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Tuxedomoon - Holy Wars
A volte mi accade una cosa singolare.
La prima volta che incontro cose o persone che mi “cambieranno” la vita, riescano a passarmi inosservate.
Le virgolette sono d’obbligo, perché, il campo del cambiamento è quello che attiene alla percezione artistica.
Ma nel caso dei Tuxedomoon, questa percezione ha avuto per me un enorme riflesso sul metodo con il quale avrei poi successivamente giudicato avvenimenti e persone, anche in ambito extra-musicale.
E’ un lungo discorso, spero che alla fine di queste mie impressioni, sarò riuscito a spiegarmi almeno parzialmente.
Dicevo del passare inosservati.
Certo, esiste l’amore a prima vista, la passione immediata, ma questi sono avvenimenti che lasciano poco spazio all’analisi razionale.
Li provi, ti sommergono e resti fermo, bloccato.
Vorrei subito sgomberare il campo da un’altra considerazione di tipo generale.
Io vorrei parlare solo di musica, ma sarò più volte tentato di addentrarmi in altri campi.
Lo so già.
Dirò un’ovvietà (ma voglio correre lo stesso il rischio) sostenendo che considero l’arte come il massimo tentativo umano di dare un senso “alto/altro” all’esistenza.
Nello stesso tempo, non posso ignorare il fatto che noi tutti siamo diventati “consumatori” d’arte e di musica in particolare.
Penso che la cosa “di per sé” non sia né un bene né un male.
Penso comunque che la massa di informazioni relative all’arte che riceviamo (e nel caso della musica, la cosa e’ ancora più evidente), ci renda poco capaci di critica di fronte all’intero fenomeno (non fosse solo che per la quantità di quest’ultima).
Le cose che scrivo sono ovviamente filtrate dall’esperienza personale e dai ricordi dell’epoca: vogliono essere solo una onesta testimonianza di come ho elaborato quel periodo.
“Holy Wars” lo comperai circa nell’85 e rimase per più di un anno sullo scaffale.
Un ascolto o due e poi via, tra i dischi giudicati “acquisti sbagliati”, o quasi.
Per me di solito, è un buon segno.
Vuol dire che probabilmente tornerò a riascoltarlo quando certe condizioni saranno mature.
E’ una specie di sesto senso che mi fa capire che ho qualcosa davanti che ha un valore intrinseco, ma di cui, in quel momento, non so cogliere l’essenza.
La prima cosa che mi saltò all’orecchio fu l’uso di più lingue nei loro testi.
Noi europei parlavamo (e si continua) a parlare dell’Europa come di una nuova identità (politica, sociale, culturale…) in fase di costruzione e loro, i Tuxedomoon (americani) a usare tutte le “nostre” lingue mischiate, ancora prima che il Muro cadesse…
Casualità ?
Canta Brown: “ I was cruising my decay where the trams connect”.
Intuizione magnifica: di quale decadenza sta parlando?
E in quale particolare zona?
Perchè proprio dove “all the trams connect”?
L’esistenza quotidiana di Brown coincide con quella del vecchio continente e/o viceversa?
Oppure, anche ammettendo una più ovvia lettura che quella sia la semplice descrizione di un incontro a sfondo sessuale, non e’ sorprendente questa coincidenza tra le due precarietà: quella vissuta dall’autore e quella del nostro Continente?
Io penso che Brown e Compagni assolutamente non sapessero con quale precisione stavano intuendo il cambiamento, ma è proprio questa sensibilità dell’artista che propone qualcosa che “ancora non esiste”, che lui stesso non “sa”, ma già lui vive sotto forma di intuizione artistica.
E poi la loro Musica…a volte assolutamente “bianca” …altre volte così “araba” da far vergognare ogni altro postumo tentativo di “world-music”…
Un particolare di cui non vorrei parlare e’ di come, molto spesso, il nome dei Tuxedomoon sia stato associato all’inflazionato termine di “contaminazione” (anche se alla fine dei ’70 la cosa era un po’ meno evidente…).
Contaminazione tra generi e forme espressive (teatro, video, balletto, poesia, ecc.). Ognuna di queste forme artistiche ha visto, in qualche modo, i Tuxedomoon protagonisti.
Al di là dei risultati (ascoltate e giudicate), mi piace solo scoprire come, a distanza di tempo, tutti quei tentativi appaiano come episodi di un modo preciso di affrontare la vita dell’artista: una vera e propria “filosofia”.
Probabilmente Blaine L. Reininger non ha mai amato visceralmente le performance teatrali messe in scena dalla coppia Winston Tong/Bruce Geduldig e forse Peter Principle non avrebbe mai lasciato la suggestione della sua New York per scoprire i musicisti indigeni del Messico, come invece ha fatto Steven Brown.
Questa “filosofia” alla quale mi riferisco e’ la più semplice del mondo, ma molto rara da trovare nella realtà di tutti i giorni: la profonda onesta’ intellettuale che ti fa vivere assieme agli altri (artisti e non) scoprendo di volta in volta, obiettivi comuni sui quali lavorare e impegnarsi.
Non parlare, ma fare.
Tuxedomoon credono in tutto questo (i loro ultimi show scarni e essenziali lo confermano, ribaltando di 180 gradi i ricordi dei loro fans ancora legati agli anni ‘80: nessun video, nessuno schermo, tantomeno balletti o simili…).
La loro voglia di rimettersi continuamente in discussione, come artisti e come uomini, continua ad accompagnarli nel loro viaggio sonoro e non (qualcuno puo’ dire con sicurezza dove vive Steven Brown o Blaine Reininger?)
Penso possano insegnarci qualcosa.
Ascoltarli e’ il minimo.
Tuxedomoon “Holy Wars”
Cramboy, 1985
La prima volta che incontro cose o persone che mi “cambieranno” la vita, riescano a passarmi inosservate.
Le virgolette sono d’obbligo, perché, il campo del cambiamento è quello che attiene alla percezione artistica.
Ma nel caso dei Tuxedomoon, questa percezione ha avuto per me un enorme riflesso sul metodo con il quale avrei poi successivamente giudicato avvenimenti e persone, anche in ambito extra-musicale.
E’ un lungo discorso, spero che alla fine di queste mie impressioni, sarò riuscito a spiegarmi almeno parzialmente.
Dicevo del passare inosservati.
Certo, esiste l’amore a prima vista, la passione immediata, ma questi sono avvenimenti che lasciano poco spazio all’analisi razionale.
Li provi, ti sommergono e resti fermo, bloccato.
Vorrei subito sgomberare il campo da un’altra considerazione di tipo generale.
Io vorrei parlare solo di musica, ma sarò più volte tentato di addentrarmi in altri campi.
Lo so già.
Dirò un’ovvietà (ma voglio correre lo stesso il rischio) sostenendo che considero l’arte come il massimo tentativo umano di dare un senso “alto/altro” all’esistenza.
Nello stesso tempo, non posso ignorare il fatto che noi tutti siamo diventati “consumatori” d’arte e di musica in particolare.
Penso che la cosa “di per sé” non sia né un bene né un male.
Penso comunque che la massa di informazioni relative all’arte che riceviamo (e nel caso della musica, la cosa e’ ancora più evidente), ci renda poco capaci di critica di fronte all’intero fenomeno (non fosse solo che per la quantità di quest’ultima).
Le cose che scrivo sono ovviamente filtrate dall’esperienza personale e dai ricordi dell’epoca: vogliono essere solo una onesta testimonianza di come ho elaborato quel periodo.
“Holy Wars” lo comperai circa nell’85 e rimase per più di un anno sullo scaffale.
Un ascolto o due e poi via, tra i dischi giudicati “acquisti sbagliati”, o quasi.
Per me di solito, è un buon segno.
Vuol dire che probabilmente tornerò a riascoltarlo quando certe condizioni saranno mature.
E’ una specie di sesto senso che mi fa capire che ho qualcosa davanti che ha un valore intrinseco, ma di cui, in quel momento, non so cogliere l’essenza.
La prima cosa che mi saltò all’orecchio fu l’uso di più lingue nei loro testi.
Noi europei parlavamo (e si continua) a parlare dell’Europa come di una nuova identità (politica, sociale, culturale…) in fase di costruzione e loro, i Tuxedomoon (americani) a usare tutte le “nostre” lingue mischiate, ancora prima che il Muro cadesse…
Casualità ?
Canta Brown: “ I was cruising my decay where the trams connect”.
Intuizione magnifica: di quale decadenza sta parlando?
E in quale particolare zona?
Perchè proprio dove “all the trams connect”?
L’esistenza quotidiana di Brown coincide con quella del vecchio continente e/o viceversa?
Oppure, anche ammettendo una più ovvia lettura che quella sia la semplice descrizione di un incontro a sfondo sessuale, non e’ sorprendente questa coincidenza tra le due precarietà: quella vissuta dall’autore e quella del nostro Continente?
Io penso che Brown e Compagni assolutamente non sapessero con quale precisione stavano intuendo il cambiamento, ma è proprio questa sensibilità dell’artista che propone qualcosa che “ancora non esiste”, che lui stesso non “sa”, ma già lui vive sotto forma di intuizione artistica.
E poi la loro Musica…a volte assolutamente “bianca” …altre volte così “araba” da far vergognare ogni altro postumo tentativo di “world-music”…
Un particolare di cui non vorrei parlare e’ di come, molto spesso, il nome dei Tuxedomoon sia stato associato all’inflazionato termine di “contaminazione” (anche se alla fine dei ’70 la cosa era un po’ meno evidente…).
Contaminazione tra generi e forme espressive (teatro, video, balletto, poesia, ecc.). Ognuna di queste forme artistiche ha visto, in qualche modo, i Tuxedomoon protagonisti.
Al di là dei risultati (ascoltate e giudicate), mi piace solo scoprire come, a distanza di tempo, tutti quei tentativi appaiano come episodi di un modo preciso di affrontare la vita dell’artista: una vera e propria “filosofia”.
Probabilmente Blaine L. Reininger non ha mai amato visceralmente le performance teatrali messe in scena dalla coppia Winston Tong/Bruce Geduldig e forse Peter Principle non avrebbe mai lasciato la suggestione della sua New York per scoprire i musicisti indigeni del Messico, come invece ha fatto Steven Brown.
