FREE era una fanzine musicale nata a Firenze durante gli anni ’80.
FREE era una fanzine che sia per la qualità dei contenuti che per la “forma“, la si poteva considerare una rivista propriamente “contenitore“.
A FREE era allegato un vinile originale.
Di FREE, parlando con un amico, lui mi disse: “… la mia fanzine dopo averla letta potevi anche buttarla. FREE no. La conservavi, la rileggevi.” Uno degli ideatori di FREE è stato Paolo Cesaretti, ora architetto e designer e con lui ho avuto la fortuna e il piacere di scambiare qualche domanda sulla rivista, su quello che ci stava dietro e attorno. Ovviamente stiamo trattando della scena musicale indipendente italiana e non degli anni ’80.
Le risposte possono sembrare un po’ lunghe , quasi dei racconti – del resto come in altre interviste di questo blog – ma a noi non importa, a noi piace così. Domanda: FREE, un nome semplice, diretto e facile da pronunciare, perché?
Risposta: Free!, libero di dire ciò che pensi ma anche gratuito. Si, certo, inizialmente è una fanzine fotocopiata, distribuita gratuitamente. Da qui il nome. Capisco che oggi la free press sia un fenomeno generalmente accreditato, ma nell’81 è ancora una cosa piuttosto bizzarra, dal sapore vagamente militante. Siamo un gruppetto di compagni di scuola che ha desiderio di condivisione. Con grande ingenuità e aspettativa autoproduciamo una fanzine, la distribuiamo in qualche negozio di dischi, la inviamo alle due-tre radio di cui ci piacciono i programmi. Ne escono cinque numeri, non credo che la tiratura abbia mai superato il centinaio di copie a numero.
D: I primi numeri sono una fanzine tipica: fogli battuti a macchina da scrivere, loghi, foto e disegni tagliati e incollati … R: Un vero atto d’amore adolescenziale per la musica. Non esiste una linea editoriale. Semplicemente l’idea è quella di mettere insieme un giornale che parli di rock. Gli argomenti sono piuttosto vari, le foto ritagliate qua e là oppure scattate da noi ai concerti. Dal terzo numero iniziamo ad entrare nel giro. Il quinto ed ultimo fotografa sul nascere un momento in cui le cose stanno accadendo, la scena fiorentina si sta delineando, c’è molta energia in giro, molti gruppi si formano gli uni all’insaputa degli altri, nascono le prime conflittualità. Distribuiamo la fanzine alle semifinali del Festival Rock nazionale; è tarda primavera, al Casablanca ci ospita la Materiali Sonori che ha lì un piccolo banco. Ricordo ancora le unghie smaltate di rosa di Giampiero Bigazzi mentre mi porge una copia dell’album compilation Matita Emostatica.
D: Poi esce il primo numero di FREE stampato e con un allegato sonoro. R: Accade in quattro momenti distinti.
1_I giorni a cavallo fra il 1981 e il 1982 me ne vado a Londra e accanto al mio albergo in Hogarth Road c’è questo strano negozio di dischi. Nel seminterrato hanno un intero reparto di dischi quadrifonici. Mi faccio coraggio e una sera entro, mi guardo un po’ in giro, ci sono tre clienti vestiti di nero e i due commessi alt-punk. Non vedo in giro un disco che mi sia vagamente familiare. I tre confabulano in italiano e mi sembrano piuttosto esperti. Domando. Ah, anche voi di Firenze! (…) Si, vado alla Rokkoteca Brighton (…) Noi due suoniamo e lui ha un negozio di dischi (…) Come si chiama il gruppo?
Ho appena conosciuto i Pankow per caso, a Londra nella sede della 4AD.
2_Estate 1982, prendo contatto con Vittore Baroni. Vive a Forte dei Marmi con i genitori. E’ agosto, io vengo dalla spiaggia e sono in pantaloni corti, lui è Vittore Baroni, iconico e austero come lo sarà sempre. La sua camera è tappezzata di dischi sui quattro lati da pavimento a soffitto. E’ una mattinata luminosa. Quattro ore in cui imparo molto. Trax-Trux, Lt. Murnau, mail art, diy, Nocturnal Emissions, Piermario Ciani, Merzbow, RockZero, dischi giapponesi con copertine ed etichette fatte a mano, cassette, montagne di cassette autoprodotte, altri dischi che sembrano esistere solo lì. E poi fotocopie, soprattutto fotocopie, alcune addirittura a colori, collage fotocopiati, informazioni fotocopiate. E’ la prima volta che mi imbatto in un’idea di network artistico: c’è quotidianamente tutto un mondo di scambi nella cassetta delle lettere di Via Raffaelli 2 a Forte dei Marmi. Con Vittore discutiamo di una fanzine stampata con un disco allegato. L’idea a lui piace, dice che mi aiuterà.
3_Qualche mese prima, alla Rokkoteca Brighton, hanno suonato i Diaframma. Incredibili. Di Ian Curtis non so ancora molto, ma Nicola è magnetico. I fratelli Cicchi sono potenti e compatti. Fiumani punk dentro. La Rokkoteca stipata, odore di fumo e sudore, luci blu e rosse, notturni urbani proiettati sullo sfondo. Un momento assoluto. Ne scrivo su Free!, li intervisto, vado alle loro prove, mi regalano il test pressing del loro primo singolo. Durante l’estate girello in macchina la sera con Fiumani. Parliamo molto, a casa sua, a casa mia. Gli propongo la mia idea della fanzine con il 45 giri split allegato. Al telefono Federico mi dice: va bene, a patto che sull’altro lato ci siano i Pankow o i Neon, nessun altro gruppo. Una visione precisa della collocazione dei Diaframma. In realtà mi spiazza perché avrei voluto inserire sull’altro lato Romy dei Polyactive, che a mio avviso è un gruppo di grande qualità ma sottostimato, ma mi fa anche felice perché per me Pankow e Neon sono irraggiungibili.
4_Infine: una sera d’ottobre dello stesso anno, in una cantina di Via Giusti a Firenze. Sono per la prima volta negli studi Polar SSS, dentro il mondo dei Pankow. Un mondo misterioso, come i loro bellissimi manifesti apparsi in giro in città, fondo bianco, immagine astratta in grigio, alternanza di caratteri cirillici e neoclassici. Scelte formali e di linguaggio lontane anni luce dalla tappezzeria multicolore che troneggia sui muri di una città italiana all’inizio degli anni ottanta.
Spiego a Fasolo la mia idea, la fanzine organizzata a schede, stampa in offset ma con gli impianti fotocopiati su acetato per contenere i costi, la confezione sigillata. Gli mostro una bozza della copertina. FREE – un tutto maiuscolo che renda il nome più grafico e meno banale, senza il frivolo punto esclamativo finale – 8212 – suggestione sistemica da produzione in serie, in realtà solo anno e mese, codifica ispirata alle realizzazioni di Trax.
Il primo numero di FREE nuova serie lo realizzo con Maurizio, che gli imprime un’identità visiva, ne detta le linee guida. I Diaframma e i Pankow registrano due brani inediti. Vinile blu o vinile nero? Nero certo, non stiamo realizzando un gadget. Le etichette del disco sono stampate su di una carta troppo sottile e si rompono in fase di incollaggio. Alla fine le copie consegnate sono 453. Troviamo una sarta che ci confeziona 450 buste di plastica. Di sera alla Polar SSS assembliamo schede e disco nella busta. La sarta poi sigilla il tutto.
D: IDL – Industrie Discografiche Lacerba nasce in contemporanea con il nuovo corso di FREE? L’etichetta poi produrrà molto materiale, indipendentemente da FREE. R: Il disco in vinile è un oggetto assoluto. Include emozione, informazione, piacere tattile e visivo. E’ suono e superficie, almeno due lati di vinile e due o quattro o più supporti quadrati di carta da utilizzare. Offre ampie possibilità di sperimentazione e variazione sul tema. Produrre un disco significa emozionarsi ogni volta che arrivano gli scatoloni con l’oggetto finito. E’ inevitabile che succeda. C’ è troppa energia in giro per non cercare di fermarla, rappresentarla, diffonderla. Industrie (di nuovo il fascino dell’aspetto seriale e di un certo immaginario urbano) Discografiche (nessun equivoco, facciamo quei bellissimi oggetti) Lacerba (le avanguardie storiche, l’anno zero della rifondazione novecentesca delle arti. Un riferimento caro a tanta parte del post-punk). In fondo il nome, questo nome, è anche un gioco non privo di ironia.
