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"Parental Guidance: Explicit Lyrics"

"Contro chi ci ribelleremo, adesso che non abbiamo più niente contro cui ribellarci?"
(Paul Williams)
Non mi viene davvero niente da aggiungere, così rispalmo qui il pezzo come l'ho trovato. La dàve non arrivò il Parents Music Resource Center....
Era una canzone davvero brutta, in effetti.
Money for Nothing dei Dire Straits censurata dalle radio canadesi
Slang giudicato omofobo nel testo della canzone
Ventisei anni dopo la sua pubblicazione, l’autorità garante per la radiofonia canadese ha deciso di proibire la messa in onda di Money for Nothing, classico dei Dire Straits. Il motivo è da imputarsi alla presenza ripetuta tre volte della parola “faggot”, termine dispregiativo per indicare un omosessuale, nella versione completa non editata. La Canadian Broadcast Standards Council (CBSC) ha preso la decisione la scorsa settimana dopo aver ricevuto un reclamo da un ascoltatore di Terranova che si appellava alle clausole sui diritti civili contenute nel codice etico della Canadian Association of Broadcasters.
Guy Fletcher, tastierista dei Dire Straits, ha fatto notare che di questo passo l’autorità dovrebbe censurare il 75% di tutti i dischi; inoltre ha sottolineato che la canzone fa uso di linguaggio comune di strada e la parola è usata da un personaggio presente nella canzone, e non è quindi espressione del pensiero dell’autore.
Ovviamente la decisione ha scatenato le proteste dei fan dei Dire Straits che stanno inviando petizioni alla CBSC. Anche alcune stazioni radio canadesi hanno protestato contro il provvedimento suonando la versione integrale di continuo per un’ora.
Ma se la canzone va proibita perché “faggot” è una parola che oggi non si usa più e non è politicamente corretta, quante canzoni si dovrebbero censurare per i termini dispregiativi usati per definire le donne da chi interpreta il testo, e non per riportare il pensiero di un personaggio fittizio? Oppure “bitch”, “ho”, “slut” fanno ancora parte del linguaggio comune contemporaneo? La risposta è sì, soprattutto in ambito hip hop e rock. Se il criterio fosse esteso come dovrebbe, le playlist delle radio sarebbero intervallate da lunghe pause di silenzio.
Venus on a Marquee Moon
Non ho mai capito Tom Verlaine, e per questo lo adoro. Un paio di anni fa sono andato a vederlo in concerto, erano lui e un altro tizio, non ricordo il nome, un produttore di grido di certa New York. Penso sia stato uno dei concerti più brutti visti in vita mia. Verlaine sembrava fosse stato costretto a trovarsi sul palco altrimenti, se non lo avesse fatto, qualcuno lo avrebbe ucciso. Sembrava cercasse nella sua chitarra lo splendore e la magia che una volta sapeva tirare fuori come un mago impazzito. L’ho visto almeno un paio di volte anche con Patti Smith, e anche in quelle occasioni era come se sul palco non ci fosse stato per niente. Una presenza ingombrante per il nome che porta ma assolutamente incapace di rendersi palpabile. Non ho mai capito Tom Verlaine. Ho letto proprio stamattina che esiste una versione che dura quasi 50 minuti, live, di Marquee Moon, registrata nel 1978 al CBGB’s. La voglio.

Perché se non ho mai capito Tom Verlaine, ho capito fin dalla prima volta che ci misi le mani sopra la stupefacente bellezza del primo disco dei Television, Marquee Moon, e di quella canzone in particolare. Anche se a me piace tantissimo anche la dichiarazione di intenti che è See No Evil.Che secondo me è il segreto del Tom Verlaine-pensiero. Non ricordo chi scrisse una volta che i Television erano la versione punk dei Grateful Dead. Io non credo che i Television abbiano nulla a che fare con la musica punk, ed è proprio questo che mi rende così affascinato dalla musica che venne prodotta in America tra il 1975 e il 1979, mentre, a parte i Clash e i Sex Pistols, di quanto avveniva in Inghilterra nello stesso periodo mi importa un fico secco. Marquee Moon è un disco a cui “devo” ritornare almeno una volta all’anno, e non ci torno per scelta mia, ma è Marquee Moon che mi obbliga a tornare a lui. Secondo me è un disco stregato, dotato di poteri magici.
E’ lui che sa, in quel particolare periodo della mia vita, che ho bisogno di lui. Così è stato ad esempio stanotte: probabilmente non sarei qui stamattina a scrivere queste righe se stanotte non avessi ascoltato un milione di volte Marquee Moon, pianto tutte le lacrime che si possono piangere e accettato di ricominciare daccapo. Marquee Moon se ne sta in un angolino nascostissimo in uno dei miei scaffali dei dischi, se ne sta quieto per dodici mesi all’anno e poi reclama la sua presenza. Vuole che lo ascolti. E non sarò io a dire di no. Non riuscirei mai a farlo. Ma non ho mai capito Tom Verlaine.

