codeine e Red House Painters (con cui peraltro divideranno un tour durante l’anno), ma era già chiaro come la cifra personale dei due fosse innegabile. Year after year è un disco quasi shockante nel suo lirismo, in cui si passa da meditazioni autunnali (The only road, Save) a vortici tempestosi (Here to go), da iperboli depressive (Gone, Sundown, Year after year) a brevi squarci di sereno (Skyscrape, One Sunday). God’s green earth, il pezzo di apertura, destinato a restare uno degli highlights di sempre di Martin, mette subito in campo le possibilità dei due di provocare emozioni a lenta combustione. Non è certo un disco di facile assimilazione, dall’umore nero-pece ma non per questo privo di grande respiro ed atmosfera, insieme all’EP che racchiude un altro trittico di assoluto rilievo (Creep, Fall around, You are there). Inoltre ha il merito di rivelare la grande personalità di Martin, che oltre ad essere eccellente songwriter si fa notare come cantante dall’estensione non indifferente e dal timbro caldo e magnetico. Insieme ai due gregari Zimmitti (batteria) e Smith (chitarra) fanno il tour americano con i RHP e poi sbarcano in Inghilterra, questa volta con i Sundial.
Evidentemente succede qualcosa che fa perdere il controllo a Barry e lo fa ricadere nel cunicolo dell’eroina, così nel 1994 Martin si ritrova da solo ma tutt’altro che sfiduciato e presto pronto a registrare il seguito, col supporto del solo batterista Lewis. This way out segna un pizzico di normalizzazione rispetto al precedente, e non soltanto per l’assenza della chitarra sanguinolenta di Barry. Martin è ben lungi dall’aver trovato un equilibrio esistenziale, ma a differenza del debutto qui riversa le sue arie autunnali con un piglio più posato, meno votato all’abbandono e a tratti quasi grintoso. Anche lo stile vocale ne risente; c’è meno declamazione, si nota un indolenza quasi pigra, alla J Mascis. In qualche frangente del disco, infatti, sembra quasi di trovarsi al cospetto di una versione sofisticata dei migliori Dinosaur Jr. Le composizioni, però, restano sempre di grande fattura; i breaks introspettivi delle due splendide apripista, Drop off e Drive it, sono soltanto l’inizio. Martin modera l’utilizzo del feedback e se ne appropria con abilità, dosandolo con saggezza. Le ballads Weird wood e Still fungono da contorno per il miglior pezzo del disco, la fragorosa e trascinante Fuel, un po’ il manifesto dei nuovi Idaho: umori autunnali, spleen a rilascio controllato e progressioni di grande effetto. La contemplativa Sweep ha anche il merito di far rispolverare all’autore quel pianoforte accantonato da chissà quanto tempo. Verso la fine arrivano altre forti emozioni. Lo slow-core galattico di Taken che confluisce direttamente nel balzello indie di Crawling out. Forever infine chiude in perfetto stile Year after Year, rabbrividente promessa di eternità alla moviola, con una valanga di feedback che al termine sommerge tutto.
Nel frattempo Martin costruisce attorno a sé un trio composto dallo stesso Lewis, Borden al basso e Seta alla chitarra solista, un acquisto importante in quanto resterà il suo collaboratore più duraturo di sempre, e porta in giro This way out per tutto il Nord America per tutto l’inverno '94-95. La riuscita di pezzi forti e compatti come Fuel e Drive it lo spinge a persistere su quel modello di contrasti sonori. Si prende una licenza dalla Caroline e fa uscire il Bayonet EP per l’indie Fingerpaint, minuscola etichetta di L.A. La fuzzatissima e mascisiana The worm poteva anche diventare un hit minore, avesse avuto un’esposizione maggiore. Sliding past e Losing light perpetrano l’introspezione che esplode in schegge di feedback, con particolare attenzione per la seconda, una meraviglia commovente.
A febbraio 1996 esce Three sheets to the wind, album che rappresenta l’equazione perfetta fra accessibilità, cantautorato e indie-rock d’atmosfera. Visto il ritmo incessante di tour che gli Idaho stavano mantenendo e la promozione che quantomeno la Caroline si stava sforzando di garantire loro (ricordo che trovai l’album nel comunissimo reparto dischi di un anonimo centro commerciale), un minimo di riconoscimento se lo sarebbero meritato, anche perché il disco è bellissimo e variegato. Catapult e Pomegranate bleeding, (quest’ultima anche su singolo con The right escape, inspiegabilmente relegata a b-side) mostrano il lato quasi grunge del quartetto, dal fragore melodico ed emotivo. Martin spartisce la firma con i compagni per una buona metà del disco; sul fronte tranquillo si trovano le pepite del disco, come le pigre atmosfere autunnali di Stare at the sky, gli intricati arpeggi chitarristici di No one’s watching e i vorticosi delays di Get you back. Con Alive again Martin rispolvera il vecchio pianoforte per una delicatissima ballad.
Il tour si protrae per otto mesi, fino alla fine di agosto. Evidentemente la Caroline non è soddisfatta e li scarica. Martin lascia liberi Burden e Lewis ma mantiene attivo il sodalizio con Seta, stringe accordo con la piccola indie Buzz ed insieme nel marzo del 1997 pubblicano il mini The Forbidden, con 5 pezzi che calcano sulla vena più rilassata ed indolente dell’Idaho-sound, con le gradevolissime Hold everything e Golden seal, ma con l’eccezione della magnifica Bass crawl, una mistica escursione nel gorgo slow-core dei primi dischi.
L’album che esce l’anno successivo si chiama Alas e si compiace del contributo di un paio di ospiti di rilievo come il batterista di Beck, Waronker, nonché dei vocalizzi sparsi della Auf Der Mar, ex-Hole e in quel periodo bassista negli Smashing Pumpkins. Si tratta comunque di un disco che non aggiunge molto a quanto detto fino ad allora da Martin, forse per un eccessivo indugiare su temi classicamente autunnali ed indolenti senza grosse variazioni, comunque contenente un paio di perle come Run but you ran e Yesterday’s unwinding. Al posto del solito lungo tour, si esibiscono solo per una manciata di date in California in Agosto, dopodichè Martin si prende una pausa di riflessione. E’ proprio questo il momento cruciale; come da egli stesso raccontato in un’intervista, alla fine del 1998, sfiduciato dall’industria musicale, dall’immeritata mancanza di diffusione della sua musica e forse anche da un Alas che lo vede in difetto di ispirazione, decide che è ora di trovarsi un lavoro e lasciar perdere la musica da professionista.
Per fortuna, non resterà della stessa idea per molto e addirittura decide di fondare una propria etichetta, Idahomusic, che inaugura i battenti licenziando un precario documento live tratto dal tour del 1993, intitolato People like us should be stopped. Nonostante le registrazioni siano alquanto grezze, si tratta di un reperto preziosissimo per gli amanti dei primissimi Idaho, un live grondante sangue e stordente di feedback iper-amplificati.
Ed è un Martin in forma ritrovata per Hearts of palm, nuovo album del 2000, ancora in collaborazione con Dan Seta che co-firma una metà circa del materiale. A partire dalla caracollante To be the one, destinata a diventare una favorita live in futuro, è una conferma del talento compositivo del leader che realizza alcune gemme di assoluto valore come l’insistente cantilena della title-track, la discreta e sinuosa Down in waves, la meditabonda Happy times, la nervosa ballad elettrica Alta dena, e il lungo ambientale di Under. Il tour che parte in estate vede gli Idaho approdare per la prima volta in Europa, con alcune date in Novembre in Germania, Francia e Svizzera.
Tempo neanche un anno e si materializza un altro album, Levitate. Seta non fa più parte del progetto, cosicché da quel momento in poi Idaho diventa a tutti gli effetti una one-man band. Il disco parte in quarta con le frizzantissime Wondering the fields e 20 Years, ma sulla lunga distanza si rivela tener fede al titolo che porta, diventando in pratica una nebulosa semi-ambientale. Martin imposta quasi la globalità delle composizioni sul piano, realizzando deliziosi quadretti quasi accademici in Orange, Come back home e Levitate.
Il 2002 è un anno ricco di soddisfazioni per tre validi motivi. Innanzitutto la Idahomusic licenzia l’antologia We were young and needed the money, che raccoglie 10 anni di out-takes ed inediti per un totale di ben 17 titoli. Nonostante gli input siano eterogenei e ovviamente frutti di epoche diverse, in essa trovano posto pezzi che fanno interrogare seriamente sul mistero per cui non siano state pubblicate sugli album di riferimento del periodo. L’irresistibile pigrizia di This day col suo assolo di basso legnoso, la furia dirompente ed allucinata di Flat Top (sicuramente il pezzo più aggressivo di tutta la carriera), l’enfasi trascinante della splendida Shoulder Back, la nubi rabbiose e lancinanti di Straw Dogs. Nel finale, oltretutto ci sono ben tre scarti da Year after year, tranquillamente nella media di ciò che era già noto. L’ipnotica spirale di Traces, il disincanto di Carefully turning e soprattutto la magniloquente Drown, una delle migliori tracce degli Idaho in assoluto, con un Martin da brividi alla voce nel finale. Ed è proprio l’altro protagonista di quella breve stagione, John Berry, a fare un’inattesa ricomparsa nella formazione live che viaggia durante l’anno, nella prima parte lungo gli Stati Uniti e in autunno in Europa, per una ventina di date. In Novembre Idaho mette piede per la prima volta in Italia, a Verona e Milano. Insieme ai due, c’è un batterista innominato di gran talento (immagino di formazione jazzistica) che impreziosisce il set senza far neanche rimpiangere l’assenza del basso.
A dimostrazione degli ottimi risultati raggiunti dal trio, è stato diffuso in rete un documento molto importante, ovvero la registrazione da soundboard dell’esibizione tedesca del 05 Ottobre a Munster, in cui trovano posto 5 inediti di eccellente qualità, destinati fra l’altro a restare nel repertorio live-only. Sintetizzando quanto riportato nel post, ribadisco che si tratta di un grande concerto non soltanto per le perle sconosciute, ma anche per la grande prestazione di Martin, il contributo graffiante e mai invasivo di Berry e la prova di classe offerta dal batterista. Alla luce di tutto questo e vista la precarietà del People like us, a mio avviso il Live in Gleis si potrebbe idealmente aggiungere alla discografia come il disco dal vivo ideale di Idaho.