Industrie Discografiche Lacerba nasce come editore di FREE ma si sviluppa come work in progress con una riformulazione costante del tema e degli obiettivi. Inizialmente, oltre a FREE, IDL produce libri, eventi, collezioni di moda pret a porter. In seguito il progetto si evolve più marcatamente verso la produzione discografica continuando a tracciare una strategia che leghi il contesto in cui opera ad un panorama internazionale d’idee. Questo porta alla realizzazione delle produzioni di Minox e Rinf nei rispettivi ambiti d’influenza – Bruxelles con Steven Brown e Gilles Martin per i primi, e Londra con Adrian Sherwood per i secondi – e, al contrario, a far incidere a Steven Brown – americano d’origine ed europeo per scelta – un’album tributo a Luigi Tenco. Con la stessa idea di sovrapposizione topologica disegnata su rotte invisibili Industrie Discografiche Lacerba ottiene per alcune settimane un posto nella TOP20 indipendente inglese con “Night Train” dei Dub Syndicate.
D: Gli aspetti che mi hanno colpito di FREE sono l’alta qualità degli articoli scritti, la forma grafica originale e i temi non sempre legati alla musica. Gli articoli, forse è riduttivo definirli così, sono dei piccoli saggi o analisi critiche sulla musica, sul cinema o addirittura sul fumetto. Tu coordini e scrivi, però ti avvali anche di alcuni giornalisti e musicisti, come Vittore Baroni o Alex Spalck dei Pankow… R: Il taglio degli articoli vira dalla cronaca alla elaborazione critica nel momento in cui passiamo da un foglio d’informazione e immediata condivisione della scena locale ad un progetto più complesso – che oltretutto richiede un processo produttivo molto più articolato e lungo. Spesso il pezzo scritto diventa meno funzionale e maggiormente espressivo. I due estremi sono probabilmente proprio Baroni e Spalck. Il primo indagatore analitico e completista, l’altro narratore immaginifico.
Il progetto che va delineandosi si deve confrontare con iniziative similari. Punto di riferimento oltre alle edizioni di Trax sono Sordide Sentimental e la seminale cassetta compilation+booklet di Les Disques du Crépuscule From Bruxelles With Love. Quest’ultimo è un oggetto che non sposa l’approccio filosofico “alto” di Sordide Sentimental ma si propone come espressione della ricerca di un’estetica pop. Crépuscule è un progetto colto che utilizza il pop come linguaggio. Questa è la nostra collocazione. Vogliamo fare o almeno partecipare ad una rivoluzione estetica. Cerchiamo un nuovo rigore formale dopo gli anni della libertà espressiva a tutti i costi. Le nostre pubblicazioni parlano di questo senza parlarne esplicitamente ma lasciando spazio alla ricerca grafica e musicale, donando ai testi il ruolo di riflessione e costruzione di uno scenario, utilizzando l’oggetto assemblato come media. Non possiamo e non vogliamo fare informazione piuttosto costruire o contribuire ad una scena, ad un progetto estetico ed emozionale.
La politica non ci interessa: l’estetica politica è profondamente ancorata agli anni settanta. Quegli anni settanta che in Italia sembra non debbano mai finire. Gli anni che dividono i ragazzi in freak e discotecari. E poi abbiamo vissuto la nostra prima adolescenza nel periodo del terrorismo. Ogni attività politica è vista con sospetto e rifiuto.
Ci interessa piuttosto una certa idea di cooperazione, di primordiale network che unisca realtà affini. E questo avviene rapidamente. Insieme o appena dopo FREE nascono altre pubblicazioni che sposano in maniera istintiva un certo tipo di estetica e una visone trasversale dei temi da trattare. Cito a memoria Dancing Silhouettes di Paola Trimboli e Filippo Rizzi e la bellissima e colta Nero di Marco Formaioni. Schede, musica allegata, argomenti non solo musicali diventano il tratto distintivo di The Scream di Massimiliano Busti.
D: Hai citato alcuni “colleghi” fanzinari, in che rapporti sei con loro? Parlami un pò di più del loro lavoro.
R: Di solito è un rapporto che si basa sulle affinità e sullo scambio reciproco. Il fatto che FREE si presenti così diverso da quello che è il panorama corrente dell’editoria indipendente richiama su di noi l’attenzione di chi possiede una sensibilità assimilabile alla nostra. Quotidianamente arrivano per posta notizie di iniziative editoriali sotterranee da altre città italiane ed europee. Con alcuni si instaurano bellissimi e duraturi rapporti epistolari. Penso a Paola Trimboli e a quanta intelligenza c’è nelle sue lettere. Messina è lontanissima eppure, forse proprio per questo, Dancing Silhouttes e i Victrola sembrano vivere di una luce diversa, distanti da tutto, anche da un certo conformismo. Ma mi scrivono ripetutamente anche personaggi bizzarri e deliranti come ad esempio Blu Schizofrenico alias Carlo Antonelli attuale direttore di Rolling Stone. Nascono collaborazioni con Daniele Ciullini per la sua Nouances, con Tribal Cabaret di Alessandra Giombini e VM di Alessandro Limonta, entrambe fanzine dotate di un’identità propria, che puntando sull’allegato sonoro fotografano un momento di evoluzione della scena musicale indipendente nazionale. Infine Marco Pandin, ammirevole per la determinazione e concretezza con cui porta avanti il progetto Rockgarage. Sebbene le nostre ragioni, modalità e obiettivi siano diversi ci teniamo costantemente in contatto scambiandoci informazioni e progettando sinergie. Marco produrrà No Inzro dei Degada Saf che, insieme al primo album dei Plasticost, rimane uno dei dischi più interessanti e meno allineati del periodo.
D: La scelta degli articoli da pubblicare o da suggerire per la pubblicazione come avviene?
R: In questo c’è una grande libertà. Ognuno può parlare di ciò che vuole, rimanendo sicuramente in sintonia con il progetto generale. Tutto accade in maniera piuttosto naturale. E’ un gruppo di persone per cui nutro una grande stima, persone curiose piene di interessi condivisi. Casomai nei quattro numeri di FREE si assiste ad un graduale cambiamento di “umore”, da regesto della cultura gotico/industrial a progetto tematico in netta antitesi con quell’immaginario che ormai è diventato fortemente codificato. Inesorabilmente il numero delle pagine si assottiglia e, quella che a questo punto si fa fatica a definire fanzine, diviene un oggetto composto da una scatola, un booklet, un disco, alcune cartoline.
D: La grafica poi di FREE è bellissima ed originale, pensata poi a contenere un “oggetto”.
R: FREE è nel suo insieme un progetto che opera in un’area che potremmo definire di sovversione del prodotto culturale. Ovvero il prodotto non esiste più come “distrazione” che impone all’individuo le sue logiche, ma è qualcosa da esplorare e con cui interagire. Non è più intrattenimento o arte piuttosto una miscela di entrambe. FREE, elabora un taglio compositivo trasversale, oggetto dalla struttura ipertestuale (scatola / booklet / cartoline / disco) assemblato come un contenitore in equilibrio per risonanza fra immagine e contenuto: testi critici, poesia, mail-art, musica. L’obiettivo è la ricerca di un’apertura nella barriera iconografica di corrente o di controcorrente che sia. FREE e Industrie Discografiche Lacerba sono espressione di un insofferente disinteresse nei confronti del postmoderno di cui disconosciamo il manipolato recupero del canone classico, mentre ci affascinano il movimento moderno e le avanguardie storiche – di nuovo, il nome Lacerba e il logo ispirato ai segni di Cocteau. Tutta o quasi la grafica delle nostre edizioni è improntata a questo concetto. Ricontestualizzando frammenti iconografici e ponendoli a contrastante accompagnamento di testi e musica, otteniamo nell’insieme un effetto a-temporale, con quella sorta di ambiguità e complessità abitualmente associate all’arte. E FREE riassume in se l’idea dell’edizione d’arte riprodotta in serie limitata, ma è anche feticcio/anti-feticcio nel momento in cui per accedere ai suoi contenuti la preziosa confezione deve per forza essere rotta, distruggendone così l’aura.