Questa “filosofia” alla quale mi riferisco e’ la più semplice del mondo, ma molto rara da trovare nella realtà di tutti i giorni: la profonda onesta’ intellettuale che ti fa vivere assieme agli altri (artisti e non) scoprendo di volta in volta, obiettivi comuni sui quali lavorare e impegnarsi.
Non parlare, ma fare.
Tuxedomoon credono in tutto questo (i loro ultimi show scarni e essenziali lo confermano, ribaltando di 180 gradi i ricordi dei loro fans ancora legati agli anni ‘80: nessun video, nessuno schermo, tantomeno balletti o simili…).
La loro voglia di rimettersi continuamente in discussione, come artisti e come uomini, continua ad accompagnarli nel loro viaggio sonoro e non (qualcuno puo’ dire con sicurezza dove vive Steven Brown o Blaine Reininger?)
Penso possano insegnarci qualcosa.
Ascoltarli e’ il minimo.
Tuxedomoon “Holy Wars”
Cramboy, 1985
di Fabrizio Cavallaro
Mogwai - Music For A Forgotten Future (The Singing Mountain)

Ebbene, i Mogwai spiattellano tranquilli questo bonus cd come se niente fosse, ed io salto sulla sedia. Sono cose belle; dai uno dei tuoi gruppi storici per morti dentro e loro a sorpresa piazzano un colpaccio secco, così.
Music for a forgotten future è una suite di 23 minuti, senza ritmo, principalmente per archi e tastiere. Si potrebbe immaginare che sia farina del sacco di Burns, ma non importa. Ciò che conta è che si tratta di 23 minuti di purissima magia, una sorta di soundtrack struggente di quelle che provocano pelle d'oca. I primi 10 minuti vedono un interplay fra piano, Rhodes elettrico ed (immagino) un quartetto d'archi, un drones acuto in sottofondo; lo schema compositivo è di un minimalismo che potrebbe ricordare certe cose di Basinski o Library Tapes.
Molto lentamente il pezzo si evolve e verso la decina di minuti fa la sua comparsa anche una chitarra che ricalca il piano; gli archi continuano a spessorare con decisione il sottofondo.
Al terzo cambio sensibile, attorno ai 15 minuti, entra anche un basso pesante, le chitarre si distorcono un pochettino e l'enfasi sempre più solenne; ci si aspetta quasi che i Mogwai da un momento all'altro possano esplodere come nella loro tradizione, ed invece a sorpresa il pezzo implode su se stesso, scemando nel giro di mezzo minuto.
Ma non è ancora finita: dal pulviscolo atmosferico susseguente risorgono gli archi che eseguono il tema iniziale, in perfetta solitudine, a basso volume.
Un brivido scorre lungo la schiena.
Wicked Lester - Love her all I can
Questo asciutto rock and roll dei primissimi anni '70 apparve qualche anno dopo reworkato all'interno di uno dei migliori e più sobri (se così si può dire, ma sì che si può dire) album dei KISS, sto parlando di quel "Dressed to kill" che li lanciò in orbita nel 1975 con Rock and roll all nite e C'mon and love me.
LOVE HER ALL I CAN fa "leggere" quali sono gli evidenti riferimenti iniziali del duo Stanley/Simmons (i due Kiss che guidavano i Wicked Lester) in particolare si intravedono, ma che dico si intravedono si vedono benissimo 1) Who e 2) Kinks.
WICKED LESTER fu la band primigenia da cui, con il successivo inserimento di Ace Frehley e Peter Criss e con un immenso lavoro di grafic art e di make up, il grande manager Bill Aucoin (scomparso non da molto) mise in piedi il prodotto Kiss e tutta la sua iconografia (sempre con il supporto non indifferente dei ragazzi).
Io penso a quei tempi pioneristici con grande tenerezza, quando uscivano questi pezzi dei Wicked Lester Gene e Paul erano dei ragazzini squattrinati che facevano la gavetta nei localacci di new york ma con le idee chiare e l'hard rock solo un abbozzo nelle loro teste visto che il genere manco esisteva.
In realtà i due s'ispiravano sì alle tradizioni rockandroll ammericane ma con lo sguardo sempre attento alla perfida albione.
Poi vennero anche Zeppelin e Sabbath e la storia cambiò.
Ma i primissimi vagiti dei Kiss erano tutti come li sentite qua.
Serena notte.
Wish You Were Here - Pink Floyd

Una metafora culinaria per uno dei miei album preferiti dei Floyd: Wish You Were Here.
5 canzoni in tutto per uno degli album più famosi e più di successo della storia della musica rock.
Milioni di copie vendute, una straordinaria e surreale copertina, testi nostalgici, a tratti di alto lirismo e tutti dedicati al fondatore del gruppo: Syd Barrett.
Penso che sia Syd quella foto della copertina interna e precisamente quel sacchetto di cellophane che corre tra i filari d'alberi trascinato non più dalla sua volontà ma dal vento che scompiglia i capelli.
Un metafora culinaria dicevo: lo immagino come un enorme e succoso hamburger (mica uno di quelli di McDonald, eh) con Shine on You Crazy Diamond parte 1 e parte 2 a far da fette di pane, fragranti e croccanti, con Welcome To The Machine, Have a Cigar e Wish You Were Here a costituire l’imbottitura.
Welcome To The Machine, inquietante, quasi sperimentale, algida che preannuncia i temi disperati di Animals citando Huxley e preparando l’avvento dei testi orwelliani di Animal Farm.
Have a Cigar ovvero l’alienazione da successo, segue temporalmente e logicamente Money: i segni di saturazione e alienazione sono ormai evidentissimi.
E poi c’è Wish You Were Here, il canto ed il suono di due amici per chi non c’è più. Loro stessi si sono persi tra le braccia di una creatura mostruosa, una macchina da soldi, lontani dalla sperimentazione, dal divertimento, perfetti ingranaggi dell show business.
Quanta nostalgia in quelle parole:
Canzone sempre fantastica, nonostante il tempo che passa. Ha dentro di sé una montagna di nostalgia vera, non costruita a tavolino. Può non piacere la canzone ma dentro c’è vita, c’è verità c’è vissuto.
E poi resterebbero delle cose da dire pure “sulle due fette di pane”, dopo aver parlato della deliziosa imbottitura, e così per Shine On You Crazy Diamond preferisco linkarvi qui.
Per sempre:
"Remember when you were young, you shone like the sun. Shine on you crazy diamond".
5 canzoni in tutto per uno degli album più famosi e più di successo della storia della musica rock.
Milioni di copie vendute, una straordinaria e surreale copertina, testi nostalgici, a tratti di alto lirismo e tutti dedicati al fondatore del gruppo: Syd Barrett.
Penso che sia Syd quella foto della copertina interna e precisamente quel sacchetto di cellophane che corre tra i filari d'alberi trascinato non più dalla sua volontà ma dal vento che scompiglia i capelli.
Un metafora culinaria dicevo: lo immagino come un enorme e succoso hamburger (mica uno di quelli di McDonald, eh) con Shine on You Crazy Diamond parte 1 e parte 2 a far da fette di pane, fragranti e croccanti, con Welcome To The Machine, Have a Cigar e Wish You Were Here a costituire l’imbottitura.
Welcome To The Machine, inquietante, quasi sperimentale, algida che preannuncia i temi disperati di Animals citando Huxley e preparando l’avvento dei testi orwelliani di Animal Farm.
Have a Cigar ovvero l’alienazione da successo, segue temporalmente e logicamente Money: i segni di saturazione e alienazione sono ormai evidentissimi.
E poi c’è Wish You Were Here, il canto ed il suono di due amici per chi non c’è più. Loro stessi si sono persi tra le braccia di una creatura mostruosa, una macchina da soldi, lontani dalla sperimentazione, dal divertimento, perfetti ingranaggi dell show business.
Quanta nostalgia in quelle parole:
How I wish, how I wish you were here.
We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the same old ground. What have we found?
The same old fears,
wish you were here.
We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the same old ground. What have we found?
The same old fears,
wish you were here.
Canzone sempre fantastica, nonostante il tempo che passa. Ha dentro di sé una montagna di nostalgia vera, non costruita a tavolino. Può non piacere la canzone ma dentro c’è vita, c’è verità c’è vissuto.
E poi resterebbero delle cose da dire pure “sulle due fette di pane”, dopo aver parlato della deliziosa imbottitura, e così per Shine On You Crazy Diamond preferisco linkarvi qui.
Per sempre:
"Remember when you were young, you shone like the sun. Shine on you crazy diamond".
The Sidewinder - Lee Morgan
La canzone che poi diede anche il titolo all'LP di Morgan è uno di quegli instant-hits che negli anni d'oro del jazz capitavano come poi nella musica rock. The Sidewinder al pari del serpente da cui prende il nome si muove e si svolge con sinuosità, trasversalmente, punzecchiando la testa, annidandosi per sempre nel cervello e non uscendone più, attaccandosi lì come un qualche tormentone estivo. Un pezzo con un ritmo che diventò negli anni successivi un pattern per decine e decine di Lps che cominciavano con un gran bel pezzo funkeggiante che serviva poi però solo a nascondere la pochezza di cui era poi composto il resto dell'album.
Jazz hits, oggi qualcosa di sconosciuto e persino inconcepibile, ma al tempo, tra la fine degli anni 50 ed i primi 60 non era rarità anche se delle dimensioni di The Sidewinder, così su due piedi mi vengono in mente solo So What del divino Miles e Watermelon Man di Herbie Hancock.
The Sidewinder fu anche il miglior album di Lee Morgan, non essendo più riuscito dopo a raggiungere quelle vette, avendo però mantenuto comunque una produzione più che buona.
All'album, registrato il 21 dicembre 1963 da Rudy Van Gelder negli omonimi studi di Engelwood Cliffs, parteciparono Joe Henderson al sax tenore, Barry Harris piano, Bob Crenshaw basso e Billy Higgins batteria. Henderson è protagonista di alcuni assoli veramente rimarchevoli all'altezza di quelli di Morgan con un interplay da manuale tra tromba e sassofono. Il piano di Harrs scandisce il ritmo come un metronomo, ascoltate il lavoro che fa in The Sidewinder, perfettamente accompagnato dal duo basso batteria.