I due anni successivi scorrono praticamente inattivi, con Martin che ottiene l’ingaggio come compositore di colonna sonora di una serie televisiva della ABC, Days, e al lavoro per un nuovo disco. Ma sembra che abbia stipulato un legame molto forte con l’Europa, tant’è che l’indie label tedesca Kalinkaland mette sul mercato un antologia, intitolata Vieux Carrè, che di fatto a parte la Rope che compariva in una compilation, raccoglie pezzi già editi. Trattasi di un preparativo quasi ad hoc per il tour che vede gli Idaho tornare nel vecchio continente nelle prime due decadi di Dicembre 2004, e che per la mia gioia tocca addirittura la mia città, presso il glorioso (R.I.P.) circolo Ex-Machina. Così ho modo di conoscere Martin e Barry di persona e conversare qualche minuto con loro, persone squisite e affabili com’era facile prevedere.
Un live per pochissimi intimi, se non ricordo male eravamo neanche una trentina ad assistere. Il batterista innominato non c’era più (e captavo una vena polemica in Martin nel dichiarare aveva di meglio da fare), al suo posto una fredda drum-machine che un po’ penalizzava la grande suggestione di un set che, oltre agli inediti del 2002, svariava sul repertorio dal 1996 al momento e anticipava quasi di un anno qualche estratto di The Lone Gunman, a tutt’oggi ultima fatica. Che conferma la tendenza al pianismo raffinato ed emotivo di Martin, con la totalità dei ritmi digitali, innesti elettronici ed atmosfere generalmente soffuse, come ben introdotto dall’intro immaginifica di The orange cliffs ed Echelon. Un liquido Rhodes costituisce la spina dorsale di ballads notturne come The mystery e la bellissima Live today again, quest’ultima promossa anche con un videoclip alquanto suggestivo. E’ un disco ispiratissimo, con Have to be, U got that gunman thang (ripresa da Days), Wet work, The days of patrol, brevi e delicati affreschi di cantautorato ambientale che curiosamente si avvicina alle deliziose raccolte di Keith Kenniff aka Helios. Come già scrissi tempo fa, una collaborazione fra i due sarebbe una gran bella cosa.

Da allora le attività si sono rarefatte all’inverosimile per Martin. Nel maggio 2006 vola per una comparsata di tre date in Spagna, per poi tornare massicciamente nel febbraio 2008, mese in cui praticamente si esibisce ogni sera per tutta l’Europa centrale, Italia compresa. Per il Maggio prossimo è prevista, con un ritardo di oltre un anno dalle intenzioni iniziali, l’uscita di Revoluta. Vista la lunghissima gestazione, mi aspetto un'altra bella prova da parte di un artista ingiustamente sconosciuto a tutti.
Discografia
Year after year (1993) 8
This way out (1994) 7,5
Three sheets to the wind (1996) 7,5
Alas (1998) 6,5
Hearts of Palm (2000) 7,5
Levitate (2001) 7
The Lone Gunman (2005) 7,5
Live
People like us should be stopped (2000) 7
Live in Gleis 22, Munster (2002 - Bootleg) 8
Antologie
We were young and needed the money (2002) 7,5
Vieux Carrè (2004) 7
Siti di riferimento
Idahomusic
Sliding Past
Jeff Martin

Recycle - The Factory Years
Post di servizio per tutti quelli che hanno ancora i Joy Division nel cuore: due bloggers, 50£note e Mr. A.L. hanno realizzato un lavoro che definirei monumentale: la ripubblicazione in forma digitale[1] di tutti i singoli del gruppo, fuori catalogo da tempo, completi di parte grafica ed istruzioni per chi volesse realizzare una copia fisica dei cd.
Lavoro monumentale perchè è la seconda parte del progetto "Recycle - The Factory Years", la cui prima parte ha visto la realizzazione di 20 (!) singoli dei New Order.
Il progetto "Recycle" è un vero e proprio atto d'amore verso la musica di Joy Division/New Order: per ogni singolo i due amici sono andati a cercare la versione che "suona" meglio tra vinili e cd, andando a cercare tutti i formati esistenti (tra 7", 12", ristampe, demo, etc.), riunendo in ogni singolo tutte le diverse versioni, rimasterizzate in modo da farle suonare "bene" insieme.
Due esempi: per "Love Will Tear Us Apart" ai due pezzi del singolo originale ("Love..." e "These Days") sono stati aggiunti "The Sound of Music" e la prima versione di "Love..."[2], registrate insieme a "These Days" al Pennine Studio nel gennaio 1980.
Ci sono anche due remix di metà anni '90, il primo trascurabile e il secondo pessimo...
"Licht Und Blindheit" è invece il singolo pubblicato dalla piccola etichetta francese Sordide Sentimental contenente "Atmosphere" e "Dead Souls".
In questa riedizione sono presenti anche Ice Age (pitch corrected) e una seconda versione di Dead Souls (pitch corrected), nelle note della release è spiegato in dettaglio il motivo della pitch correction.[3]
In sintesi, durante la sovraincisione delle parti vocali di "Atmosphere" il nastro era stato accelerato per permettere una intonazione meno difficoltosa a Ian Curtis, e la stessa cosa era stata fatta per gli altri due pezzi registrati nella stessa sessione, ma mentre per il primo la velocità corretta era stata ripristinata durante il mixdown, gli altri due pezzi sono sempre stati pubblicati a una velocità errata.
Insomma, un lavoro assolutamente degno di nota, realizzato professionalmente e con grandissima cura alla qualità del risultato.
Dunque: andate sul sito dedicato al progetto Recycle, scaricate gli otto singoli dei Joy Division e almeno i primi quattro dei New Order, avrete 40 + 14 canzoni da ascoltare nel miglior modo possibile, in modo assolutamente legale e gratuito.[4]
Note e links:
[1] Sono in formato m4a/256k, ovvero il formato "nativo" di iTunes. Chi vuole può inserire qui il solito discorso su formati/supporti fonografici/confezioni. Io li ho scaricati e messi direttamente nell'iPod.
[2] La versione di "Love..." utilizzata per il singolo è quella registrata nuovamente durante le session di Closer.
[3] A margine, questo singolo appena riascoltato mi sembra in serissima competizione con "Strawberry Fields/Penny Lane" per il titolo di miglior singolo di sempre: l'accoppiata "Atmosphere/Dead Souls" è stata assurdamente rilasciata in tiratura limitata per una semi-sconosciuta etichetta francese, una specie di suicidio commerciale per la Factory Records. Che non era una major, e forse questo qualcosa vuol dire...
[4] Sono un po' le sfighe di questa era digital-internettiana, fino a pochi anni fa una cosa del genere sarebbe stata semplicemente impensabile, lasciando così che questa musica fosse conosciuta solo dai pochi eletti che erano riusciti a procurarsi i vinili originali. Ah, bei tempi...
Lavoro monumentale perchè è la seconda parte del progetto "Recycle - The Factory Years", la cui prima parte ha visto la realizzazione di 20 (!) singoli dei New Order.
Il progetto "Recycle" è un vero e proprio atto d'amore verso la musica di Joy Division/New Order: per ogni singolo i due amici sono andati a cercare la versione che "suona" meglio tra vinili e cd, andando a cercare tutti i formati esistenti (tra 7", 12", ristampe, demo, etc.), riunendo in ogni singolo tutte le diverse versioni, rimasterizzate in modo da farle suonare "bene" insieme.
Due esempi: per "Love Will Tear Us Apart" ai due pezzi del singolo originale ("Love..." e "These Days") sono stati aggiunti "The Sound of Music" e la prima versione di "Love..."[2], registrate insieme a "These Days" al Pennine Studio nel gennaio 1980.
Ci sono anche due remix di metà anni '90, il primo trascurabile e il secondo pessimo...
"Licht Und Blindheit" è invece il singolo pubblicato dalla piccola etichetta francese Sordide Sentimental contenente "Atmosphere" e "Dead Souls".
In questa riedizione sono presenti anche Ice Age (pitch corrected) e una seconda versione di Dead Souls (pitch corrected), nelle note della release è spiegato in dettaglio il motivo della pitch correction.[3]
In sintesi, durante la sovraincisione delle parti vocali di "Atmosphere" il nastro era stato accelerato per permettere una intonazione meno difficoltosa a Ian Curtis, e la stessa cosa era stata fatta per gli altri due pezzi registrati nella stessa sessione, ma mentre per il primo la velocità corretta era stata ripristinata durante il mixdown, gli altri due pezzi sono sempre stati pubblicati a una velocità errata.
Insomma, un lavoro assolutamente degno di nota, realizzato professionalmente e con grandissima cura alla qualità del risultato.
Dunque: andate sul sito dedicato al progetto Recycle, scaricate gli otto singoli dei Joy Division e almeno i primi quattro dei New Order, avrete 40 + 14 canzoni da ascoltare nel miglior modo possibile, in modo assolutamente legale e gratuito.[4]
Note e links:
[1] Sono in formato m4a/256k, ovvero il formato "nativo" di iTunes. Chi vuole può inserire qui il solito discorso su formati/supporti fonografici/confezioni. Io li ho scaricati e messi direttamente nell'iPod.
[2] La versione di "Love..." utilizzata per il singolo è quella registrata nuovamente durante le session di Closer.
[3] A margine, questo singolo appena riascoltato mi sembra in serissima competizione con "Strawberry Fields/Penny Lane" per il titolo di miglior singolo di sempre: l'accoppiata "Atmosphere/Dead Souls" è stata assurdamente rilasciata in tiratura limitata per una semi-sconosciuta etichetta francese, una specie di suicidio commerciale per la Factory Records. Che non era una major, e forse questo qualcosa vuol dire...
[4] Sono un po' le sfighe di questa era digital-internettiana, fino a pochi anni fa una cosa del genere sarebbe stata semplicemente impensabile, lasciando così che questa musica fosse conosciuta solo dai pochi eletti che erano riusciti a procurarsi i vinili originali. Ah, bei tempi...