Perché se non ho mai capito Tom Verlaine, ho capito fin dalla prima volta che ci misi le mani sopra la stupefacente bellezza del primo disco dei Television, Marquee Moon, e di quella canzone in particolare. Anche se a me piace tantissimo anche la dichiarazione di intenti che è See No Evil.Che secondo me è il segreto del Tom Verlaine-pensiero. Non ricordo chi scrisse una volta che i Television erano la versione punk dei Grateful Dead. Io non credo che i Television abbiano nulla a che fare con la musica punk, ed è proprio questo che mi rende così affascinato dalla musica che venne prodotta in America tra il 1975 e il 1979, mentre, a parte i Clash e i Sex Pistols, di quanto avveniva in Inghilterra nello stesso periodo mi importa un fico secco. Marquee Moon è un disco a cui “devo” ritornare almeno una volta all’anno, e non ci torno per scelta mia, ma è Marquee Moon che mi obbliga a tornare a lui. Secondo me è un disco stregato, dotato di poteri magici.
E’ lui che sa, in quel particolare periodo della mia vita, che ho bisogno di lui. Così è stato ad esempio stanotte: probabilmente non sarei qui stamattina a scrivere queste righe se stanotte non avessi ascoltato un milione di volte Marquee Moon, pianto tutte le lacrime che si possono piangere e accettato di ricominciare daccapo. Marquee Moon se ne sta in un angolino nascostissimo in uno dei miei scaffali dei dischi, se ne sta quieto per dodici mesi all’anno e poi reclama la sua presenza. Vuole che lo ascolti. E non sarò io a dire di no. Non riuscirei mai a farlo. Ma non ho mai capito Tom Verlaine.
La scarnificazione del rock'n'roll

Il mio amico Raffaele, uno dei miei spacciatori di musica preferiti, mi segnala e mi linka a un disco che è una bella botta dal passato. Vintage Vinos si chiama, non ne ho visto tracce in Italia dove credo nessuno lo abbia pubblicato, ed è una raccolta dai tre dischi solista di Keef Richards, più un brano inciso come benefit dopo l’allagamento di New Orleans, Hurricane. Non ascoltavo più questi brani da un ventennio, quando originariamente uscirono.
Allora, il 1988, i Rolling Stones sembravano morti e defunti (e male non sarebbe stato; con l’eccezione di qualche traccia rispettivamente su Steel Wheels e Voodoo Lounge una sequenza di dischi brutti e inutili e tour faraonici altrettanto inutili). Allora, dopo le immonde porcate di Undercover e Dirty Works – a quest’ultimo non era seguito manco un tour, il che voleva dire una cosa sola, nella logica stoniana: la band è morta – c’erano state altrettanto immonde porcate discografiche solista di Mick Jagger. Un brutto modo di chiudere una grande storia. Nel 1988, dal nulla, spuntò un disco, del Richards solista. Un titolo bellissimo, Talk is Cheap, una copertina altrettanto figa e dentro musica…. Che musica? Ai tempi non sapevo giudicarla, ma mi faceva strana impressione. Come se mancasse qualcosa all’insieme. Certo, mancava Mick Jagger a farne un disco degli Stones. Questo lo capii subito. Ma c’era di più in quel disco.
Adesso, vent’anni dopo, Talk is Cheap (e anche i brani ripresi dal seguente disco solo, Main Offender) vanno giù caldi e vitali come una buona sorsata di Jack Daniel's. Proprio come uno degli ultimi grandi dischi degli Stones, il sottovalutato ma splendido Black And Blue, Talk is Cheap non era un disco di canzoni. In Black and Blue, con l'eccezione della formidabile Memory Motel, c'era una giungla di riff che cercavano via d'uscita (si cercava anche il nuovo chitarrista degli Stones, in realtà). Come quel disco ma ancora di più, Talk is Cheap era la scarnificazione e la riduzione all’osso del concetto di rock’n’roll. Keef è sempre stato uomo del riff, questo si sapeva, ma in questo disco porta alle estreme conseguenze il concetto di riff chitarristico rock. Ben coadiuvato da quello straordinario genio di Steve Jordan, batterista immenso e co autore di tutto il disco, Talk is Cheap è un’orgia di sound puro e senza regole. Canzoni che si reggono sulla reiterazione di una frase singola portata avanti all’infinito; note secche e scartavetrate di chitarre; melodico senso della canzone che viene ricacciato indietro in attesa che spunti fuori da solo prima o poi.