La bellezza ed il successo del pezzo d'apertura oscurarono le altre canzoni, in realtà tutte meritevoli e di grande bellezza, in particolare Totem Pole (che avrebbe potuto benissimo essere un altro hit) e la finale Hocus Pocus.
Se posso insistere vi consiglierei di procurarvi un qualche modo l'album (ora i Blue Note i trovano nei negozi e pochi euro) che questo è un disco che piace anche a chi non è appassionato di jazz.
Jazz hits, oggi qualcosa di sconosciuto e persino inconcepibile, ma al tempo, tra la fine degli anni 50 ed i primi 60 non era rarità anche se delle dimensioni di The Sidewinder, così su due piedi mi vengono in mente solo So What del divino Miles e Watermelon Man di Herbie Hancock.
The Sidewinder fu anche il miglior album di Lee Morgan, non essendo più riuscito dopo a raggiungere quelle vette, avendo però mantenuto comunque una produzione più che buona.
All'album, registrato il 21 dicembre 1963 da Rudy Van Gelder negli omonimi studi di Engelwood Cliffs, parteciparono Joe Henderson al sax tenore, Barry Harris piano, Bob Crenshaw basso e Billy Higgins batteria. Henderson è protagonista di alcuni assoli veramente rimarchevoli all'altezza di quelli di Morgan con un interplay da manuale tra tromba e sassofono. Il piano di Harrs scandisce il ritmo come un metronomo, ascoltate il lavoro che fa in The Sidewinder, perfettamente accompagnato dal duo basso batteria.
La bellezza ed il successo del pezzo d'apertura oscurarono le altre canzoni, in realtà tutte meritevoli e di grande bellezza, in particolare Totem Pole (che avrebbe potuto benissimo essere un altro hit) e la finale Hocus Pocus.
Se posso insistere vi consiglierei di procurarvi un qualche modo l'album (ora i Blue Note i trovano nei negozi e pochi euro) che questo è un disco che piace anche a chi non è appassionato di jazz.
Mogwai - Hardcore will never die, but you will

Ogni 2-3 anni i Mogwai tornano e confido in una rinascita, in un colpo di classe che cancelli i passi falsi precedenti. Perchè a mio avviso il sentiero discendente è stato imboccato inesorabilmente, a partire da Happy songs for happy people che già denotava qualche segno di stanchezza, giusto riscattato da alcune gemme indimenticabili.
Se Mr. Beast già faceva storcere un po' il naso, The hawk is howling mi aveva a dir poco orripilato. Ed ora Hardcore, disponibile da una settimana. Mah.
Il mese scorso c'era stato l'antipasto di Rano Pano e pensavo, siamo alle solite. Con quei chitarroni muscolari, quelle ritmiche così squadrate e piene, scomparso anche il buongusto di Burns che cade in banali frasi di synth. Dove sono finiti i miei idoli? Ma sono ancora loro?
Amaro il destino di chi parte subito in quarta e sconvolge con capolavori capisaldi di un genere intero. Ricordo pochissimi shock nella mia vita eguali a Young team, rare conferme come Come on die young. In me li difendevo anche quando venivano discussi con Rock Action e My father my king. Ad andar bene quelli che dubitavano allora, sono quelli che adesso li osannano.
In sostanza Hardcore è un altra cocente delusione. La classe non basta più. Non c'è più il senso di avventura, la voglia di sorprendere o di estremizzare. Ovvio che non si pretendesse da loro di eguagliare gli highlights degli inizi, ma neanche di scavare sotto il barile. San Pedro e George square thatcher death part, tanto per partire dai peggiori, sono imbarazzanti balzelli di neo-new-wave. Voglio dire, già gli ultimi Interpol sono alquanto pessimi, non abbiamo bisogno certo che i Mogwai ne facciano una parodia. Oltretutto quando Braithwaite attiva il vocoder non c'è tanto da ridere: Mexican Grand Prix inizia come un qualsiasi pezzo degli Stereolab e finisce su lidi Trans Am di mezzo, senza avere nè il genuino candore dei primi nè l'autoironia dissacrante dei secondi.
Un grosso problema è la latente autoindulgenza che sembra permeare i 5 dall'inizio alla fine, anche quando cercano di stabilire un contatto con i migliori episodi degli ultimi anni. La solennità plastificata di White Noise, il minimale girare a vuoto di How to be a werewolf, la zavorra tronfia di You're Lionel Richie, è tutto un immane buco nell'acqua.
Alla fine, purtroppo, sono solo un paio i pezzi che si salvano. Il crescendo sinfonico di Too raging to cheers perlomeno tiene desta l'attenzione. E soprattutto la bella Letters to the metro, tenue e delicata contemplazione autunnale. Chissà perchè, è anche quella più modesta strumentalmente, in cui non cercano di strafare.
Hardcore non m'impedirà comunque di andarli a vedere live, per la mia prima volta, all'Estragon in Marzo. Confidando di sentire almeno qualche inno del passato.
Venus on a Marquee Moon
Non ho mai capito Tom Verlaine, e per questo lo adoro. Un paio di anni fa sono andato a vederlo in concerto, erano lui e un altro tizio, non ricordo il nome, un produttore di grido di certa New York. Penso sia stato uno dei concerti più brutti visti in vita mia. Verlaine sembrava fosse stato costretto a trovarsi sul palco altrimenti, se non lo avesse fatto, qualcuno lo avrebbe ucciso. Sembrava cercasse nella sua chitarra lo splendore e la magia che una volta sapeva tirare fuori come un mago impazzito. L’ho visto almeno un paio di volte anche con Patti Smith, e anche in quelle occasioni era come se sul palco non ci fosse stato per niente. Una presenza ingombrante per il nome che porta ma assolutamente incapace di rendersi palpabile. Non ho mai capito Tom Verlaine. Ho letto proprio stamattina che esiste una versione che dura quasi 50 minuti, live, di Marquee Moon, registrata nel 1978 al CBGB’s. La voglio.

Perché se non ho mai capito Tom Verlaine, ho capito fin dalla prima volta che ci misi le mani sopra la stupefacente bellezza del primo disco dei Television, Marquee Moon, e di quella canzone in particolare. Anche se a me piace tantissimo anche la dichiarazione di intenti che è See No Evil.Che secondo me è il segreto del Tom Verlaine-pensiero. Non ricordo chi scrisse una volta che i Television erano la versione punk dei Grateful Dead. Io non credo che i Television abbiano nulla a che fare con la musica punk, ed è proprio questo che mi rende così affascinato dalla musica che venne prodotta in America tra il 1975 e il 1979, mentre, a parte i Clash e i Sex Pistols, di quanto avveniva in Inghilterra nello stesso periodo mi importa un fico secco. Marquee Moon è un disco a cui “devo” ritornare almeno una volta all’anno, e non ci torno per scelta mia, ma è Marquee Moon che mi obbliga a tornare a lui. Secondo me è un disco stregato, dotato di poteri magici.
E’ lui che sa, in quel particolare periodo della mia vita, che ho bisogno di lui. Così è stato ad esempio stanotte: probabilmente non sarei qui stamattina a scrivere queste righe se stanotte non avessi ascoltato un milione di volte Marquee Moon, pianto tutte le lacrime che si possono piangere e accettato di ricominciare daccapo. Marquee Moon se ne sta in un angolino nascostissimo in uno dei miei scaffali dei dischi, se ne sta quieto per dodici mesi all’anno e poi reclama la sua presenza. Vuole che lo ascolti. E non sarò io a dire di no. Non riuscirei mai a farlo. Ma non ho mai capito Tom Verlaine.

Perché se non ho mai capito Tom Verlaine, ho capito fin dalla prima volta che ci misi le mani sopra la stupefacente bellezza del primo disco dei Television, Marquee Moon, e di quella canzone in particolare. Anche se a me piace tantissimo anche la dichiarazione di intenti che è See No Evil.Che secondo me è il segreto del Tom Verlaine-pensiero. Non ricordo chi scrisse una volta che i Television erano la versione punk dei Grateful Dead. Io non credo che i Television abbiano nulla a che fare con la musica punk, ed è proprio questo che mi rende così affascinato dalla musica che venne prodotta in America tra il 1975 e il 1979, mentre, a parte i Clash e i Sex Pistols, di quanto avveniva in Inghilterra nello stesso periodo mi importa un fico secco. Marquee Moon è un disco a cui “devo” ritornare almeno una volta all’anno, e non ci torno per scelta mia, ma è Marquee Moon che mi obbliga a tornare a lui. Secondo me è un disco stregato, dotato di poteri magici.
E’ lui che sa, in quel particolare periodo della mia vita, che ho bisogno di lui. Così è stato ad esempio stanotte: probabilmente non sarei qui stamattina a scrivere queste righe se stanotte non avessi ascoltato un milione di volte Marquee Moon, pianto tutte le lacrime che si possono piangere e accettato di ricominciare daccapo. Marquee Moon se ne sta in un angolino nascostissimo in uno dei miei scaffali dei dischi, se ne sta quieto per dodici mesi all’anno e poi reclama la sua presenza. Vuole che lo ascolti. E non sarò io a dire di no. Non riuscirei mai a farlo. Ma non ho mai capito Tom Verlaine.
Perle dal passato: The Dragons - Food For My Soul (1970)
Metto nel virgolettato il commento originale che ho trovato su Youtube, che informa benissimo sulla genesi di questa edizione "postuma" di una registrazione del 1970 dei Dragons, gruppo abbastanza "mitologico" e mai esistito agli occhi del pubblico ma solo per breve periodo in sala di incisione. Ad ogni modo è tutto scritto dettagliatamente dal titolare del canale di youtube, un certo artmaniac53 che ogni tanto visito alla ricerca di perle dimenticate dal passato, e non voglio ripetere più di tanto ciò che egli racconta benissimo. Aggiungo di mio solo che vale la pena ascoltare e, forse, rimpiangere un pò che non ci abbiano dato dentro con più convinzione e non si siano smontati alle prime difficoltà. Le potenzialità mi pare le avessero tutte.