Thunder Road - Bruce Springsteen

Born to run è l'album di Springsteen che segna il passaggio dallo status di rocker famoso solo nel New Jersey, per i suoi interminabili e super energetici concerti, a stella del firmamento internazionale della musica. I primi due album "Greetings from Asbury Park NJ" e "The Wild the Innocent & the E street shuffle" non ebbero il successo che la casa discografica si attendeva. Springsteen si trovava di fronte al bivio, da una parte una onesta carriera, probabilmente a declinare lentamente, in ambito locale, e dall'altra parte l'ultima occasione per diventare il Boss. Si sa com'è andata.Il disco si apre con "Thunder road". Comincia con le note stridenti dell'armonica a bocca e di un pianoforte. La canzone secondo me è struggente. Ha una particolarità: è posizionata in apertura di disco quando dovrebbe essere posta in chiusura. Armonica….pianoforte …la voce di Springsteen… "The screen door slams.....Roy Orbison's singing for the lonely", sottintendono che qualcosa sia già successo. Molti dicono che la canzone sia trascinante e colgono tutt'altro che il senso di nostalgia, che ravviso io. Allora per controprova provate ad ascoltarne la versione che si trova, oltre che in decine di bootleg, su "Live 1975-1985".:è' completamente diversa. Credo che si possa spiegare questa differenza di sensazioni che si provano circa la medesima canzone, facendo alcune considerazioni. Una prima è legata all'arrangiamento della stessa. Su "Born to run" , la canzone nasce, in fase di composizione, al pianoforte, gli arrangiamenti sono ricchi, forse troppo, e ne accentuano il tono epico, della partenza verso un futuro di successo, solo l'armonica ne caratterizza un aspetto che al tempo era senz'altro presente all'autore, quello del lasciare il mondo che lo ha visto crescere. Nell'arrangiamento molto più scarno e semplice proposto in "Live 1975-1985" invece mette l'accento sul passato, su qualcosa di irripetibile, sulla sua formazione, su un mondo che non c'è più, tutto ciò che è qui esplicito era già implicito nell'originale. Springsteen stava partendo, si stava trasformando, la sua sensibilità, il suo mondo poetico era cambiato, maturato. Qui il boss parla di sé e di tutti noi che cresciamo, che lasciamo le stanze, le strade della nostra infanzia, della nostra giovinezza, i nostri ricordi e gli oggetti che li ospitano. Qui non siamo più ad Asbury park, potrebbe essere qualunque luogo dell'america o del mondo.
I personaggi che Springsteen ci propone diventano universali, come avviene nella grande letteratura, trascendono il tempo e lo spazio e noi ci possiamo riconoscere in loro ora come trent'anni fa o fra trent'anni.L'autore diventa adulto, così come i suoi testi, la sua musica; ancora una citazione del boss:"Quando la vetrata sbatte in Thunder Road non ci troviamo più necessariamente lungo la costa del New Jersey. Potremmo essere ovunque in America. Così iniziarono a prendere forma i personaggi, di cui avrei delineato le vite nei decenni successivi. Quello fu l'album in cui superai le mie concezioni adolescenziali dell'amore e della libertà."Infine c'è una particolarità del modo di scrivere canzoni di Springsteen, che si trova già in Thunder road e per estensione nell'album Born to run. Si tratta di questo: in alcune canzoni, l'ho notato soprattutto in quelle di maggior successo, la scrittura della musica e dei testi sembrano andare in contraddizione, su due vie divergenti. Così l'arrangiamento fin troppo ricco di Thunder road evoca un incedere grandioso, di speranze e sempre nuovi orizzonti, mentre il testo è permeato di dolore e nostalgia i versi finali della canzone dicono:
"It's a town full of losers ,And i'm pulling out of here to win"
"E' una città di perdenti, e io me ne sto andando per vincere"
Questi versi dicono molte cose, dicono che si allontana dalla sua città, dai suoi affetti, costretto a cercare una rivincita e il successo altrove, è anche lui, e ne è consapevole, tra i perdenti e l'unica reazione possibile è la partenza.
Anni dopo, nella sua canzone di maggior successo "Born in the U.S.A.", accanto ad un testo durissimo, che è un pugno nello stomaco al modo di vivere americano e alle condizioni di vita dei poveri in america (ne riporto a titolo esemplificativo solo i primi due versi):
"Born down in a dead man's town, The first kick was when i hit the ground"
"Nato in una città di morti, Il primo calcio l'ho preso quando ho toccato terra"
si affianca una musica che al contrario sembra un inno all'"american way of life", tanto che la canzone fu pesantemente strumentalizzata da Reagan negli anni '80, e solo relativamente di recente Springsteen l'ha riconfezionata con un arrangiamneto acustico che ha tolto tutti i dubbi interpretativi circa il reale significato da attribuirle.Tutta la carriera di Springsteen a cominciare dalla metà degli anni settanta e ad arrivare alla maturità degli anni 90 sembra venata da questa schizofrenia testo-musica, quasi avesse bisogno di suonare dal vivo per molto tempo le sue canzoni perché queste si stabilizzino su un'interpretazione definitiva, vengano sviluppate dal loro nucleo originale.
I personaggi che Springsteen ci propone diventano universali, come avviene nella grande letteratura, trascendono il tempo e lo spazio e noi ci possiamo riconoscere in loro ora come trent'anni fa o fra trent'anni.L'autore diventa adulto, così come i suoi testi, la sua musica; ancora una citazione del boss:"Quando la vetrata sbatte in Thunder Road non ci troviamo più necessariamente lungo la costa del New Jersey. Potremmo essere ovunque in America. Così iniziarono a prendere forma i personaggi, di cui avrei delineato le vite nei decenni successivi. Quello fu l'album in cui superai le mie concezioni adolescenziali dell'amore e della libertà."Infine c'è una particolarità del modo di scrivere canzoni di Springsteen, che si trova già in Thunder road e per estensione nell'album Born to run. Si tratta di questo: in alcune canzoni, l'ho notato soprattutto in quelle di maggior successo, la scrittura della musica e dei testi sembrano andare in contraddizione, su due vie divergenti. Così l'arrangiamento fin troppo ricco di Thunder road evoca un incedere grandioso, di speranze e sempre nuovi orizzonti, mentre il testo è permeato di dolore e nostalgia i versi finali della canzone dicono:
"It's a town full of losers ,And i'm pulling out of here to win"
"E' una città di perdenti, e io me ne sto andando per vincere"
Questi versi dicono molte cose, dicono che si allontana dalla sua città, dai suoi affetti, costretto a cercare una rivincita e il successo altrove, è anche lui, e ne è consapevole, tra i perdenti e l'unica reazione possibile è la partenza.
Anni dopo, nella sua canzone di maggior successo "Born in the U.S.A.", accanto ad un testo durissimo, che è un pugno nello stomaco al modo di vivere americano e alle condizioni di vita dei poveri in america (ne riporto a titolo esemplificativo solo i primi due versi):
"Born down in a dead man's town, The first kick was when i hit the ground"
"Nato in una città di morti, Il primo calcio l'ho preso quando ho toccato terra"
si affianca una musica che al contrario sembra un inno all'"american way of life", tanto che la canzone fu pesantemente strumentalizzata da Reagan negli anni '80, e solo relativamente di recente Springsteen l'ha riconfezionata con un arrangiamneto acustico che ha tolto tutti i dubbi interpretativi circa il reale significato da attribuirle.Tutta la carriera di Springsteen a cominciare dalla metà degli anni settanta e ad arrivare alla maturità degli anni 90 sembra venata da questa schizofrenia testo-musica, quasi avesse bisogno di suonare dal vivo per molto tempo le sue canzoni perché queste si stabilizzino su un'interpretazione definitiva, vengano sviluppate dal loro nucleo originale.
The The: alchimista solitario degli anni '80
Per i giovanissimi forse il doppio articolo del titolo non dirà molto. Per chi invece negli anni '80 non era un bambino Matt Johnson, in arte The The, dovrebbe essere un nome noto. Riuscì a conciliare il post punk con il pop senza vendersi l'anima, malgrado l'inaspettato e clamoroso successo di Uncertain smile, singolo che nel 1983 diventò un tormentone ballato nelle discoteche pseudo-alternative e passato a ripetizione in tutte le radio. Marchi di fabbrica erano l'indimenticabile introduzione di xilofono e il lungo assolo finale di pianoforte di Jools Holland. L'album in questione era Soul Mining, ma fu con i due dischi successivi: Infected del 1987 e Mind Bomb del 1989 che The The mise a punto il suo stile da songwriter di classe, attento ai temi sociali e politici, insieme al talento da polistrumentista capace di appropriarsi dei generi e miscelarli con una formula originale ed inimitabile.
Splendidi brani, molti dei quali trasformati in video, come Infected, la title track che accenna alla diffusione dell'Aids (massimo picco proprio in quegli anni); splendidi l'introduzione serrata di percussioni tribali e l'assolo di tromba a metà brano. Sweet bird of truth, invece è il primo brano della facciata B che si scaglia contro la politica imperialista delle grandi potenze, mentre Heartland è una critica alla decadenza dell'Inghilterra thatcheriana: questo è il 51° stato degli Stati Uniti.
L'altro disco imperdibile è Mind Bomb. Con The The collaborò Johnny Marr, ex chitarrista degli Smith che fa sentire la sua presenza in tutti i brani con riff incisivi e con l'armonica; in Kingdom of Rain e Good Morning Beautiful c'è Sinead O'Connor al canto. Lo stile musicale di Johnson è piuttosto indefinibile; sicuramente originale e complesso, risente agli inizi della tipica matrice pop/dance anni '80 per poi evolversi e contaminarsi con il blues-rock, il folk ed il funk. Questo è un album dall'impatto viscerale dove i brani si sviluppano come per metamorfosi, prendendo forma lentamente; durano infatti quasi tutti dai cinque minuti in su. I testi, quasi profetici, spaziano affrontando temi come le religioni, il capitalismo e l'incombente globalizzazione. Struggente e seducente, quest'opera è forse il capolavoro del genio indefinibile di Johnson. (Scaruffi).