E’ una festa, questo disco: rock stoniano del più sanguigno, pulsare funk più sincero di quello che Prince sia mai riuscito a concepire, vibrazioni caraibiche che fanno ballare nella sua tomba il re di Giamaica. Intimidazioni da crooner con un sentimento jazzy che non si sentiva da secoli, da quando Tin Pan Alley chiuse i battenti. E puranche passione hillbilly, come se la country music fosse stata codificata sulle tavole della legge di Mosè. Ci sono in giro sulla Rete delle tracce incise da Richards a fine anni 70 per un disco soliista mai uscito, riprese di standard della country music che fanno paura da quanto sono belle, peccato non siano mai uscite dai cassetti. Per buona misura, questo Vintage Vinos contiene anche una delle più straordinarie esecuzioni live del nostro, Too Rude, come se Joe Strummer fosse stato il leader dei Wailers. Una macchina da guerra, l'accoppiata Richards-Jordan, che mette a nascondere tutto quanto gli Stones hanno fatto dal vivo negli ultimi venti e più anni, da quando tornarono sulle scene con il loro karaoke della terza età.
Finendo in misericordia: la dolcezza di Hurricane è tutta l’anima di questo uomo straordinario, questo santo del rock’n’roll, questo custode della memoria, questo scolatore immondo di bottiglie di Jack Daniel's. Se solo gli Stones non fossero mai tornati insieme per davvero forse quel disco di musica country Keith lo avrebbe pubblicato per davvero.
The Best of the Rest - 2010

Mai come in questo 2010 la musica ha significato per me un gesto di misericordia. Oh mercy e anche un fistful of mercy. Non posso dire che la musica mi abbia salvato la vita, in questo 2010, ma c'è andata vicino. E se ciò è stato possibile, devo ringraziare due angioletti custodi che mi hanno sovvenzionato, avvisato, regalato dosi di musica essenziali, nelle persone di Ch. e The Mighty Diana.
Non so se debba uscire ancora qualche disco clamoroso in questo ultimo scorcio di 2010, ma ecco qua una lista, non in ordine di preferenza, ma di memoria. A cui allego le due canzoni che mi sono piaciute di più quest'anno e anche i concerti memorabili del 2010, che sono stati veramente concerti memorabili, tra i più belli della mia (lunga) vita.
DISCHI:
John Grant, Queen of Denmark
The National - High Violet
Natalie Merchant - Leave Your Sleep
The Secret Sisters, The secret Sisters
The Tallest Man on Earth - The Wild Hunt
Robert Plant - Band of Joy
Emma Tricca, Minor White
Josh Ritter - So Runs The World Away
Midlake - The Courage Of Others
Fistful of Mercy, As I call you down
Elton John-Leon Russell, The Union
Neil Young, Le noise
Mavis Staples, You’re not alone
Band of Horses, Infinite arms
Jakob Dylan, Women and country
Ry Cooder and Chieftains, San Patricio
ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER, True Love Cast Out All Evil
Ristampe:
Bob Dylan, The Original Mono Recordings, John Martyn, Live at Leeds
Concerti:
Kris Kristofferson, Vigevano; Tallest Man on Earth, Londra; John Grant + Midlake, Londra; Fistful of Mercy, Milano; Josh Ritter + Swell Season, Milano
Canzone dell’anno:
Annabelle Lee, Josh Ritter; I and Love and You, Avett Brothers; Rulers, Ruling all Things, Midlake
Il giorno più noioso del secolo

Il giorno più noioso del Novecento, secondo i calcoli algoritmici di un computerone in mano a scienziati di Cambridge, UK, ha deciso: quel giorno è stato domenica 11 aprile 1954. Quella domenica, pare, in tutto il mondo non successe praticamente nulla. A parte le elezioni in Belgio, la morte di un calciatore di football inglese, Jack Shufflebothan, e la nascita del futuro rettore della facoltà di ingegneria di Birkent in Turchia. True Knowledge, il vero sapere, l’algoritmo in questione, ha passato in rassegna 300 milioni di eventi per giungere a stabilire ciò. A parte che dubito che il computerone possa aver saputo quanto, magari, gli abitanti di un villaggio sulla costa meridionale del Messico quella domenica pomeriggio se la siano spassata divertendosi un sacco, o quanto gli abitanti della foresta del Burundi possano non essersi annoiati cercando di sopravvivere alla fame, è una data significativa. 11 aprile 1954.
Quella domenica 11 aprile 1954, un simpatico cantante grassottello con un impossibile ciuffo imbrillantinato sula fronte, stava per recarsi a New York City. Probabilmente per lui, come per mezzo universo, quella domenica fu noiosissima. Non sarebbe stato così il giorno successivo. Lui e la sua band avevano lasciato da poco l’etichetta per cui incidevano, la Essex Records, e con cui avevano raggiunto un paio di successi in classifica il più notevole dei quali una ripresa di Shake Rattle and Roll che erano riusciti a portare al numero uno della chart R&B. Ma avevano firmato per una ben più prestigiosa etichetta, la Decca Records. Lunedì 12 aprile 1954 avevano appuntamento ai Pythian Temple Studios della Grande Mela per una seduta di registrazione. La seduta quasi andò a quel paese perché il battello che li trasportava da Philadelphia rimase bloccato per qualche motivo. Comunque ce la fecero. D’altro canto gli appuntamenti con il destino non si sfuggono. Che destino sarebbe se no? Li aspettava il produttore Milt Gabler che in passato aveva lavorato anche con Billie Holiday. Lavorarono tutto il giorno, secondo il suo suggerimento, a un brano intitolato Thirteen Women (and Only One Man in Town), un titolo decisamente molto rock’n’rol. Ma il rock’n’roll non esisteva ancora. Per poche ore.