'There's a story below and the moral of this story is: keep your master tapes. Whatever you do, keep your master tapes. It's the late sixties. Three brothers, Doug, Daryl and Dennis Dragon are living in Malibu, surfing and gigging around the Los Angeles area and having their minds blown by the music of The Beatles, Hendrix and The Doors. The multi-instrumentalist sons of a symphony conductor and an opera singer, the Dragon brothers decide it's time to create their own psychedelic soul/rock masterpiece. A high school friend of Dennis, Donn Landee, is working as a recording engineer at Sunwest Recording Studios in Hollywood and they begin to go there to put tracks down in 'off time' often working from 3am, when they finish their regular gigs, until morning. They call the sessions 'Blue Forces Intelligence', find themselves layering their instruments in new ways, adding deep, bassy vocal lines and then ramming them up against falsetto harmonies, adding organs and space age sound effects, recording spirituals and pop and crazy rock opera. The effect is increasingly spacey and weird, but also funky - a missing link between new directions others are exploring in jazz and soul as well as rock music. Unfortunately, the suits at the West Coast offices of the major labels aren't ready, complaining that they don't hear a hit. After shopping the record, now called just 'BFI', for a few months, the boys become disillusioned and focus instead on their session work. They all end up working in the Beach Boys' backing band. Doug moves to Hawaii, tours Australia. Dennis becomes a successful record producer. Daryl hooks up with Toni Tennille and experiences international chart success as The Captain. The Dragons' 'BFI' is forgotten. Jump on 37 years. Strictly Kev/DJ Food, influential mixologist and designer for Ninja Tune and obsessive record collector picks up a new batch of vinyl from a record dealer he knows. In amongst them is a 500-run private pressing of the soundtrack to a surf movie called A Sea For Yourself. On it is a track called Food For My Soul by a band called the Dragons. Kev being a fan of all possible food-based puns and currently putting together the mix for his new Solid Steel mix cd for Ninja, drops the needle on the groove. What he finds amazes him a true psychedelic original from a band he's never heard of. Using his extensive contacts in the world of vinyl mania, he manages to track Dennis Dragon down. He emails him, asks him if he can include Food For My Soul on the mix. Sure, says Dennis. There's a whole album of the stuff if he's interested. Dennis checks. Donn still has the master tapes. He converts them to mp3 and emails them to Kev. Kev is blown away. He forwards them to Ninja Tune. Ninja Tune think it's a scam. But then they listen. And they listen again. And then, after nearly forty years sitting on a recording engineer's shelf, Ninja Tune decide to release 'BFI'. Beautifully played and produced, full of crazy invention and a loveably naive lack of self-consciousness, 'BFI' is a miniature masterpiece, a lost classic of psych-whimsy, West Coast sexiness and serious musical chops. Surely we're ready by now..?''
La scarnificazione del rock'n'roll

Il mio amico Raffaele, uno dei miei spacciatori di musica preferiti, mi segnala e mi linka a un disco che è una bella botta dal passato. Vintage Vinos si chiama, non ne ho visto tracce in Italia dove credo nessuno lo abbia pubblicato, ed è una raccolta dai tre dischi solista di Keef Richards, più un brano inciso come benefit dopo l’allagamento di New Orleans, Hurricane. Non ascoltavo più questi brani da un ventennio, quando originariamente uscirono.
Allora, il 1988, i Rolling Stones sembravano morti e defunti (e male non sarebbe stato; con l’eccezione di qualche traccia rispettivamente su Steel Wheels e Voodoo Lounge una sequenza di dischi brutti e inutili e tour faraonici altrettanto inutili). Allora, dopo le immonde porcate di Undercover e Dirty Works – a quest’ultimo non era seguito manco un tour, il che voleva dire una cosa sola, nella logica stoniana: la band è morta – c’erano state altrettanto immonde porcate discografiche solista di Mick Jagger. Un brutto modo di chiudere una grande storia. Nel 1988, dal nulla, spuntò un disco, del Richards solista. Un titolo bellissimo, Talk is Cheap, una copertina altrettanto figa e dentro musica…. Che musica? Ai tempi non sapevo giudicarla, ma mi faceva strana impressione. Come se mancasse qualcosa all’insieme. Certo, mancava Mick Jagger a farne un disco degli Stones. Questo lo capii subito. Ma c’era di più in quel disco.
Adesso, vent’anni dopo, Talk is Cheap (e anche i brani ripresi dal seguente disco solo, Main Offender) vanno giù caldi e vitali come una buona sorsata di Jack Daniel's. Proprio come uno degli ultimi grandi dischi degli Stones, il sottovalutato ma splendido Black And Blue, Talk is Cheap non era un disco di canzoni. In Black and Blue, con l'eccezione della formidabile Memory Motel, c'era una giungla di riff che cercavano via d'uscita (si cercava anche il nuovo chitarrista degli Stones, in realtà). Come quel disco ma ancora di più, Talk is Cheap era la scarnificazione e la riduzione all’osso del concetto di rock’n’roll. Keef è sempre stato uomo del riff, questo si sapeva, ma in questo disco porta alle estreme conseguenze il concetto di riff chitarristico rock. Ben coadiuvato da quello straordinario genio di Steve Jordan, batterista immenso e co autore di tutto il disco, Talk is Cheap è un’orgia di sound puro e senza regole. Canzoni che si reggono sulla reiterazione di una frase singola portata avanti all’infinito; note secche e scartavetrate di chitarre; melodico senso della canzone che viene ricacciato indietro in attesa che spunti fuori da solo prima o poi.
E’ una festa, questo disco: rock stoniano del più sanguigno, pulsare funk più sincero di quello che Prince sia mai riuscito a concepire, vibrazioni caraibiche che fanno ballare nella sua tomba il re di Giamaica. Intimidazioni da crooner con un sentimento jazzy che non si sentiva da secoli, da quando Tin Pan Alley chiuse i battenti. E puranche passione hillbilly, come se la country music fosse stata codificata sulle tavole della legge di Mosè. Ci sono in giro sulla Rete delle tracce incise da Richards a fine anni 70 per un disco soliista mai uscito, riprese di standard della country music che fanno paura da quanto sono belle, peccato non siano mai uscite dai cassetti. Per buona misura, questo Vintage Vinos contiene anche una delle più straordinarie esecuzioni live del nostro, Too Rude, come se Joe Strummer fosse stato il leader dei Wailers. Una macchina da guerra, l'accoppiata Richards-Jordan, che mette a nascondere tutto quanto gli Stones hanno fatto dal vivo negli ultimi venti e più anni, da quando tornarono sulle scene con il loro karaoke della terza età.
Finendo in misericordia: la dolcezza di Hurricane è tutta l’anima di questo uomo straordinario, questo santo del rock’n’roll, questo custode della memoria, questo scolatore immondo di bottiglie di Jack Daniel's. Se solo gli Stones non fossero mai tornati insieme per davvero forse quel disco di musica country Keith lo avrebbe pubblicato per davvero.
Kraftwerk - Autobahn (1974)

Ora, credo che diversi milioni di persone abbiano sentito il refrain principale di Autobahn, che aprì ai Kraftwerk le porte della popolarità persino oltre oceano. Vuoi frutto della novità che gli ancor giovani sintetizzatori portavano alla musica, vuoi risultato di un azzeccato ed accessibile motivo melodico, vuoi metafora della modernizzazione che gli anni '70 portavano in dote, forse la somma di tutti e tre. Fattosta che la stagione gloriosissima della musica tedesca di quegli anni si meritava un po' di visibilità, vista l'azione innovativa che diversi agitatori stavano diffondendo in rapida successione. Mentre Can, Neu!, Faust, Tangerine Dream, Popol Vuh ed altri rivoluzionavano e creavano avanguardie di diverse fatture, i Kraftwerk cercavano una loro identità, non senza fatica.
Una volta tanto sfato il mio mito personale che generalmente smonta i prodotti più commerciali nella fase di un artista. I dischi precedenti ad Autobahn non erano malvagi, ma risentivano di indecisione e scarsa omogeneità. La title-track, lunga quasi 23 minuti, giunse pertanto come un ancora di salvataggio, specialmente in senso artistico. Una progressione irresistibile di tastiere elettroniche, beat digitale e voci disincantate (non proprio eccelse ma perfette nel contesto) occupa i primi 4 minuti. Seguono poi in successione le diverse fasi della suite: una "naturistica" con chitarrine, violoncello, flautino, un'involuzione meccanica tetra e minacciosa, una mistica corale, una solenne con il celebre motorik sotto (non bisogna dimenticare che qualche anno prima i Neu! avevano fatto parte della formazione!), tutte contrassegnate dal comune denominatore del ritornello che fa capolino, sornione e smaliziato.
L'altra facciata del vinile vive di fasi alterne. Kometenmelodie 1 è una scura divagazione senza meta, mentre la 2 torna alla luminosità di Autobahn con un insistente incastro di tastierine. Mitternacht è la loro ambientazione cavernosa, fatta di scansioni percussive glaciali, tetri organi a canne e geyser intermittenti.
Un cinguettio elettronico (!) segna l'inizio dell'altro vertice del disco, la pastorale ed umanissima Morgenspaziergang. Si esce dalla centrale elettrica, si spengono le luci perchè è l'alba. Prima un flautino, poi un arpa, infine chitarrine e piano intonano un giro rilassante e contemplativo, fino al fading out che lascia sazi e contenti di questo disco multi-atmosferico.
Da allora Hutter & Schneider replicheranno più volte quel successo con altri hits del genere, ma i loro standard si abbasseranno progressivamente. Per cui, ritengo che Autobahn sia il loro miglior disco in quanto media equilibratissima fra scarse velleità avanguardistico/sperimentali e ottime potenzialità compositive / pop.
Brown Rice
Sono strani i percorsi che ci portano ad amare dischi assai distanti dal genere di ascolti a cui siamo più abituati. Da giovanissimo la conoscenza e la frequentazione di persone più grandi mi è servita proprio a questo: aprire nuove porte e placare la mia fame di conoscenza musicale e non solo.