D: Il tema grafico varia ad ogni numero.
R: Fasolo si occupa dei primi due numeri. Lavora in maniera istintiva, in costante bilico fra estetica industriale e classicismo, influenzato dal Saville dell’epoca. Trovo brillante come riesca ad elaborare soluzioni inedite nell’uso delle immagini. Nel primo numero si impegna a dare coerenza a materiali incoerenti poiché graficamente prodotti da ognuno di noi. Nel secondo numero il suo lavoro è più chiaro e completo. Riesce a progettare il numero per intero o quasi, e il risultato complessivo è a tratti sorprendente. Dopo FREE8303 avviene la rottura con Fasolo e Spalck. I motivi oggi fanno sorridere, ma all’epoca sembrano insormontabili. Il progetto visivo di Industrie Discografiche Lacerba passa a Lapo Belmestieri, che con le proprie intuizioni ne segnerà da lì in avanti l’identità. Identità per cui Industrie Discografiche Lacerba diventa un piccolo caso nel panorama indipendente italiano ed europeo. Lapo ha una sensibilità diversa da Maurizio. Avverte e si appropria del continuo mutare della cultura visiva dell’epoca. Ha molteplici punti di riferimento. Mescola i generi e i linguaggi. Usa tecniche miste.
Inizia così un lungo periodo di lavoro in tandem, io mi occupo di contattare, coordinare, scrivere, Lapo di creare l’immagine. Insieme elaboriamo scelte e strategie.
D: Paolo, allora spiega un po’ quali strumenti usate, tu e Lapo?
R: Lo strumento principale è un’ispirata decontestualizzazione. Ovvero una versione naive del détournement situazionista, tattica ludica centrata sul saccheggio creativo di elementi preesistenti. Utilizziamo immagini recuperate da fonti varie con l’obiettivo di creare, insieme ai testi e alla musica, un originale “contesto emotivo”. Lapo è decisamente talentuoso nell’accostare e/o sovrapporre e/o contrapporre il disegno e la pittura alla fotografia, procedendo parallelamente ad una propria personale ricerca sugli effetti della manipolazione delle font. Le tecniche sono ovviamente analogiche. Macchina da scrivere, nastro magnetico, carta colla e forbici. L’errore e l’imperfezione fanno parte del gioco. E’ puro artigianato.
D: Parliamo un po’ delle interviste , come avvengono? Dopo i concerti o andando a trovare i musicisti? Dai racconta …
R: In realtà l’unico numero che riporta delle interviste è FREE8303, in parte utilizzate come frammenti e citazioni. Il numero esce dopo un breve soggiorno a Londra. Partiamo con un elenco di contatti forniti da Baroni e altri. Visitiamo, intervistandoli, Chris and Cosey, gli SPK e i Nocturnal Emissions. Convinciamo gli Schleimer K a darci un brano per il singolo. Consegniamo una copia di FREE8212 alla segretaria di John Peel, che ci assicura il passaggio radiofonico, e Rough Trade ce ne compra ben cinque copie. D’altronde la fanzine non è tradotta in inglese, lo sarà solo in seguito, e il singolo è uno split di due band italiane sconosciute.
D: E’ anche così che prendi contatto per pubblicare dei brani di musicisti? Che poi sono sempre inediti. Le registrazioni come arrivano? Hai carta bianca?
R: Il mio lavoro di giornalista per Rockerilla e altre testate mi porta a conoscere personalmente tanti gruppi. Però, inaspettatamente, funziona meglio il contatto tramite posta. Infatti i brani promessi da Section25, Durutti Column e Virgin Prunes, concordati di persona dopo un’intervista, si perdono nel mare di lettere e solleciti inviati. Mentre un bellissimo brano come Leaving dei norvegesi Fra Lippo Lippi arriva dopo un breve scambio epistolare. Di lì a poco il gruppo firmerà per la Virgin inglese diventando icona del pop anni ottanta in mezzo mondo.
Sì, il materiale è sempre inedito e solo successivamente viene ripubblicato. L’unico brano che non ha mai visto la luce in una diversa edizione è Whiter dei Pankow. Cerco di abbinare gruppi che siano in sintonia con il tema sottinteso del numero in preparazione. Ma come capirai molto è dovuto anche al caso. Ognuno dei singoli split ha una sua storia, per non parlare dei singoli mai pubblicati per vicissitudini varie.
D: Sono rimasti dei numeri di Free da pubblicare? Se si, perché?
R: Ci sono almeno due numeri che non vedono la luce. Sono solo idee abbozzate. FREE1984 avrebbe dovuto essere più ricco, con allegato un 10” invece del solito singolo. Questo formato di transizione fra il singolo e l’album ci affascina. Abbiamo già Portion Control, Die Form e Rinf. Nel frattempo arriva un brano di Coil The sewage worker’s birthday party che sarebbe stato incluso nel loro album di debutto in una versione leggermente diversa, e un bel brano solo strumentale di Twin Vision, spin-off degli SPK. Per completare il mini- album contiamo su di un brano dei Virgin Prunes che non arriverà mai. Credo che alla fine non ce la siamo sentita di investire su di una edizione ancora più costosa delle precedenti senza avere almeno un nome di forte richiamo. Il tempo scorre e decidiamo di proseguire sulla strada dell’EP singolo, lasciando indietro il brano di Coil che non ci convince e che non è realmente inedito. Geff Rushton non ci perdona questa approssimazione e mi scrive una lettera dai toni incandescenti quando esce FREE1985sect.2. L’altro episodio è un numero che avrebbe dovuto fare il pari con FREE1985sect.2.
Pensiamo ad un numero ispirato all’immaginario infantile. Vini Reilly, dopo una lunga chiacchierata, mi confida con il suo abituale candore che un intero album di Durutti Column per Factory Benelux è rimasto inedito e che potrebbe darmi uno di questi brani. Lapo contatta Virna Lindt. Siamo entrambi conquistati dall’immagine e dal suono della Compact Organization. Un lavoro molto preciso su di una certa estetica pop. Ci riproveremo anche più avanti con Tot Taylor per IDL Pop Classics. Virna Lindt ha all’attivo Shiver un album strano, stiloso e fuori dal tempo. La segretaria della Compact ci risponde che Virna, per modica cifra, ci potrebbe dare la versione alternativa di un brano che verrà pubblicato sul suo prossimo album Play/Record.
Durutti Column+Virna Lindt: non se ne fa di nulla. Un progetto più impegnativo sta dirottando le nostre energie: Lazare dei Minox, il nostro primo vero disco.
Nei sei-sette anni di vita di IDL i progetti rimasti sulla carta sono molti. In quest’ottica IDL è di fatto quasi pura speculazione teorica in quanto è maggiore il numero dei progetti archiviati – a volte ad un passo dalla realizzazione – rispetto a quelli che effettivamente vedono la luce. In una storia di quanto rimane stritolato nei meccanismi della nostra indolenza e dell’inefficienza distributiva ricorderei un’intero album di Minox con Blaine Reininger prodotto da Gilles Martin, un EP di Catherine Deneuve che interpreta canzoni di Gainsbourg, la brillante serie IDL Pop Classics e l’EP Wyndham Lewis degli Ultramarine, edito poi da Les Disques du Crépuscule, poco prima che questi diventino protagonisti della nuova elettronica minimale accompagnando Bjork in una trionfale tournee americana. Infine il canto del cigno di IDL: la già confermata e non avvenuta collaborazione di Minox con Sakamoto.
D: FREE e la parte commerciale: come ti sei organizzato con i distributori e i negozi?