Il cantante cicciotello e dall’impossibile ciuffo sulla fronte faceva di nome Bill Haley. La sua band, The Comets. Da qualche parte a Memphis un bel ragazzone di nome Elvis stava guidando il camion per cui faceva l’autista, facendo sogni di... no, il rock’n’roll non c’era ancora. Ma sognava forte il ragazzo. In quello studio di New York invece, dopo una estenuante giornata di inutili registrazioni, Bill e i suoi ragazzi, decidono di provare un altro pezzo. E’ una canzone che è stata già incisa un paio di anni prima, un blues scritto da Max C. Freedman and James E. Myers. In studio c’è anche un chitarrista, un italo americano dall’assurdo nome di Danny Cedrone che aveva già registrato in passato con Bill Haley. Il pezzo che decidono di fare si intitola Rock Around the Clock. Ne fanno due registrazioni, poi il tecnico in studio le monterà assieme. L’assolo di chitarra che ne tira fuori Cedrone passerà alla storia come uno dei più significativi assolo di chitarra rock di tutti i tempi. Purtroppo per lui, non farà in tempo a gustarne la gloria: il 17 giugno di quell’anno cade da una scalinata e muore sul colpo. Ci sarà molto più da divertirsi però nel prossimo futuro. Rock Around the Clock viene pubblicata come B side di Thirteen Women (and Only One Man in Town) poche settimane dopo. Viene bellamente ignorata dal pubblico e si rivela un flop. Fino a circa un anno dopo, quando inserita nella colonna sonora del film Blackboard Jungle, epsloderà a livello mondiale. Ma soprattutto farà esplodere qualcos’altro: la grande festa del rock’n’roll. Che noiosa proprio non si potrà mai definire. Magari di basso livello a volte, ma mai noiosa, almeno quanto una domenica 11 aprile 1954. Sebbene nel luglio di quello stesso anno il ragazzone di Memphis che faceva l’autista di camion indovinava anche lui la canzone “evento” che avrebbe aiutato ad accendere la miccia del più grande party del secolo scorso – che a buon conto sembra ancora non essere finito – Rock Around the Clock sarebbe passata alla storia come l’inno ufficiale dei giovani ribelli degli anni 50, e la canzone che più di ogni altra, anche più di quelle del ragazzone di Memphis, avrebbe portato il rock’n’roll nella cultura popolare mondiale.
Eh sì, quell’11 aprile 1954 era proprio una noia. Ci voleva qualcuno che il giorno dopo cambiasse il corso degli eventi. D’altro canto, come dice lo scrittore americano Greil Marcus, “il rock’n’roll è quella cosa misteriosa che sembra venuta dal nulla e che ha cambiato il corso degli eventi”. Coincidenze? No. A meno che non siate così superficiali da non credere a quel ragazzo di colore che un giorno a un incrocio si vendetta l’anima al diavolo per suonare il blues. Perché il diavolo esiste. E anche il rock’n’roll. Around the clock.
Rolling Vietnam

Rolling Vietnam, radio-grafia di una guerra
Di Nicola Gervasini
(Pacini Editore, 184 pgg., 15 euro)
Evviva. Finalmente in Italia si muove qualcosa almeno nel modo di fare libri rock. Questo Rolling Vietnam di Nicola Gervasini, giornalista e appassionato di musica, è l’esempio. Basta con le bio-agio-mono-spacca-grafie che impestano da decenni le librerie. Innanzi tutto, come potrà mai un italiano fare un libro serio su un artista anglo-americano? Ovvio (lo so perché ne ho fatti anche io), copiando qua e là da libri già pubblicati all’estero. Oppure i cento-mila-milioni meglio dischi del rock, o i concerti. Ma non c’è nulla di originale che chiunque conosca un po’ l’inglese non abbia già letto e riletto.
Certo, anche un italiano che parli della guerra in Vietnam appare bizzarro. Personalmente sono così vecchio da ricordare un tg dei primi anni 70 con un servizio dal Vietnam, in cui – ricordo benissimo – si vedeva questo elicottero con a bordo soldati armati di mitra e il giornalista che diceva come “quelli del Nord” avesero appena lanciato una pericolosa offensiva che stava portando guai seri a “quelli del sud”. Siccome da piccolo uno dei miei giochi preferiti era fare “nordisti contro sudisti” (guerra di Secessione americana, secolo XIX) e io ero un nordista fiero e orgoglioso, ricordo che tifai per “quelli del nord”, tranne realizzare qualche anno dopo e più grandicello dopo aver visto i boat people e i campi di rieducazione (lager) che forse quella vittoria non era poi stata quella gran figata di cui cantava anche Eugenio Finardi. Tantè.