Questo album era una delle colonne sonore delle serate da mio cugino, che a vent'anni viveva già da solo. La sua casa si trasformò ben presto in un porto di mare e io ero come un mozzo che ascoltava affascinato storie dei freaks marinai e viaggi in Oriente. Anni di passaggio e trasformazione; anni che avrebbero segnato le vite di tutti noi e scatenato in molti la voglia di viaggiare e fuggire dalla vita di provincia. L'India restava ancora una meta ambita dai più grandi, compreso mio cugino, che se ne partì quando gli anni '70 erano ai titoli di coda. Ritornò sei mesi dopo con i tabla sotto braccio, ma un'epoca era ormai finita e in sua assenza si era consumato l'ammutinamento: nel giro di un inverno, sul piatto della Ca' de Camel (così battezzata per il murales della facciata) cominciarono a girare Devo, Clash e Talking Heads.
Certi suoni però non si dimenticano e col tempo riaffiorano alla mente, stimolando la curiosità e la voglia di approfondire. Così qualche anno fa mi sono procurato questo disco per tornare ad immergermi con stupore nelle sue note fluide.
Certi suoni però non si dimenticano e col tempo riaffiorano alla mente, stimolando la curiosità e la voglia di approfondire. Così qualche anno fa mi sono procurato questo disco per tornare ad immergermi con stupore nelle sue note fluide.
Don Cherry (1936-1945) è stato un personaggio incredibile. Grande trombettista ed esploratore globale, amava viaggiare, ascoltare e sperimentare sempre nuovi strumenti, specie quelli non occidentali. Il suo nome è stato legato per molti anni al free jazz come membro del quartetto di Ornette Coleman, ma è stato anche uno dei primi musicisti ad avvicinarsi alla musica etnica, utilizzandola con naturalezza molto prima che diventasse una moda.
Brown Rice (1975) è un viaggio formato da quattro composizioni; una combinazione di elementi mediorientali, africani e americani, anticipatrice della world music e frutto di una libertà compositiva irripetibile. La copertina qui a fianco è quella originale dell'album, che è stato ristampato in cd qualche anno fa con una foto del musicista con la tromba in mano.
Brown Rice ci introduce a questo disco magico con una nenia notturna, ripetitiva e ipnotica, sorretta da una fantastica linea di basso funk distorto con l'uso del wah-wah sulla quale Don Cherry sussurra parole magiche, come in una specie di rituale.
Malkauns apre con un prolungato assolo di basso dal sapore esotico dato anche dalla presenza del tamboura, uno dei più antichi strumenti dell'India, le cui corde creano quel continuo sottofondo tipico delle musica indiana. Dopo più di quattro minuti entra la tromba di Don Cherry accompagnata dalla batteria in un assolo che mette in luce tutta la sua bravura.
Chenrezic, il terzo brano, ci trasporta in un'atmosfera inizialmente dal sapore africano in cui il trombettista recita una specie di mantra spirituale. Poi entra il piano che introduce lo splendido dialogo tra tromba e sax.
Degi-degi, chiude l'album con un sapore fortemente afro-funk. E' il brano che preferisco. Inizia con un giro serrato di basso sul quale Cherry ritorna al suo sussurro rima-canto che si alterna a maestosi giri di tromba, mentre il resto della band si lancia in un groove ipnotico e poliritmico. Meravigliosa conclusione di un disco magico che ho riscoperto.
Don Cherry - tromba, electric piano, voce
Frank Lowe - sax tenore
Ricky Cherry - electric piano
Charlie Haden - acoustic bass
Hakim Jamil - acoustic bass
Moki - tamboura
Billy Higgins - batteria
Bunchie Fox - electric bongos
Verna Gillis - voce
Gaznevada - Sick Soundtrack
Ero al primo anno di università a Bologna e uscendo una sera dal mio appartamento di via Sant'Isaia per un giro in centro, scoprii quasi per caso il Punkreas, un locale ricavato nella cantina di un ex circolo anarchico. Entrai e in apparenza pareva una delle tante tipiche osterie di Bologna, ma mi sbagliavo. In pochi minuti il locale underground cominciò a riempirsi di ragazzi e ragazze che dall'aspetto non parevano i tipici studenti frequentatori di osterie. Quella sera si esibivano i Gaznevada, gruppo bolognese a me sconosciuto, probabilmente in una delle prime uscite di una certa importanza. Suonarono alcuni brani dei Ramones ma anche pezzi loro e malgrado emergessero alcuni limiti tecnici, si intuiva che stava nascendo qualcosa di nuovo. Suoni e idee partoriti dalla Bologna del '77 di Radio Alice, del movimento e della cultura alternativa, ora già post-punk e avviata verso territori comunicativi inesplorati che avrebbero portato alla luce artisti geniali come Andrea Pazienza e Scozzari e che aveva già fatto emergere un gruppo cult demenziale come gli Skiantos.
L'anno dopo comprai il loro primo 33 giri Sick Soundtrack (sottotitolo: The invincible guardians of world’s freedom) e constatai con entusiasmo che gli "sbarbi" erano parecchio migliorati sotto tutti i punti di vista. Abbandonati subito gli esordi in stile Ramones, i Gaznevada erano stati capaci di creare qualcosa di assolutamente originale per il panorama ammuffito della musica italiana di quegli anni: una nuova prospettiva musicale... erano i figli del post punk americano e furono bravissimi, autentici surfisti dell'immaginario a prendere l'onda buona della new wave adattandola alla fantasia nostrana che rifletteva nell'universo rock la parte creativa del movimento bolognese del '77. Sick Soundtrack, primo LP dei Gaznevada, era un ingorgo stupefacente di intuizioni fra Devo e Contortions ('Going Underground'), Talking Heads (Oil Tubes), no wave newyorkese, psichedelia ... (Flavio Brighenti).
Purtroppo nel giro di pochi anni furono risucchiati e integrati dal business musicale. Dopo l'uscita del singolo I.C. love affair, che nel 1982 era ballato in tutte le piste, comparvero alcune volte in tv, intristiti nello stile italian dance-music tipicamente trash di quegli anni.
Vita breve e autodistruzione di una delle band di punta della new wave italiana.
Vita breve e autodistruzione di una delle band di punta della new wave italiana.
Various - Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
Si può acquistare un album composto da quasi sconosciuti ? O fidandosi di un’intuzione? Si, questo è stato proprio il caso di “Total Lee!“. Da tempo avevo letto della passione di Nick Cave per un certo cantautore americano di nome Lee Hazlewood. Mi piaceva la cover di “Sand” registrata dagli Einstürzende Neubauten e inclusa nell’album “Halber mensch“, null’altro sapevo di questo musicista dell’Oklahoma e quindi la cosa era rimasta lì, sepolta nella memoria.
Qualche estate fa trovo un’intervista al personaggio su una rivista di musica e l’annuncio di due cd: un album tributo e la pubblicazione di canzoni inedite dai suoi archivi di carriera ultra decennale. La curiosità d’ ascoltare le canzoni del signor Lee Hazlewood, alcuni nomi coinvolti nel progetto, altri completamente a me sconosciuti e la coincidenza di essere strutturato come un album tributo di cui mi ero innamorato in passato … là comprato! Nel frattempo ho trovato qualche notizia su questo autore di culto e così ho approfondito la sua conoscenza. Hazlewood è nato nel 1929, ha fatto il dj per l’esercito durante la guerra di Corea e una volta rimpatriato, fu tra i primi a trasmettere i dischi di Elvis Presley. Proseguirà la sua attività nel settore della musica fondando una etichetta discografica, iniziando lui stesso a scrivere canzoni e diventando produttore. Finalmente nel 1963 riesce a pubblicare a suo nome il primo album. Il tanto atteso successo arriverà quando rilancerà la figlia di Frank Sinatra, Nancy. Scriverà e canterà per lei quattro pezzi indimenticabili: “These boots are made for walking“, “Sand“, “Some velvet morning” e “Summer wine“, quest’ultimi tre sono presenti in “Total Lee!“.
Dopo questo importante successo Lee tornerà ad essere un artista di culto, non passando mai di moda fra gli intenditori della musica. Durante gli anni settanta trascorrerà la vita fra la Svezia, l’Europa e gli USA. Poi la sua fama e la stima sono ricresciute fra gli anni ottanta e i novanta, grazie ad alcuni protagonisti del nuovo rock: Jesus and Mary Chain e i già citati Einstürzende Neubauten e Nick Cave. Lee Hazlewood ha scritto più di trecento canzoni, interpretate da Elvis Presley, Frank Sinatra, Dean Martin e tanti altri. Molti lo considerano uno dei più importanti autori di pop music. Le sue canzoni sono riconoscibili per la voce baritonale, per le melodie orchestrate, mischiate con la pop music, il country e intrecciate con qualche vena oscura. Uno stile affascinante, che sicuramente è rimasto impresso a molti dei musicisti coinvolti nel tributo “Total Lee!”. Devo essere sincero che parte degli artisti coinvolti non li conosco, ma le loro canzoni suonano davvero ammalianti, o meglio le canzoni di Lee Hazlewood! Leggendo il libretto allegato, lo stesso Hazlewood riconobbe il pregio di aver scelto anche brani non famosi, segno di un profondo rispetto e conoscenza dell’autore.
Various, Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
City Slang, 2002
Qualche estate fa trovo un’intervista al personaggio su una rivista di musica e l’annuncio di due cd: un album tributo e la pubblicazione di canzoni inedite dai suoi archivi di carriera ultra decennale. La curiosità d’ ascoltare le canzoni del signor Lee Hazlewood, alcuni nomi coinvolti nel progetto, altri completamente a me sconosciuti e la coincidenza di essere strutturato come un album tributo di cui mi ero innamorato in passato … là comprato! Nel frattempo ho trovato qualche notizia su questo autore di culto e così ho approfondito la sua conoscenza. Hazlewood è nato nel 1929, ha fatto il dj per l’esercito durante la guerra di Corea e una volta rimpatriato, fu tra i primi a trasmettere i dischi di Elvis Presley. Proseguirà la sua attività nel settore della musica fondando una etichetta discografica, iniziando lui stesso a scrivere canzoni e diventando produttore. Finalmente nel 1963 riesce a pubblicare a suo nome il primo album. Il tanto atteso successo arriverà quando rilancerà la figlia di Frank Sinatra, Nancy. Scriverà e canterà per lei quattro pezzi indimenticabili: “These boots are made for walking“, “Sand“, “Some velvet morning” e “Summer wine“, quest’ultimi tre sono presenti in “Total Lee!“.