Curioso destino quello di The The, per certi versi simile a quello dei Talk Talk, pure loro esplosi negli anni '80 con hit da classifica come It's my life e Such a same e in seguito allontanatisi progressivamente dalla scena commerciale synthpop per esplorare territori musicali distanti anni luce da quelli dei loro esordi.
Di The The si erano perse le tracce: dopo Dusk, uscito nel 1993, ben sette anni di silenzio fino alla rottura con la propria casa discografica nel 2000 e in seguito la decisione di pubblicare in proprio e distribuire sul web Nakedself, un album che non aggiunge nulla di interessante alle sue produzioni precedenti.
Di recente è uscita la colonna sonora per un film realizzato dal fratello, il regista Gerard Johnson, intitolato Tony, in uscita a febbraio.
Due canzoni
Ma non due canzoni qualunque.
Quelle che per me sono le due più belle canzoni italiane degli ultimi 15 anni, e sono tutte e due di Stefano Giaccone.
Entrambe tratte dal suo primo disco "solo", quello pubblicato nel 1998 con lo pseudonimo di Tony Buddenbrook, "Le stesse cose ritornano".
E siccome la coerenza non è una virtù che molto mi interessi, metto qui i due "video" che ho caricato su YouTube e trascrivo pure i testi, che mi sembrano bellissimi.
Trovare il cd adesso non è facilissimo, ma se digitate "indieitalia" su Google potrebbe essere un buon punto di partenza per recuperarne una copia in m3p o pm3, una di quelle robe lì, digitali e orribili.
E se questi due pezzi non vi piacciono almeno un po', a mio parere potete anche cominciare a preoccuparvi: mica basta respirare per essere vivi.
Il sarto
Ci sarà tempesta dice il sarto
la sua forbice punta il cielo
la mia voce è una moneta di ferro
sepolta nella terra più lontana che so
nemmeno dopo un mese posso scambiarmi
per uno di qua, nemmeno dopo un mese
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
A qualcosa che ci dev'essere più in là
e bisogna avere occhi chiari e una poesia per ogni luna
o mille palchi o mille torri
per avvistare una vela che non so dire
come sarà, che colore avrà
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
Pure il sarto, lui, è di un altro mondo
da trent'anni taglia stoffe nel modo più esatto
vive nella stanza in affitto con sua moglie
dentro un ritratto
nuvole nere ora ci coprono
ma lui di certo non le vedrà
Le vedo io riflesse negli occhiali scheggiati
come il suo mestiere che muore
ma la sua mano resta precisa come tagliasse qualcosa
solo per me
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
un altro temporale che passerà
Cosa ci siamo persi
(Concerto in Sardegna)
Sprofondato in una nuvola grigia
che non capisco se è il fumo
o sono i miei pensieri
Nel salone del bar i soli che beviamo
gli arabi seduti sono statue
di sabbia e rancore
Non so perchè non riesco a scordare
le ultime parole dette
all'ombra della nostra fine
saranno gli occhi del ricordo
che bruceranno per primi
nella calce bianca dei giorni
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Da questo ponte è bello pensare
che laggiù nella notte
ci sono isole e montagne
La nostra voce ha un'ala spezzata
quattro muri di troppo e pazienza indurita
Da questo ponte è bello pensare
che qualcuno ci aspetta
magari solo per salutare
come vagabondi del Dharma, come Andrè Gide
come se Dio da lassù si mettesse a gridare
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Niente di niente, l'ultima bestemmia
adesso sono stanco anche di fissare le stelle
è l'amore che ci graffia e ci fa ammalare
o è la paura di non poterci lasciare
vedrai che domani anche questo cielo andrà bene
anche questo andrà bene, lo sai
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Quelle che per me sono le due più belle canzoni italiane degli ultimi 15 anni, e sono tutte e due di Stefano Giaccone.
Entrambe tratte dal suo primo disco "solo", quello pubblicato nel 1998 con lo pseudonimo di Tony Buddenbrook, "Le stesse cose ritornano".
E siccome la coerenza non è una virtù che molto mi interessi, metto qui i due "video" che ho caricato su YouTube e trascrivo pure i testi, che mi sembrano bellissimi.
Trovare il cd adesso non è facilissimo, ma se digitate "indieitalia" su Google potrebbe essere un buon punto di partenza per recuperarne una copia in m3p o pm3, una di quelle robe lì, digitali e orribili.
E se questi due pezzi non vi piacciono almeno un po', a mio parere potete anche cominciare a preoccuparvi: mica basta respirare per essere vivi.
Il sarto
Ci sarà tempesta dice il sarto
la sua forbice punta il cielo
la mia voce è una moneta di ferro
sepolta nella terra più lontana che so
nemmeno dopo un mese posso scambiarmi
per uno di qua, nemmeno dopo un mese
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
A qualcosa che ci dev'essere più in là
e bisogna avere occhi chiari e una poesia per ogni luna
o mille palchi o mille torri
per avvistare una vela che non so dire
come sarà, che colore avrà
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
Pure il sarto, lui, è di un altro mondo
da trent'anni taglia stoffe nel modo più esatto
vive nella stanza in affitto con sua moglie
dentro un ritratto
nuvole nere ora ci coprono
ma lui di certo non le vedrà
Le vedo io riflesse negli occhiali scheggiati
come il suo mestiere che muore
ma la sua mano resta precisa come tagliasse qualcosa
solo per me
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
un altro temporale che passerà
Cosa ci siamo persi
(Concerto in Sardegna)
Sprofondato in una nuvola grigia
che non capisco se è il fumo
o sono i miei pensieri
Nel salone del bar i soli che beviamo
gli arabi seduti sono statue
di sabbia e rancore
Non so perchè non riesco a scordare
le ultime parole dette
all'ombra della nostra fine
saranno gli occhi del ricordo
che bruceranno per primi
nella calce bianca dei giorni
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Da questo ponte è bello pensare
che laggiù nella notte
ci sono isole e montagne
La nostra voce ha un'ala spezzata
quattro muri di troppo e pazienza indurita
Da questo ponte è bello pensare
che qualcuno ci aspetta
magari solo per salutare
come vagabondi del Dharma, come Andrè Gide
come se Dio da lassù si mettesse a gridare
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Niente di niente, l'ultima bestemmia
adesso sono stanco anche di fissare le stelle
è l'amore che ci graffia e ci fa ammalare
o è la paura di non poterci lasciare
vedrai che domani anche questo cielo andrà bene
anche questo andrà bene, lo sai
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Supper's Ready - Genesis

"Supper's ready" dall'abum Foxtrot dei Genesis anno 1972. Tutto è bello in questo capolavoro dei Genesis. L'incredibile copertina surreale, barocca, simbolista. Quanto tempo passato a guardarla. La misteriosa "FoxyLady" sul lastrone di ghiaccio. I cacciatori, quello con il naso da Pinocchio, quello che si asciuga le lacrime, quello con la faccia da scimmia ed un orecchio alla "spock" quello con la faccia verde. Il ciclista che si sta avvicinando a gran velocità, i sette membri del ku-klux-klan in processione con la croce, la balena (di pinocchio?) il sottomarino (ventimila leghe sotto i mari?). Non lo so, ci ho sognato su questa come su mille altre copertine, fantasticato, cercato di trovare simboli, significati, faceva parte del gioco. In questo momento sto confrontando la copertina dell'album e quella del cd, in quest'ultima mancano metà dei personaggi che ho elencato prima, si vedono giusto la "foxylady" e tre dei cacciatori, pochino per poter ancora viaggiare con la fantasia.
"Supper's ready" occupa, con "Horizons" tutta la facciata B dell'album ed è lunga 23 minuti; minutaggi d'altri tempi, dei tempi eroici del progressive-rock. Una suite, una miniera di idee, quanto ad invenzioni ci si potrebbero ricavare parecchi album. Ma quelli erano per i Genesis tempi di incontrollabile creatività, bisogno artistico di esprimersi incontenibile. Qui la forma canzone per Gabriel già non è più sufficiente, ha bisogno di spazio di esprimersi artisticamente su più livelli contemporaneamente, il livello musicale, letterario, teatrale: i suoi famosi travestimenti vera sceneggiatura dei testi delle canzoni, invenzioni continue tese all'arte totale. Tempi di grande speranze ed illusioni per la musica rock, stava diventando grande ed aveva bisogno di affermarlo, aveva sete di riconoscimenti. Li ha avuti.La suite è divisa in sette movimenti (di solito si parla di movimenti nella musica classica...forse vorrà dire qualcosa pure questo) senza soluzioni di continuità, non ci sono spazi "bianchi" tra un movimento e l'altro."Walking across the sitting room..." così comincia il primo movimento: "Lover's Leap". La voce di Gabriel, bellissima, molto espressiva, sostenuta da un arpeggio leggerissimo di chitarra, interpreta ogni sfumatura, ogni piega del testo, prende letteralmente per mano l'ascoltatore e lo accompagna in "Lover's Leap" e poi per tutta la canzone non abbandonandolo mai, esattamente come la voce di un adulto che legge una fiaba ad un bambino, affascinante!"I know a farmer who looks after the farm" e si passa dalla voce sostenuta solo dall'arpeggio di chitarra a tutti gli altri strumenti in particolare il fantastico mellotron di Banks e la qui splendida batteria di Collins, con quel suono di pelli tese pieno che fosse una pietanza riempirebbe rotonda tutto il palato. Da qui in avanti i cambi fantasmagorici di tempi ed atmosfere non si contano. Un crescendo di virtuosismi strumentali e vocali. Il suono delle tastiere detta i tempi, sostenuto dalla batteria sempre perfetta.I giochi di parole di Gabriel diventano arte trascendendo i testi:
"Supper's ready" occupa, con "Horizons" tutta la facciata B dell'album ed è lunga 23 minuti; minutaggi d'altri tempi, dei tempi eroici del progressive-rock. Una suite, una miniera di idee, quanto ad invenzioni ci si potrebbero ricavare parecchi album. Ma quelli erano per i Genesis tempi di incontrollabile creatività, bisogno artistico di esprimersi incontenibile. Qui la forma canzone per Gabriel già non è più sufficiente, ha bisogno di spazio di esprimersi artisticamente su più livelli contemporaneamente, il livello musicale, letterario, teatrale: i suoi famosi travestimenti vera sceneggiatura dei testi delle canzoni, invenzioni continue tese all'arte totale. Tempi di grande speranze ed illusioni per la musica rock, stava diventando grande ed aveva bisogno di affermarlo, aveva sete di riconoscimenti. Li ha avuti.La suite è divisa in sette movimenti (di solito si parla di movimenti nella musica classica...forse vorrà dire qualcosa pure questo) senza soluzioni di continuità, non ci sono spazi "bianchi" tra un movimento e l'altro."Walking across the sitting room..." così comincia il primo movimento: "Lover's Leap". La voce di Gabriel, bellissima, molto espressiva, sostenuta da un arpeggio leggerissimo di chitarra, interpreta ogni sfumatura, ogni piega del testo, prende letteralmente per mano l'ascoltatore e lo accompagna in "Lover's Leap" e poi per tutta la canzone non abbandonandolo mai, esattamente come la voce di un adulto che legge una fiaba ad un bambino, affascinante!"I know a farmer who looks after the farm" e si passa dalla voce sostenuta solo dall'arpeggio di chitarra a tutti gli altri strumenti in particolare il fantastico mellotron di Banks e la qui splendida batteria di Collins, con quel suono di pelli tese pieno che fosse una pietanza riempirebbe rotonda tutto il palato. Da qui in avanti i cambi fantasmagorici di tempi ed atmosfere non si contano. Un crescendo di virtuosismi strumentali e vocali. Il suono delle tastiere detta i tempi, sostenuto dalla batteria sempre perfetta.I giochi di parole di Gabriel diventano arte trascendendo i testi:
If you go down to Willow Farm,
to look for butterflies, flutterbyes,
gutterflies Open your eyes,
it's full of surprise,
everyone lies,
like the focks on the rocks,
and the musical box.