Il libro di Nicola Gervasini è un gran bel libro perché piuttosto che analisi socio politico musicale, è una sorta di romanzo rock. Ecco come vanno scritti i libri musicali. Romanzi. Perché non c’è miglior romanzo (dunque anche un po’ ficiton come ogni romanzo) che la musica rock. E Gervasini lo fa benissimo, tenendo un ottimo ritmo, raccontando la storia di un certo David che un giorno trova nella soffitta un vinile degli Almanac Singers – oddio chi erano costoro? – e da lì parta un recupero della memoria, non solo del protagonista, ma di una nazione, l’America. C’è di mezzo il padre di David, scomparso da poco, c’è la guerra in Vietnam e c’è tantissima musica rock, che fu la colonna sonora di quegli anni tragici e appassionanti.
Ecco perché una radio-grafia. Perché leggere questo libro fa venire voglia di correre a mettere su quei dischi che hanno raccontato quegli anni. Come ascoltare una radio. E Gervasini traccia senza perdere un pezzo (lo sapevate che Daniel di Elton John parla di un reduce del Vietnam?), una citazione, un passaggio storico-musicle. Un libro che è un juke box, un jukebox che è un romanzo. Good job.(Il libro è impreziosito da una introduzione del cantautore americano Willie Nile e una dell'italiano Massimo Priviero).
Young Guns
Glielo dicevo all’amico/socio/direttore di Sunday Morning che rischiamo di apparire un po’ vintage e siamo solo agli inizi. Io sono vintage di natura, ero già vintage a 5 anni di età, ma lui no e insomma ho sentito due bei dischetti di giovani virgulti così ne (s)parlo un po’. Mi piace metterli assieme non solo perché mi sono piombati in iPod praticamente in contemporanea, ma anche perché sono due dischi diametricalmente opposti così uno si complimenta con l’altro. Nel senso che uno dice all’altro: hey che disco fico e l’altro risponde anche tu però.
Yes, sono già al quarto Bloody Mary ma oggi va così. Nel senso che ieri a quest’ora ero ancora a tre Bloody Mary. Comunque, uno dei due dischetti è poderoso rock’n’roll stile 50s, l’altro tenere ballate acustiche stile 70s. I 60s li stiamo ancora cercando, ma d’altro canto se ti ricordi i 60s vuol dire che non c’eri, e io nel 1968 andavo alla prima elementare e sì me li ricordo bene. Gli uni sono inglesi e gli altri americani, anzi no, due sono americani e uno è inglese purosangue anche lui.
Gli inglesi fanno Jim Jones Revue, a onor del vero mi sono interessato a loro perché dentro ci suona alle chitarre il fratello della goddess, Beth Orton, e cioè Rupert Orton. Ma sono bravi assai tutti quanti, frontman in primis, il rude Jim Jones che mi piace già il nome perché è lo stesso del protagonista di una delle più belle ballate folkie anglosassoni. Suonano come i nipotini incazzati di Little Richard (che in verità era già bello incazzato di suo) e di Jerry Lee Lewis (l’attacco del brano che apre il cd è proprio quello di Rock’n’Roll degli Zeppelin che ovviamente lo avevano rubato a – su fate lo sforzo di ricordarvela – Jerry Lee) con un suono bello zozzo e rutilante come si vuole dalla genìa che li influenza – apparentemente – in modo vistoso, i Bad Seeds di Nick Cave. Ops. Infatti il produttore di questo Burning Your house Down è proprio uno di loro, Jim Sclavunos. Un disco diretto e fanculante, un disco da havin’ a party.
Gli altri sono i Fistful of Mercy (come dire, per un pugno di misericordia…) c’è dentro quel gran piacione di Ben Harper quello che piace alla gente giusta – a me molto poco in verità, ma io non sono mai stato uno giusto, a un suo concerto una sera mi sono anche addormentato e no, non suonava acustico, ma scimmiottava Jimi Hendrix dall’inizio alla fine, Voodoo Chile compresa), Joseph Arthur, songwriter dell’Ohio scoperto e lanciato da Peter Gabriel e un figlio d’arte, come piace al mio socio/direttore, Dhani Harrison, figlio di George. Mi sovviene or ora mentre scrivo che di tre ne ho intervistati due, Ben Harper e Joseph Arthur, in persona, quando le case discografiche avevano ancora i soldi per portare gli artisti in promozione dagli Usa fino a Milano. Bei tempi, simpatici ragazzi, credo fosse stato più di dieci anni fa. Be’, il loro As I Call You Down è proprio un bel disco, estremamente beatlesiano nelle armonie vocali – anzi harrisoniano – e ricco di mestizia, dolcezza, tristezza. Tutte le cose che piacciono a me. Acustico, con lo straordinario Jim Keltner alla batteria, e una serie di ballatone che virano dal gospel al blues al folk. In chiave deliziosamente pop.