Dopo questo importante successo Lee tornerà ad essere un artista di culto, non passando mai di moda fra gli intenditori della musica. Durante gli anni settanta trascorrerà la vita fra la Svezia, l’Europa e gli USA. Poi la sua fama e la stima sono ricresciute fra gli anni ottanta e i novanta, grazie ad alcuni protagonisti del nuovo rock: Jesus and Mary Chain e i già citati Einstürzende Neubauten e Nick Cave. Lee Hazlewood ha scritto più di trecento canzoni, interpretate da Elvis Presley, Frank Sinatra, Dean Martin e tanti altri. Molti lo considerano uno dei più importanti autori di pop music. Le sue canzoni sono riconoscibili per la voce baritonale, per le melodie orchestrate, mischiate con la pop music, il country e intrecciate con qualche vena oscura. Uno stile affascinante, che sicuramente è rimasto impresso a molti dei musicisti coinvolti nel tributo “Total Lee!”. Devo essere sincero che parte degli artisti coinvolti non li conosco, ma le loro canzoni suonano davvero ammalianti, o meglio le canzoni di Lee Hazlewood! Leggendo il libretto allegato, lo stesso Hazlewood riconobbe il pregio di aver scelto anche brani non famosi, segno di un profondo rispetto e conoscenza dell’autore.
Various, Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
City Slang, 2002
K-X-P
Le porte del cosmo che stanno su in Germania continuano a distanza di decenni ad emanare il loro influsso sonoro. Questa volta il verbo kraut è stato raccolto e attualizzato in Finlandia da Timo Kaukolampi con il suo gruppo K-X-P. L'elettronica di Neu! e Faust rappresenta una delle loro fonti principali d'ispirazione; musica senza chitarre con un nucleo formato da patterns basso-batteria sui quali si innestano i sintetizzatori per creare un sound cosmico e pulsante che è stato definito paranoid dark disco oppure anche spaced-out krautrock meets drummy-disco-dance-party (combinazione cervellotica ma divertente, coniata dalla rivista musicale online XLR&R).
Si comincia con l'ipnotica Elephant Man (un omaggio a Lynch?); synth maestoso e percussioni tribali in un trip che svela subito in quali territori sonori si andrà a navigare: dosi massicce di elettronica per un buon album (uscito ai primi d'ottobre) in grado di sintetizzare ritmiche moderne con le radici dell'elettronica tedesca degli anni '70. Sono solo due i brani cantati; uno è quello del video.
Tracklist
01. Elephant Man
02. Mehu Moments
03. 18 Hours (Of Love) video
04. Labirynth
05. Aibal Dub
06. Pockets
07. New World
08. Epilogue
Paura della musica
Nell'agosto del 1979 uscì un disco con una copertina formata per intero da una rete metallica su sfondo nero; in alto a sinistra la scritta Talking Heads - Fear of music: opera fondamentale che preparò il terreno al successivo Remain in Light. Fu questo per Byrne e compagni il vero album della svolta, quello che anticipò le sperimentazioni di My life in the bush of ghosts e gli scenari futuri della new wave più avanguardistica. Il sound dei primi due album delle teste parlanti comincia a mutare e soprattutto a maturare a livello espressivo; i meccanismi creativi della canzone vengono vivisezionati per dare vita forme sonore inedite; entra di prepotenza l'elettronica e si allargano gli orizzonti, ponendo i primi mattoni delle contaminazioni etniche e della world music (Zimbra). Il basso di Tina Weimouth si fa più caldo, pulsante, mentre la chitarra è ormai utilizzata principalmente come strumento ritmico.
Collaborano Fripp (chitarra in Zimbra) e ovviamente Brian Eno con un ruolo sempre più determinante. E' un disco multiforme e proiettato nel futuro, un sorta di anatomia della società post-moderna, dove David Byrne ci accompagna in un viaggio intellettual-musicale nelle nostre nevrosi: a volte alienato (Drugs) a volte frenetico (Cities, Life during war time) oppure ossessivo (Mind); e nell'unica ballata del disco (Heaven) canta: Il Paradiso è il posto dove non succede mai niente. La paura della musica non è mai stata così piacevole e terribile.
Quali gruppi oggi sono ancora portatori di questo spirito visionario alla ricerca di nuovi confini e orizzonti per la loro musica?
Collaborano Fripp (chitarra in Zimbra) e ovviamente Brian Eno con un ruolo sempre più determinante. E' un disco multiforme e proiettato nel futuro, un sorta di anatomia della società post-moderna, dove David Byrne ci accompagna in un viaggio intellettual-musicale nelle nostre nevrosi: a volte alienato (Drugs) a volte frenetico (Cities, Life during war time) oppure ossessivo (Mind); e nell'unica ballata del disco (Heaven) canta: Il Paradiso è il posto dove non succede mai niente. La paura della musica non è mai stata così piacevole e terribile.
Quali gruppi oggi sono ancora portatori di questo spirito visionario alla ricerca di nuovi confini e orizzonti per la loro musica?
Gadji beri bimbra clandridi
Lauli lonni cadori gadjam
A bim beri glassala glandride
E glassala tuffm i zimbra
Bim blassa galassasa zimbrabim
Blassa gallassasa zimbrabim
June Miller
Nome abbastanza brutto, purtroppo. Che si confonde con Virginiana Miller, gruppo pop trascurabilissimo - per fortuna non sono nè sorelle nè parenti...
I June Miller sono:
Un gruppo italiano.
E qui mi sono giocato una buona metà dei lettori dei questo blog.
Cantano in inglese.
E qui, arrivederci a metà dei sopravvissuti al punto precedente.
Hanno pubblicato un ep su vinile ed uno su cd. Sono esauriti, ma si possono scaricare le versioni in mp3, gratuite.
Con questa terza notizia dovremmo essere rimasti in due o tre.
Avrei potuto mettere qui qualche banalità della serie "meglio soli etc.", e invece ho rinunciato, troppo facile.
I June Miller sono liguri, non ho idea di quanti anni abbiano e neppure mi importa.
So però che hanno pubblicato dell'ottima musica, e hanno fatto due cose veramente belle:
1. Hanno messo on-line, su The Breakfast Jumpers[1], la versione in mp3 del primo ep. L'hanno chiamata "Simulacra Sunset Ep - De Luxe Edition", e insieme alle tracce dell'ep originale ce ne sono altre 9, tra pezzi "scartati" dall'ep, demo, remix e live. Il tutto gratuito e legale.
Poi si può scegliere di spendere una bella paccata di euro per l'ultimo cofanetto di chiunque volete voi. Indovinate un po' cosa ho scelto io...
2. Hanno pubblicato da poco un secondo ep, "With Downcast Eyes", già direttamente scaricabile dal sito di marsiglia records[2]. Ci sono due nuovi membri nel gruppo, una è Federica alla voce. E lei ha una voce commovente, da lacrime agli occhi per quanto è bella e per quanto la usa bene. Ascoltatela su "No One Comes, Someone Goes", oppure su "Liseli", o sulla bella cover di "Pet Life Saver" dei Giardini di Mirò (tratta da Altri Altrigiardini).
Quest'ultima definisce in modo sufficentemente preciso il suono dei June Miller: siamo dalle parti dei Giardini di Mirò, chitarra smandolinata più o meno: post-rock cantato. Ma fatto veramente bene. Consigliatissimi.
Note e links:
[1] The Breakfast Jumpers è un fantastico - ma davvero - blog che parla di musica. Italiana, moderna/indie/alternativa/sperimentale/pop/folk. Ma nuova. E spesso ottima. Io ci faccio un giro tutti i giorni da parecchio tempo.
[2] marsiglia records è una net label genovese, che ha pubblicato un buon numero di cose molto interessanti: Lo-Fi Sucks! e Port-Royal, tra gli altri. Molti dei lavori sono disponibili per il download, sotto licenza Creative Common. Un giro qui non è tempo perso...
I June Miller sono:
Un gruppo italiano.
E qui mi sono giocato una buona metà dei lettori dei questo blog.
Cantano in inglese.
E qui, arrivederci a metà dei sopravvissuti al punto precedente.
Hanno pubblicato un ep su vinile ed uno su cd. Sono esauriti, ma si possono scaricare le versioni in mp3, gratuite.
Con questa terza notizia dovremmo essere rimasti in due o tre.
Avrei potuto mettere qui qualche banalità della serie "meglio soli etc.", e invece ho rinunciato, troppo facile.
I June Miller sono liguri, non ho idea di quanti anni abbiano e neppure mi importa.
So però che hanno pubblicato dell'ottima musica, e hanno fatto due cose veramente belle:
1. Hanno messo on-line, su The Breakfast Jumpers[1], la versione in mp3 del primo ep. L'hanno chiamata "Simulacra Sunset Ep - De Luxe Edition", e insieme alle tracce dell'ep originale ce ne sono altre 9, tra pezzi "scartati" dall'ep, demo, remix e live. Il tutto gratuito e legale.
Poi si può scegliere di spendere una bella paccata di euro per l'ultimo cofanetto di chiunque volete voi. Indovinate un po' cosa ho scelto io...
2. Hanno pubblicato da poco un secondo ep, "With Downcast Eyes", già direttamente scaricabile dal sito di marsiglia records[2]. Ci sono due nuovi membri nel gruppo, una è Federica alla voce. E lei ha una voce commovente, da lacrime agli occhi per quanto è bella e per quanto la usa bene. Ascoltatela su "No One Comes, Someone Goes", oppure su "Liseli", o sulla bella cover di "Pet Life Saver" dei Giardini di Mirò (tratta da Altri Altrigiardini).