Ed ancora
There's Winston Churchill dressed in drag,
He used to be a British flag,
plastic bag, what a drag.
The frog was a prince,
the prince was a brick,
the brickWas an egg,
and the egg was a bird
Ci sono poi punti nella suite che trovo inarrivabili per inventività e bellezza della musica. Siamo circa a metà del 5° movimento, "Willow farm", c'è un cambio di tempo che è anche cambio di canzone, di tutto, di prospettiva: uno stop, un colpo di fischietto, una porta d'automobile?! (yellow submarine?) che si chiude una voce fuori campo dice ok! la voce di Gabriel e quella di Collins!? che dialogano (Collins in falsetto!).Un flauto dolce introduce "Apocalypse in 9/8", un crescendo strumentale, Gabriel che incalza raccontando lo scontro finale con il Drago che esce dal mare e le fiamme che scendono dal cielo, un intermezzo in cui c'è un assolo splendido e molto progressivo di Banks con la batteria di Collins che lo sostiene e che gli dà continui spunti: sono senza parole. Gabriel riprende urlando "666 is no longer alone".Finalmente, come in ouverture 1812 di Tchaikovsky a celebrare la vittoria su Napoleone, le campane introducono l'ultimo movimento.
Lord Of Lords,King of Kings,
To take them to the new Jerusalem.
Quarant'anni di musica italiana
Sarà perché questo blog si chiama Sunday Morning e non Sabato Mattina che quasi mai si è parlato di musica italiana. Allora lo voglio fare io alla mia maniera, sfogliando l'album dei ricordi e aggiornando un vecchio post nel quale avevo elencato i trenta dischi italiani che ho più amato e ascoltato.
Finito il 2010 inizia un nuovo decennio e sono passati quasi 40 anni da quando ascolto musica. Ci sono esperienze che restano nitide e indelebili nella memoria, momenti di snodo in cui la propria esistenza prende una direzione ben definita. A me capitò giovanissimo quando con il mio motorino, andai al Festival della Gioventù (così si chiamavano allora): il mio primo concerto in assoluto. Quella sera decisi che avrei imparato a suonare. La musica italiana è stata il primo amore, poi abbandonato e infine parzialmente ritrovato. Sono cresciuto suonando De André, Lolli, De Gregori e Guccini e ascoltando gli Area. Poi la ventata new wave scombussolò tutte le coordinate degli anni '70 lasciando ben poco di interessante nel panorama italiano del decennio successivo, a parte le avanguardie solitamente ignorate dai media. Negli anni '90 mi sono riavvicinato gradualmente e ancor di più nel nuovo millennio con l'esplosione della rete che finalmente ha offerto a tutti la possibilità di conoscere e farsi conoscere.
Come criterio ho deciso di inserire non più di tre album dello stesso artista, altrimenti quelli di Faber sarebbero stati molti di più.
Come criterio ho deciso di inserire non più di tre album dello stesso artista, altrimenti quelli di Faber sarebbero stati molti di più.
Ovviamente si tratta di un elenco che non pretende di essere esaustivo, ma che riflette solo i miei gusti personali, che a parte alcuni punti fermi, sono mutati e si sono evoluti (qualche volta forse involuti) col passare del tempo.
Non al denaro, non all'amore nè al cielo - Fabrizio De André 1971
Aria - Alan Sorrenti 1972
Banco de Mutuo Soccorso - Omonimo 1972
Storia di un impiegato - Fabrizio De André 1973
Arbeit Macht Frei - Area 1973
Far finta di essere sani - Giorgio Gaber 1973
I buoni e i cattivi - Edoardo Bennato 1974
Anima latina - Lucio Battisti 1974
Rimmel - Francesco De Gregori 1975
Ho visto anche degli zingari felici - Claudio Lolli 1976
Via Paolo Fabbri 43 - Francesco Guccini 1976
Bufalo Bill - Francesco De Gregori 1976
MONOtono - Skiantos 1978
Sick Soundtrack - Gaznevada 1980
The Secrets Lies in Rhythm - Surprize 1982
Siberia - Diaframma 1984
Italyan, Rum Casusu Citki - Elio e le Storie Tese 1992
Daniele Silvestri - Omonimo 1994
Ust - Ustmamo 1996
Eat the phikis - Elio e le Storie Tese 1996
Anime Salve - Fabrizio De André 1996
La morte dei miracoli - Frankie HI-NRG 1997
Tabula Rasa Elettrificata - C.S.I. 1997
Lingo - Almamegretta 1998
Rospo - Quintorigo 1999
Verità supposte - Caparezza 2003
La malavita - Baustelle 2005
Controlli - Africa Unite 2006
Requiem - Verdena 2007
Amen - Baustelle 2008
Sea Song - Robert Wyatt
Robert Wyatt, batterista cantante leader e fondatore dei Soft machine, storico gruppo del jazz-rock-progressive inglese, abbandona la sua innovativa creatura dopo appena 3 album. Pubblica un album solista "The end of an ear" considerato dalla critica un capolavoro del progressive e poi fonda un altro gruppo i "Matching mole" (gioco di parole sulla traduzione in francese di soft machine "molle machine"). Nel 1973 durante un party molto movimentato precipita dal 3° piano di un appartamento, sopravvive, ma riporta una paralisi permanente agli arti inferiori.
Questo incidente lo segnerà nella vita e nel prosieguo della sua carriera di musicista.
Da questo momento lascerà ovviamente la batteria di cui era considerato un maestro, per dedicarsi al canto ed alla composizione. I suoi strumenti d'elezione diventeranno la voce e le tastiere.
Nel 1974 pubblica un album che si intitola "Rock bottom", un manifesto della rinascita, dell'uscita dalla malattia, metaforicamente anche dalla menomazione, un ripensamento e riposizionamento artistico ed esistenziale.
Questo disco rappresenta e richiede anche all'ascoltatore un cambio di prospettiva radicale. Lo esige e lo merita.
Ho cominciato a scrivere volendo parlare di una canzone "Sea song" e mi rendo che è arduo perchè, facendo parte di un concept album ambizioso e difficile, è come prendere una frase di un grande scrittore e decontestualizzarla dal suo contesto.
Sea song è la canzone che apre il disco. E' strana, ha una melodia sghemba, che all'inizio, ai primi ascolti, ricordo che non riuscii a cogliere nella sua profonda bellezza.
Ci vuole umiltà per capirla ed apprezzarla, bisogna un po' abbandonare i propri schemi, rimettersi in discussione. Wyatt usa la metafora del mare, dell'acqua, per raccontare il suo viaggio esistenziale alla ricerca delle radici sue, della musica, e della vita.
Già l'acqua dalla quale nasciamo individualmente nel ventre materno, nasciamo come specie, come vita sulla terra. Questo album, e la canzone che ne prendo a simbolo, è il racconto di tutto questo. L'acqua come luogo dove i movimenti ed i suoni sono diversi da quelli della terra ferma, l'acqua come luogo dove cercare il significato vero, ultimo delle cose superando per sempre la gabbia-dialettica significato-significante.
Morte e resurrezione, capire che l'importante è essere ciò che si è realmente e non ciò che ci è permesso d'essere. Recuperare la propria poliedricità, siamo umani e siamo composti da livelli multipli eppure spesso, se non quando ci troviamo davanti alla menomazione, alla malattia, sembra che ci accontentiamo di vivere come uomini ad una dimensione. Wyatt declina la propria disavventura umana, la sua realtà di invalido, rapportandola alla vita di tutti, la sua uscita dal tunnel diventa traccia per tutti di crescita esistenziale. Parallelamente spoglia la musica dai conformismi, dalle convenzioni dagli abbellimenti che spesso sono solo vuoto formalismo e va a recuperare le coordinate essenziali della melodia, la semplicità dello strumento voce; gli stessi testi vengono progressivamente destrutturati, le parole perdono il loro significante per recuperare il significato primigenio del suono, senza tempo, senza spazio, senza barriere linguistiche.
Questo incidente lo segnerà nella vita e nel prosieguo della sua carriera di musicista.
Da questo momento lascerà ovviamente la batteria di cui era considerato un maestro, per dedicarsi al canto ed alla composizione. I suoi strumenti d'elezione diventeranno la voce e le tastiere.
Nel 1974 pubblica un album che si intitola "Rock bottom", un manifesto della rinascita, dell'uscita dalla malattia, metaforicamente anche dalla menomazione, un ripensamento e riposizionamento artistico ed esistenziale.