Recensione del cazzo, me ne rendo conto, E pure doppia. Quello che ci vuole adesso è allora un Bloody Mary doppio. Peace. And Hate.
Yes, sono già al quarto Bloody Mary ma oggi va così. Nel senso che ieri a quest’ora ero ancora a tre Bloody Mary. Comunque, uno dei due dischetti è poderoso rock’n’roll stile 50s, l’altro tenere ballate acustiche stile 70s. I 60s li stiamo ancora cercando, ma d’altro canto se ti ricordi i 60s vuol dire che non c’eri, e io nel 1968 andavo alla prima elementare e sì me li ricordo bene. Gli uni sono inglesi e gli altri americani, anzi no, due sono americani e uno è inglese purosangue anche lui.
Gli inglesi fanno Jim Jones Revue, a onor del vero mi sono interessato a loro perché dentro ci suona alle chitarre il fratello della goddess, Beth Orton, e cioè Rupert Orton. Ma sono bravi assai tutti quanti, frontman in primis, il rude Jim Jones che mi piace già il nome perché è lo stesso del protagonista di una delle più belle ballate folkie anglosassoni. Suonano come i nipotini incazzati di Little Richard (che in verità era già bello incazzato di suo) e di Jerry Lee Lewis (l’attacco del brano che apre il cd è proprio quello di Rock’n’Roll degli Zeppelin che ovviamente lo avevano rubato a – su fate lo sforzo di ricordarvela – Jerry Lee) con un suono bello zozzo e rutilante come si vuole dalla genìa che li influenza – apparentemente – in modo vistoso, i Bad Seeds di Nick Cave. Ops. Infatti il produttore di questo Burning Your house Down è proprio uno di loro, Jim Sclavunos. Un disco diretto e fanculante, un disco da havin’ a party.
Gli altri sono i Fistful of Mercy (come dire, per un pugno di misericordia…) c’è dentro quel gran piacione di Ben Harper quello che piace alla gente giusta – a me molto poco in verità, ma io non sono mai stato uno giusto, a un suo concerto una sera mi sono anche addormentato e no, non suonava acustico, ma scimmiottava Jimi Hendrix dall’inizio alla fine, Voodoo Chile compresa), Joseph Arthur, songwriter dell’Ohio scoperto e lanciato da Peter Gabriel e un figlio d’arte, come piace al mio socio/direttore, Dhani Harrison, figlio di George. Mi sovviene or ora mentre scrivo che di tre ne ho intervistati due, Ben Harper e Joseph Arthur, in persona, quando le case discografiche avevano ancora i soldi per portare gli artisti in promozione dagli Usa fino a Milano. Bei tempi, simpatici ragazzi, credo fosse stato più di dieci anni fa. Be’, il loro As I Call You Down è proprio un bel disco, estremamente beatlesiano nelle armonie vocali – anzi harrisoniano – e ricco di mestizia, dolcezza, tristezza. Tutte le cose che piacciono a me. Acustico, con lo straordinario Jim Keltner alla batteria, e una serie di ballatone che virano dal gospel al blues al folk. In chiave deliziosamente pop.
Recensione del cazzo, me ne rendo conto, E pure doppia. Quello che ci vuole adesso è allora un Bloody Mary doppio. Peace. And Hate.
Accidenti le torpedini!

Qualche mese prima a casa mia c'era invece finito il padellone di Darkness on the edge of Town di Bruce Springsteen, prestito di un amico. Be', a parte un pezzo, Prove it all Night, non mi piacque per niente. Insomma, un ragazzo di 17 anni che voglia aveva di sentire una voce rantolante sofferente disperante cantare di fabbriche, di vita dura da sopportare e che diavolo ancora. Molto, molto meglio sentirsi raccontare di "ehi ecco la mia ragazza che sta arrivando", che è quello che mi stava a cuore. O meglio ancora, qualcuno che mi diceva, be', anche gli sfigati sono fortunati. A volte. Oggi, che sono sull'rolo della vecchiaia, posso oviamente dialogare con Darkness, un disco che va bene per questa età. Ma anche a questa età, si può avere un cuore che batte tumultuoso com euna punk song.
Tom Petty infatti tutto questo lo faceva in canzoni di tre/massimo quattro minuti, sputate fuori con l'urgenza e la velocità dei dischi punk che allora mi piacevano tanto. Mica pezzi che duravano un'eternità che non si capiva quando cominciavano e quando finivano. Allo stesso tempo questi non erano punk perché avevano tutta la classicità rock che a me piaceva: suonavano come un incrocio tra Bob Dylan, i Kinks, gli Stones e i Byrds. Non potevo chiedere altro alla vita, se non che arrivasse la ma ragazza...