Quest'ultima definisce in modo sufficentemente preciso il suono dei June Miller: siamo dalle parti dei Giardini di Mirò, chitarra smandolinata più o meno: post-rock cantato. Ma fatto veramente bene. Consigliatissimi.
Note e links:
[1] The Breakfast Jumpers è un fantastico - ma davvero - blog che parla di musica. Italiana, moderna/indie/alternativa/sperimentale/pop/folk. Ma nuova. E spesso ottima. Io ci faccio un giro tutti i giorni da parecchio tempo.
[2] marsiglia records è una net label genovese, che ha pubblicato un buon numero di cose molto interessanti: Lo-Fi Sucks! e Port-Royal, tra gli altri. Molti dei lavori sono disponibili per il download, sotto licenza Creative Common. Un giro qui non è tempo perso...
Young Guns
Glielo dicevo all’amico/socio/direttore di Sunday Morning che rischiamo di apparire un po’ vintage e siamo solo agli inizi. Io sono vintage di natura, ero già vintage a 5 anni di età, ma lui no e insomma ho sentito due bei dischetti di giovani virgulti così ne (s)parlo un po’. Mi piace metterli assieme non solo perché mi sono piombati in iPod praticamente in contemporanea, ma anche perché sono due dischi diametricalmente opposti così uno si complimenta con l’altro. Nel senso che uno dice all’altro: hey che disco fico e l’altro risponde anche tu però.
Yes, sono già al quarto Bloody Mary ma oggi va così. Nel senso che ieri a quest’ora ero ancora a tre Bloody Mary. Comunque, uno dei due dischetti è poderoso rock’n’roll stile 50s, l’altro tenere ballate acustiche stile 70s. I 60s li stiamo ancora cercando, ma d’altro canto se ti ricordi i 60s vuol dire che non c’eri, e io nel 1968 andavo alla prima elementare e sì me li ricordo bene. Gli uni sono inglesi e gli altri americani, anzi no, due sono americani e uno è inglese purosangue anche lui.
Gli inglesi fanno Jim Jones Revue, a onor del vero mi sono interessato a loro perché dentro ci suona alle chitarre il fratello della goddess, Beth Orton, e cioè Rupert Orton. Ma sono bravi assai tutti quanti, frontman in primis, il rude Jim Jones che mi piace già il nome perché è lo stesso del protagonista di una delle più belle ballate folkie anglosassoni. Suonano come i nipotini incazzati di Little Richard (che in verità era già bello incazzato di suo) e di Jerry Lee Lewis (l’attacco del brano che apre il cd è proprio quello di Rock’n’Roll degli Zeppelin che ovviamente lo avevano rubato a – su fate lo sforzo di ricordarvela – Jerry Lee) con un suono bello zozzo e rutilante come si vuole dalla genìa che li influenza – apparentemente – in modo vistoso, i Bad Seeds di Nick Cave. Ops. Infatti il produttore di questo Burning Your house Down è proprio uno di loro, Jim Sclavunos. Un disco diretto e fanculante, un disco da havin’ a party.
Gli altri sono i Fistful of Mercy (come dire, per un pugno di misericordia…) c’è dentro quel gran piacione di Ben Harper quello che piace alla gente giusta – a me molto poco in verità, ma io non sono mai stato uno giusto, a un suo concerto una sera mi sono anche addormentato e no, non suonava acustico, ma scimmiottava Jimi Hendrix dall’inizio alla fine, Voodoo Chile compresa), Joseph Arthur, songwriter dell’Ohio scoperto e lanciato da Peter Gabriel e un figlio d’arte, come piace al mio socio/direttore, Dhani Harrison, figlio di George. Mi sovviene or ora mentre scrivo che di tre ne ho intervistati due, Ben Harper e Joseph Arthur, in persona, quando le case discografiche avevano ancora i soldi per portare gli artisti in promozione dagli Usa fino a Milano. Bei tempi, simpatici ragazzi, credo fosse stato più di dieci anni fa. Be’, il loro As I Call You Down è proprio un bel disco, estremamente beatlesiano nelle armonie vocali – anzi harrisoniano – e ricco di mestizia, dolcezza, tristezza. Tutte le cose che piacciono a me. Acustico, con lo straordinario Jim Keltner alla batteria, e una serie di ballatone che virano dal gospel al blues al folk. In chiave deliziosamente pop.
Recensione del cazzo, me ne rendo conto, E pure doppia. Quello che ci vuole adesso è allora un Bloody Mary doppio. Peace. And Hate.
Yes, sono già al quarto Bloody Mary ma oggi va così. Nel senso che ieri a quest’ora ero ancora a tre Bloody Mary. Comunque, uno dei due dischetti è poderoso rock’n’roll stile 50s, l’altro tenere ballate acustiche stile 70s. I 60s li stiamo ancora cercando, ma d’altro canto se ti ricordi i 60s vuol dire che non c’eri, e io nel 1968 andavo alla prima elementare e sì me li ricordo bene. Gli uni sono inglesi e gli altri americani, anzi no, due sono americani e uno è inglese purosangue anche lui.
Gli inglesi fanno Jim Jones Revue, a onor del vero mi sono interessato a loro perché dentro ci suona alle chitarre il fratello della goddess, Beth Orton, e cioè Rupert Orton. Ma sono bravi assai tutti quanti, frontman in primis, il rude Jim Jones che mi piace già il nome perché è lo stesso del protagonista di una delle più belle ballate folkie anglosassoni. Suonano come i nipotini incazzati di Little Richard (che in verità era già bello incazzato di suo) e di Jerry Lee Lewis (l’attacco del brano che apre il cd è proprio quello di Rock’n’Roll degli Zeppelin che ovviamente lo avevano rubato a – su fate lo sforzo di ricordarvela – Jerry Lee) con un suono bello zozzo e rutilante come si vuole dalla genìa che li influenza – apparentemente – in modo vistoso, i Bad Seeds di Nick Cave. Ops. Infatti il produttore di questo Burning Your house Down è proprio uno di loro, Jim Sclavunos. Un disco diretto e fanculante, un disco da havin’ a party.
Gli altri sono i Fistful of Mercy (come dire, per un pugno di misericordia…) c’è dentro quel gran piacione di Ben Harper quello che piace alla gente giusta – a me molto poco in verità, ma io non sono mai stato uno giusto, a un suo concerto una sera mi sono anche addormentato e no, non suonava acustico, ma scimmiottava Jimi Hendrix dall’inizio alla fine, Voodoo Chile compresa), Joseph Arthur, songwriter dell’Ohio scoperto e lanciato da Peter Gabriel e un figlio d’arte, come piace al mio socio/direttore, Dhani Harrison, figlio di George. Mi sovviene or ora mentre scrivo che di tre ne ho intervistati due, Ben Harper e Joseph Arthur, in persona, quando le case discografiche avevano ancora i soldi per portare gli artisti in promozione dagli Usa fino a Milano. Bei tempi, simpatici ragazzi, credo fosse stato più di dieci anni fa. Be’, il loro As I Call You Down è proprio un bel disco, estremamente beatlesiano nelle armonie vocali – anzi harrisoniano – e ricco di mestizia, dolcezza, tristezza. Tutte le cose che piacciono a me. Acustico, con lo straordinario Jim Keltner alla batteria, e una serie di ballatone che virano dal gospel al blues al folk. In chiave deliziosamente pop.
Recensione del cazzo, me ne rendo conto, E pure doppia. Quello che ci vuole adesso è allora un Bloody Mary doppio. Peace. And Hate.
The Bridge - A Tribute to Neil Young
Conobbi questo disco una sera d’estate a casa di un mio amico, grande appassionato di Neil Young. Ricordo che tra una chiacchera e l’altra Diego mi disse: “Tu che ascolti sempre Nick Cave lo sapevi che ha fatto ‘Helpless’?” Non ne sapevo nulla e quindi Diego tirò fuori dal suo leggendario armadio, pieno di dischi, cd e box set, l’album “The bridge a tribute to Neil Young“. Da quella sera d’estate mi misi subito alla ricerca del cd, che trovai dopo un anno circa.
Neil Young fa parte della storia della musica rock, è noto come uno dei dinosauri del rock, un aspetto che però continua ad affascinare il suo pubblico di ogni generazione, è la sua capacità di mettersi in gioco, di continuare a suonare e a comporre musica con coerenza, passione senza mai fermarsi sui successi raggiunti.
Generazioni di musicisti lo citano direttamente, gli si sono ispirati e nei loro lavori si sentono le tracce della sua opera. Molti ne hanno una stima immensa. D’altronde lo stesso Young, da sempre, ha dimostrato di essere attento alle novità musicali: si è avvalso della collaborazione di musicisti alternativi come i Sonic Youth o i Pearl Jam. Non occorre ricordare che in un pezzo sentiamo citato Johnny Rotten dei Sex Pistols oppure che Young ha addirittura dedicato una canzone a Kurt Cobain dei Nirvana.
Probabilmente proprio da questa stima e fiducia duratura sono nati alcuni tributi, il primo di questi è proprio “The bridge a tribute to Neil Young“.
Il disco viene aperto dai Soul Asylum con “Barstool blues“, il brano non si distacca molto dall’originale, la interpretano nel loro stile secco con due chitarre: una acustica l’altra elettrica. Delicata e con toni drammatici la versione di “Don’t let it bring you down” di Victoria Williams & Williams Brothers. I Flaming Lips iniziano e finiscono in modo inconsueto “After the gold rush“, il pezzo è interessante perché arricchito di derive acide, tipiche della loro produzione di quel periodo. “Captain Kennedy” viene resa con suono post-punk da Nikki Sudden & the French Revolution. Invece i Loop rallentano “Cinnamon girl“, la voce del cantante sembra arrivare da un posto lontano.
Nick Cave con solo due Bad Seeds, Mick Harvey e Kid Congo Powers suonano “Helpless“, la voce è calda, profonda e confortante, accompagnata dalla chitarra acustica e dalla slide in sottofondo; uno dei pezzi più rispettosi. Strana, la versione di “Mr. Soul” dei Bongwater, resta la base rock ma con effetti elettronici.