Questo disco rappresenta e richiede anche all'ascoltatore un cambio di prospettiva radicale. Lo esige e lo merita.
Ho cominciato a scrivere volendo parlare di una canzone "Sea song" e mi rendo che è arduo perchè, facendo parte di un concept album ambizioso e difficile, è come prendere una frase di un grande scrittore e decontestualizzarla dal suo contesto.
Sea song è la canzone che apre il disco. E' strana, ha una melodia sghemba, che all'inizio, ai primi ascolti, ricordo che non riuscii a cogliere nella sua profonda bellezza.
Ci vuole umiltà per capirla ed apprezzarla, bisogna un po' abbandonare i propri schemi, rimettersi in discussione. Wyatt usa la metafora del mare, dell'acqua, per raccontare il suo viaggio esistenziale alla ricerca delle radici sue, della musica, e della vita.
Già l'acqua dalla quale nasciamo individualmente nel ventre materno, nasciamo come specie, come vita sulla terra. Questo album, e la canzone che ne prendo a simbolo, è il racconto di tutto questo. L'acqua come luogo dove i movimenti ed i suoni sono diversi da quelli della terra ferma, l'acqua come luogo dove cercare il significato vero, ultimo delle cose superando per sempre la gabbia-dialettica significato-significante.
Morte e resurrezione, capire che l'importante è essere ciò che si è realmente e non ciò che ci è permesso d'essere. Recuperare la propria poliedricità, siamo umani e siamo composti da livelli multipli eppure spesso, se non quando ci troviamo davanti alla menomazione, alla malattia, sembra che ci accontentiamo di vivere come uomini ad una dimensione. Wyatt declina la propria disavventura umana, la sua realtà di invalido, rapportandola alla vita di tutti, la sua uscita dal tunnel diventa traccia per tutti di crescita esistenziale. Parallelamente spoglia la musica dai conformismi, dalle convenzioni dagli abbellimenti che spesso sono solo vuoto formalismo e va a recuperare le coordinate essenziali della melodia, la semplicità dello strumento voce; gli stessi testi vengono progressivamente destrutturati, le parole perdono il loro significante per recuperare il significato primigenio del suono, senza tempo, senza spazio, senza barriere linguistiche.
The Best of the Rest - 2010

Mai come in questo 2010 la musica ha significato per me un gesto di misericordia. Oh mercy e anche un fistful of mercy. Non posso dire che la musica mi abbia salvato la vita, in questo 2010, ma c'è andata vicino. E se ciò è stato possibile, devo ringraziare due angioletti custodi che mi hanno sovvenzionato, avvisato, regalato dosi di musica essenziali, nelle persone di Ch. e The Mighty Diana.
Non so se debba uscire ancora qualche disco clamoroso in questo ultimo scorcio di 2010, ma ecco qua una lista, non in ordine di preferenza, ma di memoria. A cui allego le due canzoni che mi sono piaciute di più quest'anno e anche i concerti memorabili del 2010, che sono stati veramente concerti memorabili, tra i più belli della mia (lunga) vita.
DISCHI:
John Grant, Queen of Denmark
The National - High Violet
Natalie Merchant - Leave Your Sleep
The Secret Sisters, The secret Sisters
The Tallest Man on Earth - The Wild Hunt
Robert Plant - Band of Joy
Emma Tricca, Minor White
Josh Ritter - So Runs The World Away
Midlake - The Courage Of Others
Fistful of Mercy, As I call you down
Elton John-Leon Russell, The Union
Neil Young, Le noise
Mavis Staples, You’re not alone
Band of Horses, Infinite arms
Jakob Dylan, Women and country
Ry Cooder and Chieftains, San Patricio
ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER, True Love Cast Out All Evil
Ristampe:
Bob Dylan, The Original Mono Recordings, John Martyn, Live at Leeds
Concerti:
Kris Kristofferson, Vigevano; Tallest Man on Earth, Londra; John Grant + Midlake, Londra; Fistful of Mercy, Milano; Josh Ritter + Swell Season, Milano
Canzone dell’anno:
Annabelle Lee, Josh Ritter; I and Love and You, Avett Brothers; Rulers, Ruling all Things, Midlake
Arab Strap - Dieci anni di turbolenze
Anzi, diec'anni di lacrime, come vergava l’antologia terminale che li conduceva a fine corsa nel 2006. E di meraviglie, aggiungerei, ovviamente a mio arbitrario parere. In un Blow Up recente, alle prese con le ristampe deluxe dei primi due album del duo scozzese, il recensore di turno li ha definiti brillantemente gruppo formula che quando finisce butta via lo stampo, ad oggettiva conferma del fatto che la loro peculiarità resterà per sempre inesorabilmente inimitabile.
Circostanze stellari. In quella terra di mezzo che è la provincia di Falkirk nel 1995 si incrociano i destini di due ragazzi poco più che ventenni, si narra interessati alla stessa ragazza e quindi non proprio in procinto di stringere amicizia. Aidan Moffat e Malcolm Middleton invece finiscono per trovare delle similitudini musicali ed iniziano ad unire le forze. O le debolezze, a seconda dei punti di vista; Arab Strap, a causa dell'esclusività, è sempre stata un’entità che si ama o si odia. Ai tempi in cui il gruppo era attivo usavo frequentare il forum ufficiale, i cui utenti denotavano una maniacalità a dir poco parossistica, fino al punto di scrivere in scozzese stretto, alla stregua dello stesso Moffat. La stampa italiana invece è sempre restata nel mezzo, tiepida, appena interessata, forse incapace di coglierne l’essenza pur gradendone l’originalità e la schiettezza.

Dicevo delle debolezze; tecnicamente cos’avevano i due da offrire? Poco o nulla. Moffat era tutto fuorché un vocalist, stonato, pigro e strascicato dagli ettolitri di birra ingeriti. Middleton era un chitarrista incapace di fare gli accordi barrè. Le premesse insomma non erano proprio esaltanti ma come spesso accade, chi possiede grande tecnica non ha creatività e viceversa. Se il secondo aveva un passato amatoriale a base di punk e metal, il primo era già in pista da un paio d’anni nei Bay, un altro duo in cui era batterista e comprimario del cantautore Jason Taylor. Nel loro carniere un paio di dischi oscuri di distribuzione pressoché locale, Alison Rae e Happy being different, contrassegnati da uno slow-core influenzato pesantemente da Codeine e Red House Painters. Nel booklet di Alison Rae Moffat appare in una forma fisica che non gli apparterrà più, magro, sbarbato e con un imbarazzante caschetto stile brit-pop-shoegaze, alle prese con le presunte avances di una donzella...
C’è bisogno di far carburare in fretta la scintilla che scatta col rosso Middleton. Inizialmente le attività dei due si sviluppano sugli arpeggi incerti di uno, sui ritmi pigri e sul recitato indolente dell’altro, in una specie di post-folk sbilenco aperto a distorsioni improvvise. Vengono assemblati due demos; il primo, ad ascoltarlo oggi, è tutto fuorché entusiasmante. Il secondo invece denota già una certa crescita e viene spedito alla Chemikal Underground, i proprietari fiutano bene e capiscono di avere a che fare con un oggetto misterioso, cosicché l’ingaggio è presto fatto. Nel settembre del 1996 quindi si materializza il primo singolo The first big weekend, che ottiene fin da subito una notevole attenzione a livello indipendente. Trattasi di un techno-folk alquanto spiazzante, in cui un azzeccato giro acustico di Middleton viene supportato da un beat digitale da rave-party. Così il racconto di un pomeriggio di estate in cui la nazionale di calcio scozzese viene sconfitta agli Europei di calcio diventa un pretesto per Moffat per iniziare a spartire col mondo il suo lirismo cinico, iperrealista e crudamente auto-confidenziale.
Tempo un mese ed è il momento del debutto lungo, con The week never starts round here, che vede i due ancora un po’ indecisi sullo stile da sviluppare, sebbene si noti già la peculiarità del progetto e l‘impossibilità di inquadrarlo in un genere preconfezionato. Nonostante i mezzi a disposizione siano aumentati, decidono comunque di restare intensamente lo-fi, senza quasi nessun contributo esterno. Coming down, il pezzo d’apertura, potrebbe far pensare a degli Slint in versione agreste e soporifera, con le chitarre e il basso di Middleton ad inseguire armonici scoperti, così come la lunga Deeper. Quando agiscono da trio a tutti gli effetti, confezionano scure divagazioni di spleen che ben poco hanno da spartire con il singolo che li aveva rivelati, come la stentorea Gourmet (cantata dal chitarrista), e la scampanellata di Kate Moss. Quando invece scarnificano gli arrangiamenti all’osso, si fa sentire l’influenza di Bill Callahan e Will Oldham, specie nel country di I work in a saloon, nella perdizione di Wasting, e nella rabbrividente Blood. Sembrano più scherzi che altro la lista di General plea to a girlfriend e il country-punk di Little girls, che finiscono più per denotare quell’incertezza sopra-citata che per contribuire alla resa finale. I pezzi che meritano il maggior risalto finiscono per essere The clearing, altro arpeggio minimalista questa volta sostenuto dai rimbombi di una batteria riverberata oltre misura, e l’accorato appello di Phone me tonight, per beatbox, violino gracchiante ed effetti. E’ proprio in questi ultimi due che la scrittura di Moffat accresce la propria rilevanza, con lo scoperchiamento di un mondo fatto di noia giovanile, birra, droghe, ragazze e i loro ragionamenti incomprensibili, di verità sbattute in faccia e di romanticismo mai banale.