Tom Petty and the Heartbreakers sembrava fossero venuti fuori da qualche apertura spazio/tempo e che allo stesso modo come erano venuti ci sarebbero spariti. Infatti mentre con gli anni a seguire il successo di Springsteen diventava sempre più poderoso, in Italia di Tom Petty si sentiva parlare sempre meno. E noi dicevamo: pensa questo, una volta era quasi più famoso di Springsteen e adesso non se ne frega più nessuno.
Ma la freschezza, l'esultanza, la violenza di Refugee, di Shadow of a Doubt, di Don't do me like that sono ancora intatte, trent'anni dopo. E adesso che ascolto la versione deluxe - che una volta tanto nel secondo dischetto non ha dei pezzi inutili e superflui, ma un autentico disco valido quasi quanto il primo - mi guardo attorno e sì, eccola la mia ragazzina dei 17 anni che mi sta venendo incontro ancora una volta. Dischi come Damn the Torpedoes non perdono un grammo del loro valore. E gli sfigati, a volte, possono anche diventare fortunati. Specie se li bagna quella Lousiana Rain che chiudeva gloriosamente l'album.
Curiosamente, anche questo disco come Darkness di Springsteen arrivava dopo una lunga battaglia per l'indipendenza dallo strapotere della discografia. E dentro alla produzione c'era Jimmy Iovine che aveva lavorato anche con Bruce. Ma trent'anni dopo io so ancora da che parte stare, da quella della miglior rock'n'roll band d'America degli ultimi trent'anni appunto: gli Spezzacuori del biondo Tom Petty.
It's Alright Ma (it's mono and mono only)

"Oh my God, am I here all alone?"
(Ballad of a Thin Man, Bob Dylan)
In principio era due cassettine, di un amico. Cassette originali. Una era Nashville Skyline, l'altra The Freewheelin' Bob Dylan. Dopo il mio primo acquisto dylaniano in tempo reale, Desire, 1976, che modo più sconclusionato per cominciare ad affondare dentro all'oceano dylaniano. Suonate su mangianastro, ha! Stereo e mono era due parole sconosciute, allora. Ascoltare quei due dischi in conteporanea, poi, era come se fossero stati due cantanti diversi, non la stessa persona. Poi venne Bob Dylan's Greatest Hits 2, un vinile, e manco quello con i pezzi più famosi. Però c'era quella che suona per me come la più grande canzone di Bob Dylan, (Sooner or Later) One of Us Must Know. Una cascata argentea di note di pianoforte e organo hammond. La batteria che rullava sul rullante. La voce che suonava come quella di un morto dall'oltretomba. Paura. Una volta un'amica mentre la ascoltavamo insieme mi chiese, perché l'hai messa? Sta dicendo un sacco di cose cattive, Bob Dylan. E' vero, nessuno canta la realtà meglio di Bob Dylan. La dovetti togliere.
"Lp's were like a force of gravity. They had covers, back and forth, that you could stare at it for hours"
(Bob Dylan, Chronicles)
Poi ci furono i colori. Ogni disco, ogni canzone, per me suona con un colore diverso tutt'oggi, ma allora di più. Sì, centra un po' l'effetto inconscio dei colori della foto in copertina, che lascia un sottofondo. Ma per me The Freeewheelin' ha sempre suonato di verde scuro massiccio, come le foreste del nord America, con qualche striscia di marrone autunnale. Highway 61 Revisited invece è bianco bianco, che a tratti diventa un grigio sporco, come lo scarico di una automobile nel traffico. Blonde on Blonde è giallo bronzeo, un giallo che scintilla ma non è accecante. A tratti lo è, ma tende a sfumare in giallo caldo e avvolgente. Musica e colore vanno allo stesso passo.
"This stereo recording can also be played in mono"
(Dall'interno copertina della mia copia olandese di Blonde on Blonde)
Dei principali dischi di Bob Dylan ho diverse versioni, di Highway 61 Revisted ho anche una copia americana degli anni 60, ma è stereo. Per anni ho sentito espertoni discutere del fatto che Blonde on Blonde dovrebbe essere ascoltato in versione mono, quella giapponese peraltro, per averne la qualità sonora perfetta. Io ho una copia "gold", quando negli anni 90 alcuni dischi furono rimasterizzati con un "nuovo" (e come tutti quelli prima e quelli dopo) sistema poi subito accantonato. Suona divinamente per me, quella versione di Bionda su Bionda. Nelle ultime decadi i dischi di Bob Dylan sono stati ristampati diverse volte, disordinatamente, la maggior parte con masterizzazioni da galera. Non solo non sono stati usati i master originali, ma a volte a diverse canzoni per "comprimerle" su cd sono stati tagliati anche i secondi finali. Ne hanno provate di tutte, da - come si chiamava - il SACD a finte masterizzazioni mono ricreate oggigiorno. Delirio.