Allegra e brillante invece “Winterlong” proposta dai Pixies, cantata a due voci, nuovo rock con un suono cristallino, bravi!
I Sonic Youth si cimentano con “Computer age” tratto da un album più discussi di Neil Young: “Trans am“; la loro versione dimostra che il pezzo è valido e lo elettrificano nel loro stile; il pezzo è cantato da Thruston Moore, bravi tutti. Proprio non mi aspettavo di trovare gli Psychic TV di Genesis P-Orridge che eseguono “Only love can break your heart” con tanto di violino.
Grandi i Dinosaur Jr. che scelgono “Lotta love“, ci fanno capire che hanno appreso in pieno la lezione elettrica di Neil Young, in questa formazione ci sono sia J. Mascis che Lou Barlow. Henry Kaiser suona con David Lindley ed esegue una medley di “The needle and the damage done” e di “Tonight’s the night“, poi sceglie “Words” dove alla voce torna Victoria Williams; buone versioni anche se simili agli originali, bella la chitarra e il pianoforte. Come penultimo brano troviamo “Out of the blue” eseguita dai B.a.l.l. una versione un pò grezza.
L’edizione in cd ha due canzoni in più rispetto al vinile e una parte dei profitti sono stati donati alla “The Bridge School“, scuola fondata dalla moglie e dallo stesso Young per aiutare i bimbi affetti da gravi malattie.
Riferimenti:
Various “The Bridge - A Tribute to Neil Young” 1989, Caroline Records
Neil Young fa parte della storia della musica rock, è noto come uno dei dinosauri del rock, un aspetto che però continua ad affascinare il suo pubblico di ogni generazione, è la sua capacità di mettersi in gioco, di continuare a suonare e a comporre musica con coerenza, passione senza mai fermarsi sui successi raggiunti.
Generazioni di musicisti lo citano direttamente, gli si sono ispirati e nei loro lavori si sentono le tracce della sua opera. Molti ne hanno una stima immensa. D’altronde lo stesso Young, da sempre, ha dimostrato di essere attento alle novità musicali: si è avvalso della collaborazione di musicisti alternativi come i Sonic Youth o i Pearl Jam. Non occorre ricordare che in un pezzo sentiamo citato Johnny Rotten dei Sex Pistols oppure che Young ha addirittura dedicato una canzone a Kurt Cobain dei Nirvana.
Probabilmente proprio da questa stima e fiducia duratura sono nati alcuni tributi, il primo di questi è proprio “The bridge a tribute to Neil Young“.
Il disco viene aperto dai Soul Asylum con “Barstool blues“, il brano non si distacca molto dall’originale, la interpretano nel loro stile secco con due chitarre: una acustica l’altra elettrica. Delicata e con toni drammatici la versione di “Don’t let it bring you down” di Victoria Williams & Williams Brothers. I Flaming Lips iniziano e finiscono in modo inconsueto “After the gold rush“, il pezzo è interessante perché arricchito di derive acide, tipiche della loro produzione di quel periodo. “Captain Kennedy” viene resa con suono post-punk da Nikki Sudden & the French Revolution. Invece i Loop rallentano “Cinnamon girl“, la voce del cantante sembra arrivare da un posto lontano.
Nick Cave con solo due Bad Seeds, Mick Harvey e Kid Congo Powers suonano “Helpless“, la voce è calda, profonda e confortante, accompagnata dalla chitarra acustica e dalla slide in sottofondo; uno dei pezzi più rispettosi. Strana, la versione di “Mr. Soul” dei Bongwater, resta la base rock ma con effetti elettronici.
Allegra e brillante invece “Winterlong” proposta dai Pixies, cantata a due voci, nuovo rock con un suono cristallino, bravi!
I Sonic Youth si cimentano con “Computer age” tratto da un album più discussi di Neil Young: “Trans am“; la loro versione dimostra che il pezzo è valido e lo elettrificano nel loro stile; il pezzo è cantato da Thruston Moore, bravi tutti. Proprio non mi aspettavo di trovare gli Psychic TV di Genesis P-Orridge che eseguono “Only love can break your heart” con tanto di violino.
Grandi i Dinosaur Jr. che scelgono “Lotta love“, ci fanno capire che hanno appreso in pieno la lezione elettrica di Neil Young, in questa formazione ci sono sia J. Mascis che Lou Barlow. Henry Kaiser suona con David Lindley ed esegue una medley di “The needle and the damage done” e di “Tonight’s the night“, poi sceglie “Words” dove alla voce torna Victoria Williams; buone versioni anche se simili agli originali, bella la chitarra e il pianoforte. Come penultimo brano troviamo “Out of the blue” eseguita dai B.a.l.l. una versione un pò grezza.
L’edizione in cd ha due canzoni in più rispetto al vinile e una parte dei profitti sono stati donati alla “The Bridge School“, scuola fondata dalla moglie e dallo stesso Young per aiutare i bimbi affetti da gravi malattie.
Riferimenti:
Various “The Bridge - A Tribute to Neil Young” 1989, Caroline Records
Accidenti le torpedini!

Qualche mese prima a casa mia c'era invece finito il padellone di Darkness on the edge of Town di Bruce Springsteen, prestito di un amico. Be', a parte un pezzo, Prove it all Night, non mi piacque per niente. Insomma, un ragazzo di 17 anni che voglia aveva di sentire una voce rantolante sofferente disperante cantare di fabbriche, di vita dura da sopportare e che diavolo ancora. Molto, molto meglio sentirsi raccontare di "ehi ecco la mia ragazza che sta arrivando", che è quello che mi stava a cuore. O meglio ancora, qualcuno che mi diceva, be', anche gli sfigati sono fortunati. A volte. Oggi, che sono sull'rolo della vecchiaia, posso oviamente dialogare con Darkness, un disco che va bene per questa età. Ma anche a questa età, si può avere un cuore che batte tumultuoso com euna punk song.
Tom Petty infatti tutto questo lo faceva in canzoni di tre/massimo quattro minuti, sputate fuori con l'urgenza e la velocità dei dischi punk che allora mi piacevano tanto. Mica pezzi che duravano un'eternità che non si capiva quando cominciavano e quando finivano. Allo stesso tempo questi non erano punk perché avevano tutta la classicità rock che a me piaceva: suonavano come un incrocio tra Bob Dylan, i Kinks, gli Stones e i Byrds. Non potevo chiedere altro alla vita, se non che arrivasse la ma ragazza...
Tom Petty and the Heartbreakers sembrava fossero venuti fuori da qualche apertura spazio/tempo e che allo stesso modo come erano venuti ci sarebbero spariti. Infatti mentre con gli anni a seguire il successo di Springsteen diventava sempre più poderoso, in Italia di Tom Petty si sentiva parlare sempre meno. E noi dicevamo: pensa questo, una volta era quasi più famoso di Springsteen e adesso non se ne frega più nessuno.
Ma la freschezza, l'esultanza, la violenza di Refugee, di Shadow of a Doubt, di Don't do me like that sono ancora intatte, trent'anni dopo. E adesso che ascolto la versione deluxe - che una volta tanto nel secondo dischetto non ha dei pezzi inutili e superflui, ma un autentico disco valido quasi quanto il primo - mi guardo attorno e sì, eccola la mia ragazzina dei 17 anni che mi sta venendo incontro ancora una volta. Dischi come Damn the Torpedoes non perdono un grammo del loro valore. E gli sfigati, a volte, possono anche diventare fortunati. Specie se li bagna quella Lousiana Rain che chiudeva gloriosamente l'album.
Curiosamente, anche questo disco come Darkness di Springsteen arrivava dopo una lunga battaglia per l'indipendenza dallo strapotere della discografia. E dentro alla produzione c'era Jimmy Iovine che aveva lavorato anche con Bruce. Ma trent'anni dopo io so ancora da che parte stare, da quella della miglior rock'n'roll band d'America degli ultimi trent'anni appunto: gli Spezzacuori del biondo Tom Petty.
Neil Young - On the Beach
Nell'epoca pre-internet gli spartiti musicali erano carissimi e introvabili. Io avevo solo quello di Harvest, che sapevo suonare a memoria. Quando il mio grande amico Gigi (detto Belgio perché risiedeva con la famiglia a Bruxelles) tornò al paese per le consuete vacanze estive con lo spartito di On the beach, fu per me un regalo inaspettato.
Blues, malinconico, struggente: è uno dei miei dischi preferiti di Neil Young. La sua copertina enigmatica mi ha sempre affascinato, a cominciare dal rottame di Cadillac che spunta dalla sabbia, simile ad un razzo schiantatosi sulla spiaggia. Il giallo è il colore dominante, ma l'insieme trasmette tristezza, come una giornata di fine estate. Forse il definitivo addio all'utopia di Woodstock e al movimento hippie? Neil Young, di spalle, è solo di fronte all'oceano della vita: il rimorso per la morte da eroina degli amici Bruce Barry e Danny Whitten (chitarrista dei Crazy Horse); la solitudine per il fallimento della relazione con la moglie, l'attrice Carrie Snoodgress; la scoperta della malattia cerebrale del figlio Zeke. Dopo i trionfi di Harvest, due anni terribili dai quali se ne uscì con un capolavoro, all'epoca poco compreso. Una parte della stampa specializzata lo bollò come deprimente.
Un altro oggetto significativo della copertina, anche se non in gran evidenza, è il giornale: il titolo della facciata richiama il caso Watergate che portò alle dimissioni di Nixon. Neil Young non aveva mai nascosto il suo disprezzo nei confronti presidente americano, reso esplicito nel testo della famosa e tragica Ohio (Tin soldier and Nixon coming) in cui vengono rievocati gli avvenimenti del 1970, quando quattro studenti vennero uccisi durante una manifestazione dalla guardia nazionale.
Vicenda strana quella dell'uscita in versione CD. Si è dovuto attendere parecchio, fino al 2003. NY si era intestardito nel non voler pubblicare l'album, dichiarandosi non soddisfatto della qualità audio. Una petizione online di migliaia di fan alla fine lo ha convinto.
Tutta la mia devozione a colui che considero quasi come un fratello maggiore che mi ha insegnato a suonare la chitarra.