Ingaggiano una sezione ritmica, il bassista Gary Miller e il bravissimo batterista David Gow, per suonare dal vivo. L’intento è quello di spiazzare, e dal vivo gli Arab Strap sembrano il contrario dei timidi introspettivi in studio. Nella ristampa deluxe di The week… viene inclusa la registrazione del primo concerto in assoluto in un club di Glasgow, che mostra un gruppo energico ed aggressivo. La loro tendenza a stravolgere le versioni di studio resterà una costante negli anni anche quando guadagneranno la discreta fama. Nel 1997 l’attività prosegue con 3 singoli: 1) The smell of outdoor cooking, pseudo-raga per acustica e organetto, abbinata al fragore noise di Themetune e la solitaria, nervosa middletoniana Blackstar. 2) The girls of summer, che diventerà una preferita live, nuova elucubrazione post-slintiana con progressione rumorosa, completato dalla festaiola Hey fever che segna una collaborazione con i Belle And Sebastian. 3) Il triplo remix di The clearing, con in evidenza la splendida versione cyber-dub di The Hungry Lions e quella trip-hop di Hanlow & Hilditch. Inoltre, in marzo hanno l’onore della prima chiamata di John Peel, alla cui session il quartetto live viene allargato a sestetto con i due tastieristi dei Belle And Sebastian. Eseguono una versione elettrico-frenetica di The smell of outdoor coking, le inedite Soaps e I Saw you, e l’hit single ribattezzato The first big peel thing per l’occasione, umanizzata dalla batteria di Gow e dalle coloriture di piano e organo.

Il tempo di smaltire le varie sbornie e i due tornano a lavorare sul secondo disco, che uscirà nella primavera del 1998 e dai più viene definito il loro capolavoro, Philophobia. Moffat abbandona sempre più la batteria in favore della drum-machine e si dedica alle tastiere, Middleton viene toccato da ispirazione divina. Lasciando perdere i celebri versi introduttivi di Packs of three, che hanno sviato tante orecchie distratte e così alimentato un luogo comune duro a morire, si tratta di una specie di concept in cui si dice il cantante racconti 13 storie dedicate a 13 sue ex-ragazze, una delle quali disegnata in copertina, nuda e a gambe incrociate. Ricordo che la prima volta che lessi le liriche pensai ad un paragone ingombrante che non ho mai abbandonato, cioè quello con il grande Charles Bukowski per la franchezza disarmante, le lunghe digressioni alcoliche, le depressioni cosmiche, gli assalti continui alle donne e le impennate di dolcezza infinita a smentire qualsiasi foggia di uomo duro che potesse fuorviare il lettore. Philophobia è una svolta decisiva: gli arrangiamenti sono ricchi, curatissimi e quasi barocchi, le songs omogenee e scorrono che è un piacere lubrico. Su tutte; la splendida Here we go, con fitta trama acustica, il tintinnio del piano e sequenza di abbandono totale. New birds, variante del tema Girls of summer ma dai risultati superiori. La commovente The night before the funeral, bossanova triste impreziosita da un delizioso assolo di tromba. L’evocativa melodia di Piglet, la scura Afterwards che vede la presenza della suadente vocalist Adele Bethel, l’atmosferica My favourite muse, il quadretto elegiaco di Islands (possibilmente il miglior testo di sempre di Moffat). In tutto il disco non c’è un momento in cui scade la qualità, e il contrasto fra la musicalità prevalentemente molto tranquilla e i testi di prevalente nichilismo crea un mix che grida al mondo l’unicità totale del duo, se ancora ce ne fosse stato bisogno.
Il successo di critica attira l’attenzione delle major, mentre nel frattempo Peel li chiama per una seconda sessions (momento topico la versione di The night before the funeral, con la chitarra distorta a sostituire la tromba originale), ed escono altri due singoli. Trippy, di supporto a Here we go, è la versione post-psichedelica di The first big weekend, dodici minuti avventurosi con tanto di fase techno-rave-party. Soaps, il pezzo più accessibile di Philophobia, ha il merito di includere due inediti di razza come Toy fights e Forest hills. Ma la Chemikal non può trattenerli a lungo e la Go! Beat, label di proprietà dei Portishead, se ne assicura le prestazioni. Non prima però, di congedarsi con un live stellare, Mad for Sadness, ascrivibile a best of della prima fase di carriera, su cui ho già indugiato nel mio blog.
Cosa si aspettassero le rispettive parti in termini di successo e/o vendita, non è dato di sapere. L’anno alla Go! Beat verrà ricordato come una parentesi poco entusiasmante dagli Arab Strap stessi, riconoscendo in parte l’errore di valutazione che poi poteva anche starci. Eppure i risultati artistici sono ancora a livelli straordinari. Qualcosa è cambiato nei due, al momento entrambi legati sentimentalmente e più sereni. Elephant Shoe è un modo di dire dei teenagers scozzesi sostitutivo di I love you, e ciò testimonia che dalla paura di amare Moffat è passato rapidamente all’altra sponda. Il fatto che ciò corrisponda ad un disco musicalmente più ostico e scarno di Philophobia, costituisce un altro contrasto stridente. Il battito digitale che apre Cherubs sembra quasi un cuore pesante che pulsa iperaccelerato. Middleton architetta tutto alla meraviglia come da tendenza, con gli intarsi chitarristici che si fanno sempre più arditi ed ipnotici (One four seven one, Leave the day free), Moffat inizia a sviluppare la sua sensibilità coi sampling e le tastiere minimali (le cascate di synth di Cherubs). E nello stesso modo in cui sbatteva la testa contro le donne fino all’anno prima, ora appare iper-protettivo e vicino alla sua donna anche nelle liti (la pastorale scurissima di Pyjamas). Insomma, non è un uomo tranquillo neppure nella stabilità, neanche nella solare mediterraneità della deliziosa Tanned, con assolo finale di tromba. Ma ci sono almeno 4 capolavori rimasti ineguagliati in Elephant Shoe. La decadenza soffusa di Autumnal, scandita da violoncello e pianoforte, e quella greve, a pieno regime strumentistico di Direction of strong man, il pezzo più loud, con le coloriture di organo e il finale in crescendo. E infine le ultime perle in scaletta, vincenti sul piano acustico-intimistico: Pro(your)-life, probabilmente la cosa più commovente che i due hanno fatto, in cui Moffat racconta dell’aborto della propria compagna,e lo fa incoraggiandola, proteggendola. Hello daylight, una delle trame più belle scritte da Middleton, un risveglio interrogativo sull’amore di tutti i giorni.

In Maggio arriva la terza ed ultima chiamata di John Peel, che a mio avviso è la migliore mai compiuta dai nostri: col supporto dei soliti Gow e Miller, e quindi di ritmica umana, i tre estratti dal disco nuovo assumono sembianze indefinibili, quasi da jazz fumoso alla moviola. Da non perdere la coda atmosferica di The drinking eye, l’elettrificazione di Pro(your)-life, i riverberi stratificati di Leave the day free. Con l’aggiunta di una cover shockante di Iggy Pop, pare suonata esclusivamente per l’occasione, Tiny girls, per piano e voce. E’ davvero spiazzante sentire Moffat biascicare con la sua flemma il famoso pezzo, ma ancor di più è l’entrata di Middleton che sfregia tutto orrendamente con un assolo dissonante…Come Peel stesso annunciava nelle presentazioni di rito (oltre a dichiararsi entusiasta e rapito), gli Arab Strap erano tornati a casa. Rescisso il contratto con la Go! Beat, venivano riaccolti all’ovile della Chemikal senza tante storie.
In Agosto del 2000 corono il mio sogno di vederli live ad Urbino, nella fantastica cornice della Fortezza Albornoz. L’attività concertistica fin dall’inizio aveva avuto pochissime pause, e resterà uno dei punti di forza artistici maggiori; avendo ascoltato parecchi bootleg, posso suffragare con certezza che erano soliti rivoluzionare le versioni in studio senza problemi.
Preceduto dall’atipico singolo Love Detective, un lounge poliziesco avvincente, nel 2001 esce il 4° album, The red thread. Una volta che il trademark è stato fissato, occorre mantenere lo standard e perché no, cercare di mantenersi su alti livelli. E i due, miracolosamente ci riescono e sfornano un lavoro tendenzialmente più ottimistico, non certo solare ma più aperto a situazioni melodiche a presa diretta. La delicatissima ballad d’apertura, Amor veneris, è poco più di un bozzetto elegiaco. Last orders e Scenery sono ritmate e con arrangiamenti ricchi, con una forma canzone ben definita. Moffat fa addirittura progressi con la modulazione del canto: l’iperbole sinfonica di Haunt me e l’atmo-disco di Turbulence non cercano tanto un consenso maggiore, ma finiscono per essere fra le cose più accessibili fino ad allora. Per chi preferisce ancora i lati oscuri, le perle sono ben selezionate: l’ipnosi bassistica di Infrared, il volo statico di Screaming in the trees. E soprattutto il meglio del lotto, ovvero il crescendo cosmico da pelle d’oca di The devil-tips e il mare tempestoso di The long sea.

L’attività live procede incessante in tutto il mondo, Australia compresa. Al ritorno a casa, i due staccano un attimo la spina e nel 2002 fanno uscire le prime puntate dei loro progetti personali. Middleton resta sul tradizionale con 5.14, Moffat si butta a pesce sulla macchina umanoide di Lucky Pierre. All’epoca non si pensava minimamente che tali prove fossero avvisaglie del futuro che li aspettava, ma in realtà segnavano un po’ la fine di un epoca, si sentiva il bisogno di qualche rinnovamento. I vecchi e fedeli compagni Miller e Gow abbandonano (il primo la musica del tutto, il secondo stava fondando i mediocri Sons And Daughters insieme alla Bethel) e vengono assoldate due ragazze fisse a violino e violoncello, Rieve e Sievewright. Segno eloquente che la propensione agli archi che era affiorata a tratti negli anni aveva bisogno di un impianto stabile. Monday at the Hug And Pint, che esce nella primavera del 2003, li vede pertanto protagonisti nella quasi totalità dei 13 pezzi in elenco. Una maggiore accessibilità ed eleganza caratterizza il suono generale: il primo singolo, The shy retirer, è una disco da camera ad alta velocità. L’altro, migliore Who named the days?, dolcissimo e soffuso pastorale. A parte la violenta ed epica Fucking little bastards, è un disco molto morbido in cui Moffat appare polemico, quasi sprezzante nei confronti della/e donna/e di turno, sempre più incapace di relazionarsi in modo diplomatico col mondo femminile, (apice la splendida Glue, la composizione migliore), ma non disdegna un tentativo romantico dei suoi (Serenade). Molto belle anche il valzer di Peep peep e la ballad pianistica di Middleton The week never starts round here. Peccato che altrove invece regni una stucchevolezza a tratti eccesiva, non tanto dovuta agli archi quanto ad un momento di ispirazione debole o comunque inadatta al crooning da poeta maledetto e alle tessiture del rosso. Di conseguenza, ritengo che Monday si possa inquadrare come il disco meno entusiasmante degli Arab Strap, tendenza confermata anche dal live a tiratura privata The cunted circus, che lascia pochissimo spazio al passato ed include due cover alquanto bizzarre (AC/DC e Van Halen), non propriamente entusiasmanti.