Non sono un esperto di hi-fi e una bella canzone mi colpisce anche attraverso le cuffiette dell'orrido iPod, così come mi colpiva dalla radio degli anni 30 con cui mia madre ascoltava Radio Londra durante la guerra, e io le radio pirata italiane negli anni 70. Aveva anche un piatto per il giradischi, quella radio, che sono certo non fosse stereo, e io ci ascoltavo i dischi, vorrei sapere oggi che effetto era ascoltare un disco stereo degli anni 70 su una radio mono degli anni 30. Forse è stato allora che ho cominciato a drogarmi senza aver bisogno di droga.

"The first time that I heard Bob Dylan I was in the car with my mother, and we were listening to, I think, maybe WMCA, and on came that snare shot that sounded like somebody kicked open the door to your mind, from 'Like a Rolling Stone.'"
(Bruce Springsteen)
In realtà ho sempre adorato quelle registrazioni stereo degli anni 60, quelle dove si sente la batteria in un canale e voce e chitarre tastiere o quant'altro nell'altro. E' un suono unico, un marchio di epoca, e la batteria che viaggia da sola mi fa godere. Non è il massimo, anzi è 'na merdaccia, questo tipo di stereo, per i dischi solo voce e chitara, come Freewheelin' e gli altri acustici di Dylan, perché non capisci chi sta suonando la chitarra e se il cantante è uno che la chitarra proprio non la suona. Perché la chitarra è in una cassa e la voce nell'altra. L'armonica nel caso di Dylan poi sta in mezzo. Ma quanti sono in realtà su disco, tre? I Dylan Brothers? Phil Spector, che riusciva a portare in studio per una sola canzone circa 150 musicisti, ha sempre sostenuto la filosofia del suono mono a tutti i costi. Cioè la comoatezza sonica, tutit gli strumenti che si esprimessero come una sola voce. Un motivo ci sarà.
L'altra sera sono tornato a casa con il cofanetto The Original Mono Recordings di Bob Dylan, quello che contiene i suoi primi otto album in versione mono. Un viaggio di poco più di cinque anni, dal marzo 1962 al dicembre 1967, da quando uscì Bob Dylan a John Wesley Harding. Un viaggio che è un frullato di storia e di emozioni impagabile. Pazzesco pensare che l'autore di questi dischi diversissimi sia sempre la stessa persona. Ovviamente il primo pezzo che ho messo su è stata Like a Rolling Stone. Che adoro da sempre, che non ho dubbi a ritenere la più grande canzone rock di tutti i tempi, ma che finalmente ascoltandola in questa versione mono (comunque con lavoro di fine rimasterizzazione) mi ha fatto capire le parole di Bruce Springsteen. Non avevo mai percepito che Like a Rolling Stone fosse una tale canzone violenta, brutale. E' un calcio in culo e nei denti, altro che aprire una porta con un calcio. Se Pulp Fiction fosse uscito negli anni 60 questa era la canzone ideale. Posso solo immaginare cosa abbiano provato milioni di americani, nel 1965, quando la ascoltarono per la prima volta. La spettacolarità di questo cofanetto è proprio questa, ti riporta indietro in una epoca storica precisa e ti fa sentire come se fossi lì, come se fossi uno di quelli, che allora ascoltavano queste canzoni. L'effetto mono pone ogni strumento sullo stesso piano, ne fa una polpetta sonica rude e gonfia, con la voce che emerge dal cataclisma sonoro. Come ascoltare una radio AM ferma per sempre agli anni 60 da una rovinata Buick (6, ovviamente) ferma all'angolo tra Positively Fourth Street e MacDougal Street. Come essere in studio con Bob Dylan e ascoltare pe rla prima volta come diavolo era fvenuto fuori Highway 61 revisited. Mica bruscolini. I dischi acustici ovviamente suonano da paura, sono la perfezione sonica assoluta. Ma It's Alright Ma (I'm Only Bleeding), la seconda più grande canzone di tutti i tempi, adesso ha anch'essa una violenza sonica impressionante. La devi ascoltare tutta d'un fiato e hai paura ad arrivare alla fine. Ci credo che Bob Dylan ha cambiato la coscienza collettiva d'America. Ci credo che quei due pazzi fondarono le Black Panthers ascoltando Ballad of a Thin Man in ripetizione per ore.
Siamo nel 2010, ascolto Bob Dylan da 34 anni e stasera mi sento come se non lo avessi mai ascoltato prima. The Freewheelin' Bob Dylan è la giovane America in cerca di sé stessa; Another Side of Bob Dylan sono i Beatles senza i Beatles; Highway 61 è la rabbia giovane; Blonde on Blonde è un cataclisma di droga, perdizione sonica e un sacco di belle ragazze. John Wesley Harding è il Grande Libro delle Verità. Non è una bella cosa? Non lo so, quello che mi domando è se Youtube sia stereo, mono o che altro.