R: La distribuzione è il vero, grande, irrisolvibile problema. Per un paio d’anni è un lavoro porta a porta: copie in conto vendita, annunci sui giornali, una manciata di sottoscrizioni e abbonamenti. Un vero disastro. Poi, come spesso accade, interviene il caso. Nel luglio del 1984 a Firenze si tiene il primo Independent Music Meeting. Un giovane discografico belga di belle speranze è in vacanza in Toscana. Viene a sapere del Meeting. E’ uno dei rari visitatori paganti. Arriva al nostro stand dove, fra abiti esposti e dischi incorniciati, effettivamente non si capisce bene chi siamo e di cosa ci occupiamo. Domanda, si incuriosisce, ascolta la prova di stampa dell’EP allegato a FREE1984setc.1. Vuole acquistare tutta la tiratura di 900 copie. E anche le rimanenti 150 di FREE8303. Io non ci credo. Siamo talmente abituati e non vendere mai più di cinque copie per volta che sentiamo puzzo di fregatura. Stiliamo e firmiamo un contratto seduta stante. Kenny Gates sta fondando PIAS Play It Again Sam che diventerà nel giro di pochi anni il più importante distributore europeo di musica indipendente. Le cose cominciano ad andare meglio. Ora ci possiamo dedicare a progetti più ambiziosi.
D: La stampa ufficiale come vede FREE? Hai contatti con le redazioni o i giornalisti?
R: La stampa generalista ci liquida come un fenomeno di costume. La stampa musicale invece è rappresentata da noi stessi. Vittore è capo redattore di Rockerilla, io e Pandin scriviamo sulla stessa testata. Federico Guglielmi del Mucchio Selvaggio è un instancabile promotore della cultura indipendente e sotterranea quindi parteggia istintivamente per iniziative come la nostra. Buscadero, Fare Musica, Rockstar sono mondi lontani ancorati ad un mercato morto e sepolto. Red Ronnie debutta con il deludente TuttiFrutti, primo episodio del suo incoerente ma duraturo lavoro a favore di un certo eclettismo pop spettacolare. Per la stampa nazionale di settore è decisamente un momento di transizione. Riceviamo maggiori attenzioni dai potenti settimanali musicali inglesi. Dave Henderson di Sounds ci contatta, vuole sapere cosa facciamo, vuole scrivere di noi.
D: C’è un numero a cui sei particolarmente affezionato?
R: Sono affezionato all’idea complessiva di Industrie Discografiche Lacerba. Segnalo a chi ci legge che all’epoca siamo non ancora ventenni. Oggi me ne stupisco. Mi piace pensare che queste produzioni rappresentino il microscopico tassello di un momento zero della nostra cultura giovanile. Mi fa sorridere l’ingenuità che a tratti ne emerge. Ma l’autorevolezza di questo come di altri progetti a così tanti anni di distanza è forse dettata proprio dalla convinzione che anima le nostre azioni di allora.
I quattro numeri di FREE sono uno differente dall’altro. FREE8212 segna la transizione da fanzine a qualcosa di diverso, è l’atto fondativo, ma è ancora un ibrido. FREE8303 ha già un’identità definita, è ben sviluppato e completo da tutti i punti di vista. FREE1984sect.1 è di nuovo un momento di passaggio, verso FREE1985sect.2 che abbandona completamente l’idea di fanzine in favore dell’oggetto contenitore. Questo accade in quattro anni. La tiratura cresce da 450 a 2.400 copie.
D: Perché decidi di smettere?
R: Produrre FREE è un grosso sforzo in termini organizzativi ed economici. Altri progetti sembrano più urgenti e interessanti. Ovvero il desiderio di fare il salto di qualità, da fanzine a etichetta discografica. Kenny Gates di PIAS, nostro distributore europeo, me lo rimprovera: avremmo dovuto continuare.
In realtà è finita anche per un altro motivo. Quel periodo è per noi una prima assoluta, tutto è proiettato verso il futuro, tutto accade velocemente ed instancabilmente, è un vortice elettrico, due anni significano un’immensità di tempo. Nel 1981 la musica è ancora sorprendente, già nel 1986 la fiamma si sta spegnendo.
Mi chiedo spesso che fine abbia fatto tutta quella energia. Mi interrogo sugli adolescenti di oggi, quelli che ho a portata di mano mi offrono una campionatura di buon livello. Oggi i ragazzi attingono al passato, usano repertori di trenta anni fa, uniscono stili, creano un linguaggio di frammenti, decontestualizzano e reinterpretano. Hanno però un atteggiamento passivo verso questa attività. Non innovano e raramente escono dagli schemi. Serenamente rassegnati ad un quotidiano perpetuo, fatto di stimoli senza peso, di desideri immediati e rapidamente deperibili. Forse è davvero questo il NOFUTURE urlato dal punk, ed è arrivato trenta anni dopo, ma ora è stabile e radicato. E mi rendo conto di quanto fosse difficile per noi diffondere e reperire le informazioni, di quanto fosse impegnativo mettere su una rete di contatti, trovare una distribuzione alle cose che facevamo, mentre oggi con internet e i social network tutto questo è veramente facile e possibile. Ma poi capisco che gran parte del fascino di quel periodo è proprio l’alone di mito creato dalla distanza in cui si sviluppavano le diverse scene. E le scene vivevano di questo mito, chi ascoltava un certo tipo di musica era un carbonaro, un diverso, uno strano che frequentava altri strani in luoghi anch’essi strani. E questo era bellissimo, era affermare la propria indipendenza, le proprie scelte che differivano da quelle dei nostri genitori, della massa dei nostri compagni di scuola che ascoltavano Baglioni o l’onda lunga dei cantautori.
Una rivoluzione silenziosa.
Un pò di anni fa googlando nel web mi capitò di trovare una homepage insolita e curiosa: il sito di Daniela Ceglie. La parte più interessante è dedicata al gruppo di Blixa Bargeld gli Einstürzende Neubauten dove troviamo tutti i testi originali e a fianco la traduzione in italiano. Un lavoro enorme dato che la che la discografia del gruppo comincia dagli anni ottanta. L'autore dei testi è il leader carismatico, Blixa Bargeld, che è pure compositore di musiche per colonne sonore di film, di opere teatrali e balletti; oltre ad essere stato il chitarrista dei Bad Seeds, il gruppo di Nick Cave.
Allora ho pensato di rivolgere qualche domanda a Daniela e di inserire quella vecchia intervista qui nel blog.
D: Daniela come ti è venuta l'idea di tradurre i testi degli Einstürzende Neubauten?
R: Fin da ragazzina ho sempre avuto la passione per i testi delle canzoni. Non appena comprato un disco, il primo bersaglio della mia attenzione era sempre il booklet dei testi. Mi piaceva capire quel che ascoltavo. Tutto ciò è ovviamente accaduto anche e soprattutto per i Neubauten, visto che da 12 anni sono il mio gruppo preferito. All'inizio mi accontentavo di tradurre in italiano dalla versione inglese che, nei dischi, affiancava il testo tedesco, ma poi ho pensato che sarebbe stato ben più interessante confrontarmi col testo originale. E così, nel 94 dall'oggi al domani ho cominciato a studiare il tedesco. Il mio primo esercizio di traduzione è stato il libro Hör Mit Schmerzen, di Klaus Maeck, che narrava la storia del gruppo dalle origini fino agli anni Novanta. A proposito, lo consiglio vivamente agli appassionati che se lo fossero lasciati sfuggire, tra l'altro so che ne esiste anche una versione aggiornata. D: Quando hai iniziato quest'opera di traduzione?
R: Nell'agosto del 2000, ancora emozionata dopo il loro concerto di Urbino. In quell'occasione ho avuto anche la grande opportunità di conoscerli di persona, esperienza che ho poi ripetuto al concerto di Roma, un mese dopo. Ero talmente estasiata, dopo Urbino, che non appena tornata a casa ho ritirato fuori tutti i dischi dei Neubauten che avevo, mi sono ritrovata fra le mani i testi e alcune traduzioni che avevo già fatto in passato... da lì a pensare di tradurre anche gli altri testi il passo è stato breve. Non so dirti esattamente quanto ci ho impiegato, ricordo che sono stata su dalla mattina fino a notte fonda per un bel po' di giorni, con la scrivania ingombra di dizionari e di varie altre risorse. Per il concerto di settembre avevo già messo tutto online, quindi diciamo che mi ci sono volute circa tre settimane a tempo pieno. Come ho detto, però, per molti testi la traduzione era stata già fatta da tempo, si trattava solo di rivederla un po'. D: Quali sono state le difficoltà che hai trovato?