Evidentemente anche i due non restano molto convinti, anche se il pubblico che li apprezza è in continua espansione. Un altro live privato (Acoustic request show) li vede in solitudine, chitarra acustica e voce, ed è eloquente: i pezzi vengono scelti tramite sondaggio fra i fans, che privilegiano di gran lunga i primi due album, particolarmente Philophobia. Ma è evidente che i due hanno già la testa altrove e pubblicano, curiosamente sempre in contemporanea, la seconda puntata dei loro side project. Lucky Pierre con l’eccellente Touchpool, e Middleton con l’ottimo, più elettrico Into the woods.

Le coincidenze potrebbero far pensare al peggio, eppure i due hanno un colpo di reni, una scossa d’orgoglio e nel 2005 escono con The last romance, titolo programmatico che inizia a far preoccupare seriamente i fans su voci di scioglimento. Messi via gli archi, si tratta del disco più compatto ed asciutto che hanno mai realizzato, di breve durata (poco più di mezz’ora), e perché no, anche potente. Stink e No hope for us sono schegge furenti di spleen elettrificato senza tanti fronzoli. Non c’è più traccia di batterie elettroniche, e la mano di Middleton appare predominante in lungo e in largo, mentre Moffat è costantemente impegnato al canto, con i risultati migliori mai ottenuti. Gli highlights, oltre ai due titoli sopra, sono le rocciose Don’t ask me to dance, Speed-date, e l’atmosferica Dream sequence. E alla fine, ciò che sembra una sigla finale dal disorientante titolo There is no ending, sarabanda di fiati quasi pop. Escono in rapida successione ben tre singoli, e stupisce il fatto che alcune b-sides siano di assoluta eccellenza ed escluse dall’album, come la stupenda ballad The girl I loved before I fucked e la cupa Dead Air.
Nel febbraio 2006 il tour include Bologna e il set è improntato ovviamente su Last romance. Questa volta sul palco con i due ci sono un trio di giovani strumentisti, ineccepibili tecnicamente, specialmente il pianista. L’impressione di freddezza e sbrigatività però mi lascia un po’ interdetto, salvo poi ricredermi quando nel finale si concentrano sulle perle del passato. Poco tempo dopo l’annuncio diventa ufficiale, lo scioglimento è stato decretato. Un ultimo tour rifà il giro dell’Europa e a dicembre ritornano, sempre all’Estragon. La tristezza che mi attanaglia per la notizia viene mitigata da un bellissimo concerto, in cui appare chiaro che i due non si guardino in faccia neanche un momento. Mentre smontano il palco chiedo ad Aidan il perché della fine. Sconsolato, allarga le braccia, fa uno sguardo dispiaciuto e mormora That’s life!
In realtà il sito ufficiale (che curiosamente verrà bombardato e distrutto dagli spammers poco tempo dopo) fa chiarezza sul fatto che i due si dividono amichevolmente, consapevoli di aver portato l’esperienza ad una naturale conclusione e perché no, comunque aperti a future collaborazioni. La Chemikal sigilla il tutto con una compilation ai primi del 2006, Ten Years of Tears, eterogenea quanto destinata allo zoccolo duro di fans delusi. La cover è sarcastica: i due appaiono seduti ai lati di una stanza addobbata a festa, sguardi corrucciati e un cartello alle spalle che recita Enjoy your retirement. L’antologia è un accozzaglia di rarità, remix e ripescaggi in ordine puramente casuale, ma ha il merito di riportare alla luce alcuni episodi minori ma assolutamente di prestigio come Racket take your turn e To all a goodnight.
Fine delle trasmissioni, e della magia. I due prendono esclusivamente la loro strada solista, che purtroppo si rivela soltanto una discesa graduale nella mediocrità. Middleton negli ultimi 4 anni ha fatto uscire ben 3 album, uno più deludente dell’altro, contrassegnati da un cantautorato sterile e scontato. Dopo un altro episodio a nome Lucky Pierre, Moffat ha realizzato un disco spoken-word incomprensibile e ha varato A.M. & The best ofs, di fatto un duo con un giovane chitarrista. How to get heaven from Scotland, uscito l’anno scorso, è quasi imbarazzante nella sua pochezza stilistica. Segnali che in un certo senso fanno capire che è stato meglio così, lo scioglimento è avvenuto al momento giusto, i due hanno capito che il ciclo era chiuso e non sarebbe stato giusto imboccare il declino con quella sigla che li ha portati ad essere una stella di primissima grandezza del firmamento britannico a cavallo del millennio.
Però ci mancano. Come accennavo all’inizio, la Chemikal proprio quest’anno ha fatto uscire i primi due dischi in deluxe edition con aggiunte gustose, per chi magari si fosse perso la saga in tempo reale. Ed addirittura, in seconda battuta, rilascia un cofanetto limitato a 1000 copie intitolato Scenes of a sexual nature, mastodontica operazione che ripesca demos, EPs, inediti, Peel Sessions, a ruota libera. Queste operazioni nostalgiche contribuiscono ulteriormente ad alimentare il rimpianto di un grande gruppo alfiere e portabandiera dei sentimenti a 360°, venuto fuori dal nulla e con pochissimi mezzi a disposizione, ma stracolmo di idee e dalla cifra personale incalcolabile.

ALBUM
The week never starts round here (1996) 7/10
Philophobia (1998) 8,5/10
Elephant Shoe (1999) 8,5/10
The red thread (2001) 8/10
Monday at The Hug And Pint (2003) 6,5/10
The last romance (2005) 7/10
LIVE
Mad for sadness (1999) 8,5/10
The cunted circus (2003) 6,5/10
Acoustic request show (2004) 7/10
ANTOLOGIE
Singles (1998) 8/10
Ten years of tears (2006) 7/10
Scenes of a sexual nature (2010) 8/10
Island
We were lying in bed, staring at the moon, and I was wondering if I was supposed to be in love.
But we couldn't quite decide if the moon was full, but I thought, well, tonight it's full enough.
And this morning I was casually trying to sniff my fingers on the way back home.
I could smell you and I felt like a little boy.
Now we've been on these open seas far too long so take a breath, take my hand, there's land ahoy.
Pro-(your) life
Now you always say terminated,
I never hear you say aborted.
You just have to accept mistakes happen
And sometimes they have to be sorted.
You know I'd love it - a little us would be sweet.
But don't take that from your pro-life pal, she doesn't even eat meat.
It's as simple as this: the time's not right.
You need a new job and some sleep tonight.
The night before the funeral
The night before the funeral, I got some - I sneaked a young girl up the stairs and past my mum.
I took off her clothes and I played with her bits and she did the same but it took ages for me to come.
Too drunk and getting old...
It was a lovely show for a god I don't believe in.
I couldn't sing a single note at the service.
When they did "How Great Thou Art" all I could think of was my old l.p. of hymns by Elvis.
There's no such thing as sin...
I said to Laura, "I hope I know you forever and when I'm going, I'm going the Viking way. Lay me in a boat with my favourite things and set me on fire and send me on my way. Kick me out to sea..."
Here We Go
How am I supposed to walk you home when you're at least fifty feet ahead?
Cause you walked off in a huff and I'm that pissed I can't even remember what it was I said.
And I don't doubt you wouldn't touch him now, but let's face it, you always use to go for that kind.
And if you ever really wanted two men at once, all I'm saying is I better be one of the guys you've got in mind.
Here we go same time, same place.
I don't like the way you kiss his face.
It's not that there's no trust as such.
I'd love to make up but I've had to much.
Now you know fine well I'm staying, I've only ever carried out that threat once before.
And even then I coudn't get far and you're mum came and called me back before I'd even made it to the door.
Here we go same time, same place.
My embarassment versus your damp face.
We could down here or we could talk in bed.
But I'm afraid that's all, as I've already said.
We were lying in bed, staring at the moon, and I was wondering if I was supposed to be in love.
But we couldn't quite decide if the moon was full, but I thought, well, tonight it's full enough.
And this morning I was casually trying to sniff my fingers on the way back home.
I could smell you and I felt like a little boy.
Now we've been on these open seas far too long so take a breath, take my hand, there's land ahoy.
Pro-(your) life
Now you always say terminated,
I never hear you say aborted.
You just have to accept mistakes happen
And sometimes they have to be sorted.
You know I'd love it - a little us would be sweet.
But don't take that from your pro-life pal, she doesn't even eat meat.
It's as simple as this: the time's not right.
You need a new job and some sleep tonight.
The night before the funeral
The night before the funeral, I got some - I sneaked a young girl up the stairs and past my mum.
I took off her clothes and I played with her bits and she did the same but it took ages for me to come.
Too drunk and getting old...
It was a lovely show for a god I don't believe in.
I couldn't sing a single note at the service.
When they did "How Great Thou Art" all I could think of was my old l.p. of hymns by Elvis.
There's no such thing as sin...
I said to Laura, "I hope I know you forever and when I'm going, I'm going the Viking way. Lay me in a boat with my favourite things and set me on fire and send me on my way. Kick me out to sea..."
Here We Go
How am I supposed to walk you home when you're at least fifty feet ahead?
Cause you walked off in a huff and I'm that pissed I can't even remember what it was I said.
And I don't doubt you wouldn't touch him now, but let's face it, you always use to go for that kind.
And if you ever really wanted two men at once, all I'm saying is I better be one of the guys you've got in mind.
Here we go same time, same place.
I don't like the way you kiss his face.
It's not that there's no trust as such.
I'd love to make up but I've had to much.
Now you know fine well I'm staying, I've only ever carried out that threat once before.
And even then I coudn't get far and you're mum came and called me back before I'd even made it to the door.
Here we go same time, same place.
My embarassment versus your damp face.
We could down here or we could talk in bed.
But I'm afraid that's all, as I've already said.