R: Beh, in generale non si può certo dire che i testi di Blixa siano di una chiarezza cristallina, anzi sono piuttosto involuti, specie andando indietro nel tempo ai primi dischi (Kollaps, ma soprattutto "Fuenf auf der nach..."). Lo scoglio maggiore era ricondurre tutto a un filo più o meno logico di pensieri, cosa non sempre possibile perchè a quanto ne so (se non erro questo vien detto in un'intervista nella videocassetta "Liebeslieder") molti dei testi di quel periodo erano pura improvvisazione: Blixa si metteva al microfono e cominciava a tirar fuori suoni e parole, che poi venivano trascritti... E poi considera che a quell'epoca c'era il non trascurabile effetto prodotto dalle droghe... Dunque molto spesso non si può riconoscere una vera e propria metrica nel testo, nè tantomeno un filo logico. Inoltre, Blixa ha sempre avuto un gusto particolare per costruzioni grammaticali atipiche (rispetto alla schematicità imposta dalla lingua tedesca), citazioni, doppi sensi di non sempre facile resa in italiano. Comunque, ci ho provato, e spero di aver fatto un buon lavoro. D: Avevi pensato sin dall'inzio di pubblicare il tuo lavoro in un sito web?
R: No, come ho detto ho sempre fatto le traduzioni ad uso esclusivamente personale. D'altra parte non mi risultava che ci fosse una risorsa italiana preesistente così completa sui testi dei Neubauten. E allora, dato che da qualche mese avevo messo su il mio sito personale, ho pensato di utilizzare quello spazio per mettere a disposizione di tutti le mie traduzioni. D: Dagli anni ottanta al 2000 con "Silence is sexy", la ricerca musicale degli Einstürzende Neubauten continua in molte direzioni. Si può dire lo stesso per i testi?
R: Sì, senza dubbio. Blixa è cresciuto molto come autore, d'altra parte basta confrontare i primi testi con gli ultimi per vedere quanto il suo modo di scrivere si sia sempre più raffinato. Ha sempre avuto un talento speciale per costruire immagini poetiche insolite... Pensa solo a testi "storici" e bellissimi come "Halber Mensch", "Ich Bin's", "Z.N.S.", "Letztes Biest", "Yü-Gung"... Ma questo suo talento vien fuori molto meglio adesso, sfrondato dell'improvvisazione degli inizi. I testi si son fatti via via più studiati, sia nella forma che nella sostanza dei concetti espressi. I primi "sintomi" di questa maturità artistica si sentono già in "Haus der Lüge", ma la svolta definitiva a parer mio è arrivata con il successivo "Tabula Rasa". Da quanto ho potuto constatare, è a partire da quel disco che la creatività poetica di Blixa ha trovato finalmente il suo sbocco più felice, con testi più costruiti, più narrati, più complessi e affascinanti, che tradiscono anche una cultura letteraria, umana e artistica veramente notevole. Ha mantenuto il gusto per la ricerca letteraria (quasi mai usa la parola o l'espressione d'uso più corrente per esprimere un pensiero) per le doppie (talvolta triple!) letture e per le citazioni d'ogni genere, aspetto questo che io ho cercato di rispettare infarcendo le mie traduzioni di note a margine, affinchè poco o nulla andasse perduto. D: Inoltre Blixa Bargeld ha scritto un libro di poesie...
R: Sì, si tratta di "Stimme Frisst Feuer", che risale agli anni ottanta. Purtroppo non fa parte della mia collezione... E poi c'è anche "Texte für Einstürzende Neubauten/Text for Collapsing New Buildings", un interessantissimo libro dalla copertina fosforescente che contiene appunto tutti i testi in tedesco e inglese e una splendida intervista a Blixa. Solo che non so se si trovi in Italia. A me l'ha regalato Klaus Maeck... :o) D: La scrittura dei testi segue delle regole ben precise o...
R: Non saprei dirti. Se ci sono, queste regole variano parecchio da un disco all'altro... L'unico tratto comune che ho sempre notato è l'utilizzo molto frequente di metafore e altre figure retoriche, e anche l'uso "sonoro" della lingua tedesca. Il testo è costruito in modo che anche il suono stesso di ciascuna parola, la sua pronuncia, faccia parte integrante del progetto musicale generale. Per questo vi sono spesso parole di uso non comune, allitterazioni, rime interne... D: Che idea di ti sei fatta dell'artista Blixa Bargeld?
R: Hehehe, spero tu non voglia un giudizio obiettivo da me, a questo punto sarà chiaro a tutti che lo adoro! Comunque, ammiro moltissimo la sua fame di conoscenza, che l'ha portato a sperimentare sempre, uscendo dagli schemi non già per il gusto di essere "alternativo", ma per creare qualcosa di veramente nuovo. Il progetto Einstürzende Neubauten è iniziato ventun anni fa e non si è mai fermato, non ha mai prodotto un disco uguale all'altro, non si è mai stancato di spostare sempre più in la i confini del concetto stesso di musica... Beh, su di me tutto ciò ha un fascino particolare.... aggiungi poi il fascino personale di Blixa, che ho avuto modo di sperimentare quando l'ho incontrato... E' una persona veramente magnetica, se non fosse anche squisitamente gentile metterebbe davvero in soggezione... D: So che esiste un libro italiano sugli Einstürzende Neubauten solo con una parte dei testi, lo conosci?
R: Ma certo, il mitico libretto di Stampa Alternativa! Ricordo che fu pubblicato in concomitanza dell'uscita di Tabula Rasa. Certo, mi è stato molto utile come fonte d' informazioni, come del resto anche il libro di Klaus Maeck. Per quanto riguarda le traduzioni, effettivamente mi fece venire l'idea. Fu allora che cominciai a tradurre tutti i testi che avevo. Poi però il lavoro definitivo, come ho detto, è stato fatto l'anno scorso.
Steven Brown (membro fondatore dei Tuxedomoon) chiese ad un amico fidato di suggerirgli alcuni cantanti bravi degli anni sessanta. Ascoltando una cassetta trovata in un negozio sulla riviera Adriatica, la prima canzone che emozionò Brown fu “Ciao amore ciao”.
Dalle note interne del disco leggiamo: “Una strana musica melanconica sposata ad una luccicante produzione… accompagnata da un basso grave e da un tempo di rullante stile slow-rock, che irrompe in un maestoso ritornello, frenetico e corale: un hit maledetto.”
Brown restò colpito anche dalla vicenda artistica e umana del cantautore genovese. Il frutto di questo “colpo di fulmine” è lo splendido vinile a 33 rpm, dove canta anche altri classici di Luigi Tenco.
Il musicista americano affronta le canzoni rispettandole e interpretandole con la sua sensibilità e personalità. Sembra aver capito a fondo le canzoni e fa commuovere sentirlo mentre le canta. Un disco di classe e profondo, con dei suoni moderni e attuali, che ci fa rimpiangere, ancora una volta, la prematura scomparsa di Luigi Tenco.
Una nota curiosa riguarda l’accento americano di Steven Brown: ogni volta che lo ascolto mi sembra che aggiunga quel qualcosa in più alle canzoni, quel qualcosa di ineffabile rendendo queste interpretazioni ancora più curiose e suggestive, … uniche?
L’etichetta discografica che pubbblicò il vinile è la IDL - Industrie Discografiche Lacerba che al tempo stampò dischi e la fanzine FREE ... però questa è un altra storia su cui presto ritornerò.
Restate in contatto.
STEVEN BROWN “Brown plays Tenco”
1988, IDL - Industrie Discografche Lacerba
Setacciando il "tubo" (come dice l'amico Paolo Cesaretti della fanzine Free), ho trovato un po' di video creati e caricati dedicati ai musicisti pubblicati come allegato sonoro alla fanzine Rockgarage.
Una delle menti di Rockgarage è Marco Pandin e qui nel blog trovate un pò di materiale su di lui.
I video sono semplici e in pieno spirito "fai da te" o DIY (do it yourself), che poi vuole dire la stessa cosa.
Musica underground direttamente dagli anni'80 italiani.
Così mi è sembrata una buona occasione per ascoltare qualche brano da Rockgarage e allora ho preparato una playlist, eccola:
E ovviamente grazie a chi ha caricato questi video.
Verso la metà dello scorso Novembre sono stato in compagnia di un paio d'amici ad un mercatino dei dischi. Da tempo avevo promesso d'accompagnarli, visto che non c'erano mai stati. Arriviamo poco dopo l'apertura, però prima di entrare ci si beve un caffettino e poi giù nell'underground, nel senso letterale del termine perché la mostra mercato era proprio sotto l'edificio della fiera.
Dopo che gli amici hanno capito come è organizzata tutta la faccenda dei venditori di dischi, ci siamo separati e un po' svogliatamente me ne sono andato a zonzo. Forse mi seccava pagare un biglietto per entrare, forse perché non mi piace vedere vinili a prezzi d'alta quota (che scoperta, eh?). Insomma continuavo a camminare e a guardare, poi fra un banco e un altro trovo un tipo che vende decine e decine di libri di musica, tutti usati e pressoché in buon stato. La maggior parte erano biografie, alcune veramente insulse e patinate. Però non demordo e proseguo la ricerca perché ho sempre in testa di trovare qualche libretto "che non si sa mai ...".
Muovi quello libro, sposta quest'altra pubblicazione, sfoglia distrattamente quell'altro e intanto i miei polpastrelli si impolveravano. Poi sotto sotto trovo:
"Jerry Garcia - riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead".
Mi fermo, lo sfoglio, leggo con attenzione l'indice e guardo il prezzo: tre miseri euri. Non sono un grande appassionato dei Grateful Dead, però ho quei tre dischi psichedelici degli anni '60 che li resero famosi: "Anthem of the sun", "Aoxomoxoa" e "Live/Dead". In fondo Jerry e i Dead sono stati i protagonisti di un periodo della musica USA che mi piace, la cosidetta Summer of Love. E quindi non me la sono sentita di lasciare il buon Jerry sepolto da libri non proprio affini a lui o meglio a me. Non ci ragiono su oltre, lo prendo!
Il venditore mi ringrazia pure due volte, sia per il libro che per le monete "giuste giuste".
A casa ho iniziato a leggerlo un po' alla volta, la lettura è scorrevole e alla fine me la sono passata via bene. L'autore è sicuramente un estimatore e conoscitore profondo di Garcia e dei Dead. Non fa l'errore di scrivere un saggio critico ma "fa parlare" Jerry Garcia. Infatti Franco Bolelli ha selezionato interviste, anedotti e dichiarazioni del chitarrista che ne fanno una sorta di autoritratto a tutto tondo.
I temi vanno dalle canzoni e ai dischi dei Grateful Dead, a Bob Dylan, alla sua filosofia di vita, alle droghe e ad alcuni eventi importanti del periodo Sixties (Woodstock, la Summer of Love, Altamont). Gli argomenti sono trattati con un filo logico e delineano la fotografia di un grande personaggio della cultura alternativa.
Ovviamente non poteva mancare una discografia consigliata e qualche pagina dedicata ai bootleg, ai video e ai libri di e su Jerry Garcia.
Ripeto, veramente piacevole da leggere. Il libro, purtroppo, è fuori catalogo.
Jerry Garcia
Riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead
a cura di Franco Bollelli, Castelvecchi, Settembre 1996.
Si può acquistare un album composto da quasi sconosciuti ? O fidandosi di un’intuzione? Si, questo è stato proprio il caso di “Total Lee!“. Da tempo avevo letto della passione di Nick Cave per un certo cantautore americano di nome Lee Hazlewood. Mi piaceva la cover di “Sand” registrata dagli Einstürzende Neubauten e inclusa nell’album “Halber mensch“, null’altro sapevo di questo musicista dell’Oklahoma e quindi la cosa era rimasta lì, sepolta nella memoria.
Qualche estate fa trovo un’intervista al personaggio su una rivista di musica e l’annuncio di due cd: un album tributo e la pubblicazione di canzoni inedite dai suoi archivi di carriera ultra decennale. La curiosità d’ ascoltare le canzoni del signor Lee Hazlewood, alcuni nomi coinvolti nel progetto, altri completamente a me sconosciuti e la coincidenza di essere strutturato come un album tributo di cui mi ero innamorato in passato … là comprato! Nel frattempo ho trovato qualche notizia su questo autore di culto e così ho approfondito la sua conoscenza. Hazlewood è nato nel 1929, ha fatto il dj per l’esercito durante la guerra di Corea e una volta rimpatriato, fu tra i primi a trasmettere i dischi di Elvis Presley. Proseguirà la sua attività nel settore della musica fondando una etichetta discografica, iniziando lui stesso a scrivere canzoni e diventando produttore. Finalmente nel 1963 riesce a pubblicare a suo nome il primo album. Il tanto atteso successo arriverà quando rilancerà la figlia di Frank Sinatra, Nancy. Scriverà e canterà per lei quattro pezzi indimenticabili: “These boots are made for walking“, “Sand“, “Some velvet morning” e “Summer wine“, quest’ultimi tre sono presenti in “Total Lee!“.
Dopo questo importante successo Lee tornerà ad essere un artista di culto, non passando mai di moda fra gli intenditori della musica. Durante gli anni settanta trascorrerà la vita fra la Svezia, l’Europa e gli USA. Poi la sua fama e la stima sono ricresciute fra gli anni ottanta e i novanta, grazie ad alcuni protagonisti del nuovo rock: Jesus and Mary Chain e i già citati Einstürzende Neubauten e Nick Cave. Lee Hazlewood ha scritto più di trecento canzoni, interpretate da Elvis Presley, Frank Sinatra, Dean Martin e tanti altri. Molti lo considerano uno dei più importanti autori di pop music. Le sue canzoni sono riconoscibili per la voce baritonale, per le melodie orchestrate, mischiate con la pop music, il country e intrecciate con qualche vena oscura. Uno stile affascinante, che sicuramente è rimasto impresso a molti dei musicisti coinvolti nel tributo “Total Lee!”. Devo essere sincero che parte degli artisti coinvolti non li conosco, ma le loro canzoni suonano davvero ammalianti, o meglio le canzoni di Lee Hazlewood! Leggendo il libretto allegato, lo stesso Hazlewood riconobbe il pregio di aver scelto anche brani non famosi, segno di un profondo rispetto e conoscenza dell’autore.
Various, Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
City Slang, 2002
Marco Pandin dopo aver chiuso il ciclo di Rockgarage (fanzine ed allegati sonori), ha proseguito creando una nuova etichetta indipendente, la Catfood Press. L’idea era di continuare a stampare nuovo materiale però distribuendolo diversamente, senza intermediari. Ho fatto quattro chiacchiere con Marco sulla Catfood Press, che ha rappresentato un importante passo per arrivare all’attuale etichetta Stella*Nera.
Domanda: Marco, dopo la chiusura della fanzine e della etichetta discografica Rockgarage, non sei riuscito a stare fermo, vero?
Risposta: Non è andata proprio così, non si è trattato di un semplice voltare pagina, o di un improvviso cambiamento di scena e di progetti. Per spiegare meglio la situazione va fatta una premessa, certo un po’ troppo lunga ma necessaria. Nel giro di un paio d’anni Rockgarage aveva cambiato dimensioni, da una fanzine a mentalità e diffusione locale sembrava diventare un affare nazionale, o perlomeno ci si stava arrivando. Andavo spesso a Roma per lavoro e lì ho incontrato più volte Marcello Baraghini, che già ci aveva offerto la copertura legale di Stampa Alternativa: si pensava di dare a Rockgarage una periodicità regolare e con il suo sostegno tecnico sarebbe stato possibile. L’idea era di fare press’a poco come qualche anno dopo avrebbe fatto Giacomo Spazio con Vinile, un contenitore con dentro un disco 7” e un numero di pagine standard, il tutto fatto circolare a basso prezzo. A partire dal terzo numero, quindi dal 1983, abbiamo affidato una parte della tiratura di Rockgarage alla distribuzione commerciale. Lo stesso passo è stato fatto coi dischi: avevamo partecipato nel 1984 al primo meeting delle etichette indipendenti a Firenze e stabilito contatti con un sacco di gente, la voce girava, sono comparse su giornali e altre fanzine le prime recensioni e segnalazioni. Ritrovarsi segnalati su Sound Choice o Maximum Rock’n’Roll significava avere posta in arrivo da gestire per settimane e quindi contatti e spedizioni e scambi che andavano avanti per mesi. C’è una cosa da sottolineare: vorrei ricordare che eravamo un gruppo improvvisato di ventenni, dilettanti, dopolavoristi. Il successo di Rockgarage era senz’altro un’esperienza positiva, ma gestirlo era sempre più difficile e impegnativo. Io, che pure ne ero radicalmente coinvolto da prima del primo numero e del primo disco, Rockgarage non l’ho mai vissuto come “un lavoro” o “un obbligo”, era solo una parte della mia vita, non il nodo in cui si concentrava tutta la mia vita. Era una buona idea, questo sì, ma ne avevo anche altre in testa, e anche altri pensieri tipo la scarsa salute dei miei genitori, avevo altri problemi, per dire, casa e lavoro e sopravvivenza spicciola, altri interessi. Arrivavano lettere e richieste ogni giorno e quindi c’erano pacchi da fare e da spedire ogni giorno, e nelle buste delle lettere c’erano spesso anche dei soldi o dei francobolli, arrivavano vaglia, insomma c’era quel minimo di contabilità da tenere e col volontariato e l’improvvisazione e il dilettantismo si arrivava fino a un certo punto ma poi basta. Ci voleva insomma una quantità di tempo e di attenzione sempre maggiore, tempo ed attenzione che nessuno di noi aveva, io meno che meno, così abbiamo trovato chi poteva mettere a disposizione un po’ del suo tempo e della sua attenzione per noi, in cambio di soldi ovviamente. Il nostro principale punto di riferimento per la distribuzione era un ragazzo di Venezia che si era inventato praticamente dal niente un lavoro, uno con cui s’era fatta una certa amicizia e che era entrato nel nostro giro, e noi un po’ nei suoi. La scena indipendente di allora era costituita in grande parte da gente così, ragazzi più o meno come noi per cui c’era una certa tendenza alla fiducia reciproca ed alla collaborazione perché ci si riconosceva ciascuno nell’altro, eravamo ciascuno a suo modo impegnati a costruire un mondo. Erano ragazzi come noi quelli che suonavano nei gruppi e stampavano le fanzine, ed erano anche ragazzi come noi che aprivano dei piccoli negozi di dischi e dei piccoli locali: negozi come il Backdoor di Torino, locali come il Banale di Padova e il Victor Charlie di Pisa, sono tutte cose che sono state messe in piedi e fatte funzionare da gente che negli anni Ottanta aveva vent’anni. Purtroppo la fiducia è stata spesso mal riposta: noi siamo stati particolarmente sfigati, diciamocelo pure, ma non siamo stati certo un caso isolato, Rockgarage è stata solo una delle tante iniziative costrette a chiudere perché ci si ritrovava improvvisamente senza soldi e soprattutto senza che ce ne fosse un motivo, perché il materiale andava sì richiesto dai vari distributori e negozi e poi diffuso e venduto, però non veniva praticamente mai pagato. A dirne una Vittore Baroni e Piermario Ciani, sebbene Trax fosse un progetto molto meno traballante e disorganizzato di Rockgarage, hanno avuto esattamente gli stessi nostri problemi nel recuperare i crediti. Il non pagare era una pratica diffusa e comune sia ai negozi e distributori tradizionali che ai cosiddetti “alternativi”. I primi prendevano il grosso del materiale in nero, tipo cinquanta-cento-duecento copie, e solo cinque-dieci-venti fatturate, qualcuno magari ti dava un’elemosina di anticipo e se sollecitavi il saldo spesso ricevevi solo risate, tante volte a malapena riuscivi a presentarti che il telefono te lo sbattevano in faccia. Mica potevi prendere il treno e andare a Firenze o a Zurigo o a Tokyo e piazzarti lì davanti al negozio e piantare un casino: in fin dei conti le ricevute quando c’erano erano banali pezzi di carta con un timbro e una firma del cazzo sopra, e sarebbe stato controproducente sostenere i costi di una causa legale per recuperare quella miseria che risultava regolarmente fatturata. Con gli “alternativi” era meno complicato, si facevano degli scambi: certe cose importate erano solo in vendita, e questo è comprensibile, ma se concordavi uno scambio per dire con la Diavlery di Bologna poteva succedere, e infatti succedeva, che ti arrivava solo una parte del materiale perché nel frattempo le loro scorte si erano esaurite, e poi andava tutto a dissolversi in una nebbia di dimenticanze e pressapochismo. Quelli del Virus di Milano erano senz’altro più coerenti: non hanno mai rispettato gli accordi, prendevano il materiale ma poi non ti davano un cazzo, a me non è mai arrivato un pacchetto che sia stato uno. All’estero mica era diverso: anche negozi e distributori affermati come Blacklist Mailorder in California, che avevano preso contatto con me inviando un biglietto di referenze su carta intestata di Alternative Tentacles firmato da Jello Biafra, e addirittura i compagni insospettabili di No Man’s Land, Rec Rec, Eastern Works e Ayaa Disques (rispettivamente le basi tedesca, svizzera, giapponese e francese della Recommended inglese, non so se mi spiego) hanno richiesto e preso centinaia di copie di dischi e cd senza pagare un soldo né offrire neanche qualche fondo di magazzino in scambio. Pensa che dalle cassette dei Crass, pubblicate e ci tengo a sottolinearlo con regolare autorizzazione da Catfood Press, quelli di Blacklist hanno ricavato e stampato prima in vinile e poi in cd un bootleg. Tuttora lo si trova in vendita su siti anarchici e antagonisti tipo amazon.com, so che ne hanno vendute un bel po’ ma so anche che alla Dial House non hanno mai mandato un cazzo. Tornando alla tua domanda, nella mia linea del tempo la fanzine e l’etichetta Rockgarage, Catfood Press e poi P.E.A.C.E. e le attività con la A/Rivista Anarchica e stella*nera si sovrappongono, coesistono, sono una la prosecuzione, la mutazione, la degenerazione dell’altra. Un giorno io e i miei compagni di Rockgarage ci siamo ritrovati improvvisamente senza soldi, ma non è stata quella la catastrofe, non credo che a farci smettere sia stato il vuoto improvviso in cassa: il problema è stata la tristezza, l’amarezza per essere stati derubati di tutto. E’ stata senza dubbio un’occasione per crescere, per smetterla una buona volta con i cazzeggi e guardare in faccia la realtà, cominciare a fare sul serio con la vita. Ho continuato a scrivere e a interessarmi di musica perché mi è sempre piaciuto farlo, non è che non ero capace di stare fermo e allora dopo Rockgarage mi sono inventato un qualche altro giocattolo. In tutta onestà mi sembra di aver fatto praticamente sempre la stessa cosa, magari adattandomi meglio all’ambiente, cercando di ripararmi meglio dal maltempo.
D: La prima pubblicazione della Catfood Press fu il libro dedicato ai Crass e al movimento anarcopunk inglese.
R: Ho messo insieme un’intervista e le traduzioni dei loro testi, fatte da me e da altri amici e compagni, più un indirizzario di fanzine, gruppi, etichette, associazioni e centri culturali inglesi frutto di contatti presi personalmente e tramite Rockgarage ed A/Rivista Anarchica. Ho raccolto il tutto in un centinaio di pagine fotocomposte da me nei ritagli di tempo libero e che ho fatto stampare alla tipografia Utopia, dove stampavamo Rockgarage. A ogni copia ho allegato un flexi che qualche tempo prima veniva diffuso con la fanzine “Toxic graffiti” curata da Andy Palmer, uno dei chitarristi dei Crass. In quell’anno, nel 1984, ho iniziato a collaborare regolarmente con la A/Rivista Anarchica. Per via di quel che ci siamo detti finora ero davvero in serie difficoltà economiche e non potevo mandargli dei soldi come avrei voluto, così un giorno ho pensato che sarebbe stato bello sostenerla tramite quelle produzioni discografiche ed editoriali che sapevo fare e che mi piaceva fare. Direi che è nato tutto da qui, e che la cosa sta andando avanti da allora, con alti e bassi, anzi devo dire con alti e basta, e pure con delle grosse soddisfazioni.
D: Leggendo i titoli delle uscite della Catfood Press noto che i contenuti sono più politici e anarchici, vero?
R: Con gli anarchici mi sono sempre trovato bene, per me è una buona compagnia. Avevo cominciato a frequentarne quando a sedici-diciott’anni bazzicavo a Radio Mestre 103, era tutta gente più vecchia di me ma che mi trattava con rispetto anche se ero solo uno sbarbatello, pensa che con qualcuno ci si vede e ci si sente ancora adesso. Poi mi fermavo spesso e volentieri alla libreria Utopia di Venezia quando andavo all’università. Insomma mi s’era innescata una miccia da qualche parte dentro al cuore e mi sentivo attratto da quei giri e da quelle frequentazioni. La cosa è poi continuata, ho partecipato alle riunioni della redazione della A/Rivista e conosciuto tanti compagni. Sono sempre stato accolto a braccia aperte quando mi presentavo in una libreria o in un qualche centro o collettivo anarchico all’estero con una copia di A e gli mostravo il mio nome scritto lì sopra. Tante delle persone con cui mi sento più legato ed a mio agio le ho conosciute ed incontrate in giri anarchici.
D: Come selezionavi il materiale da pubblicare?
R: Ho concentrato l’attenzione su quello che mi stava succedendo allora, sulle mie frequentazioni inglesi, i miei nuovi amici: nel 1982 ho conosciuto John Loder e dal 1983 sono stato più volte dai Crass a Dial House, poi loro tramite ho potuto incontrare personalmente anche altri musicisti e gruppi che mi piacevano come Adrian Sherwood, Flux of Pink Indians, Omega Tribe e Poison Girls etc. Riuscivo ad andare a Londra anche tre o quattro volte in un anno spendendo pochissimo con l’aiuto di un’amica che lavorava in un’agenzia di viaggi: spesso le riusciva di imbucarmi in una comitiva, a volte saltava fuori un biglietto a scrocco ma dovevo partire tipo la sera stessa e tornare due-tre giorni dopo. Dormire a Londra non è mai stato un problema: case occupate, una branda in ostello, il divano di qualcuno conosciuto per caso. In breve sono riuscito a recuperare molto materiale, dischi e cassette soprattutto, ma anche fanzine, libretti e volantini, tutte cose che qui non giravano granché. Ho cominciato a raccogliere le traduzioni dei testi dei Crass perché mi interessavano personalmente, poi mi sono reso conto che era una storia troppo grossa per tenerla per me, bisognava condividerla, bisognava far sapere che a mille chilometri di distanza c’era della gente che stava facendo certe cose che per me erano importanti, ero convinto sarebbe stato possibile adattarne l’ispirazione alla nostra diversa sensibilità e magari fare non dico altrettanto ma almeno provarci. Dei Flux ho tradotto uno scritto diffuso ai loro concerti del 1984, qualche tempo prima avevo conosciuto Annie Anxiety così ho tradotto alcune cose scritte da lei, poi nell’ottobre 1984 l’ho accompagnata durante un breve giro in Italia durante i giorni del convegno internazionale anarchico a Venezia. Di Pete Wright ho tradotto un articolo pubblicato dal quindicinale pacifista Peace News. Un paio di altre cassette erano in lavorazione, erano registrazioni di Current 93 e Nurse With Wound che mi aveva mandato David Tibet, ma avevo ricevuto solo autorizzazioni piuttosto vaghe così ho lasciato stare. Nel corso del 1986 ho lavorato a “F/Ear this!”, che ho pubblicato l’anno successivo e che è stata l’ultima cosa in cui è stata coinvolta Catfood Press.
D: In quali altri aspetti si differenzia la Catfood da Rockgarage?
R: Catfood Press non era un’etichetta indipendente, nel senso che non si è occupata di musica e di dischi quanto piuttosto di ragionamenti. Per me c’era essenzialmente l’esigenza di trovare un modo per far circolare delle idee, per forza di cose veicolate tramite un supporto cartaceo o discografico, senza passare obbligatoriamente per i centri di distribuzione, né quelli commerciali né quelli alternativi. Mica c’era internet, allora: si andava avanti a fotocopie, posta, cose così. Rispetto a Rockgarage le tirature erano più basse: trecento copie la cassetta dei Death in June, complessivamente seicento copie il concerto per Peace News, i libretti con le traduzioni di Flux, Annie e Pete sono circolati in tirature di due-trecento copie ciascuno. Ho osato alzare il tiro con “F/Ear this!”, milleduecento copie in vinile e non so se trecento o cinquecento cassette, dovrei andare a vedere le vecchie carte.
D: Avevi collaboratori o hai preferito non coinvolgere nessuno?
R: Vittore Baroni mi ha aiutato enormemente con la realizzazione di “F/Ear this!” curando il libretto che è stato allegato all’edizione su vinile, anche il nome della raccolta l’ha pensato lui. Non ho fatto io alcune delle traduzioni dei testi dei Crass pubblicate nel libro, per il resto direi che ho fatto tutto da solo, dalle registrazioni dei concerti all’impaginazione, alla stampa, alla confezione. E buona parte delle spedizioni.
D: Parliamo della distribuzione dei materiali Catfood, hai fatto come per Rockgarage o…
R: Purtroppo non sono riuscito a mandare avanti da solo anche la distribuzione e sono stato proprio un coglione, ho continuato per troppo tempo ancora a fidarmi dei giri “alternativi”. Tra i punks e gli indipendenti di Milano, Venezia, Torino e Bologna sono state diffuse più di ottocento copie del libro dei Crass, due terzi della tiratura quindi, ma non è ritornata una lira. Anzi no, non è corretto: solo dopo un bel po’ di mesi mi è arrivato da Bologna come scambio un pacco semidistrutto con dentro delle copie ondulate insuonabili e invendibili di un picture disc dei CCCP. I libretti con le traduzioni dei Flux, di Annie e di Pete li ho fatti girare da solo. Ho cercato di arrangiarmi da solo anche con la diffusione delle cassette del concerto benefit per Peace News, purtroppo mi sono state fregate quasi tutte quelle dei Death in June. Pensa che ne è stata fatta anche un’edizione taroccata (la cassetta originale era accompagnata da un libretto e un badge) e poi anche un bootleg su cd, Douglas Pearce temeva che fossi coinvolto, figuriamoci. Per ritornare brevemente al discorso di prima sui rapporti non sempre corretti con i distributori, i flexi da allegare al libro erano stati inviati dai Crass ai Raf Punk assieme ad altro materiale che avevano ordinato, e Giampi ha preteso da me 120mila lire giustificandole come costo vivo del materiale, soldi che io gli ho dato subito e senza fiatare. Poco tempo dopo, parlando con i Crass, sono rimasti tutti molto sorpresi di questo fatto perché i flexi erano un regalo, mica erano da pagare. Mettiamola così, diciamo che è stato un altro contributo per la causa. Non so se si capisce il sarcasmo, forse dovrei metterci degli emoticon per stemperare la delusione e rendere tutto più simpatico. Difficile dimenticare quel tizio di Sottosopra di Grosseto che dopo un paio di lettere e varie telefonate ha ordinato roba per quasi mezzo milione inviando per fax alla A/Rivista Anarchica la ricevuta di un versamento che è poi risultato non essere mai stato effettuato. Ho tenuto per ricordo un bel pacco di fotocopie di ricevute, resoconti, lettere senza risposta e fax spediti a vuoto: non c’è mai stato nessuno dall’altra parte, neanche quando qui si è trattato di affrontare emergenze per cure mediche e funerali.
D: Cosa facevi per far conoscere le uscite della Catfood Press?
R: Avevo accumulato un bel giro di posta girando a Londra e in Francia, c’era l’indirizzario di Rockgarage, stavo prendendo molti nuovi contatti grazie alla A/Rivista Anarchica. Ho usato il passaparola, innanzitutto: fotocopiavo dei bigliettini che mettevo nella posta in uscita. Poi era importante arrivare ad occupare un po’ di spazio su certa stampa musicale: una segnalazione su Rockerilla o sul Mucchio ha sempre garantito un bel numero di richieste.
D: Nel catalogo spicca la band dark o gothic inglese dei Death In June, come ci sono entrati?
R: Sono venuti a suonare a Venezia, volevo incontrarli e l’ho fatto: era l’unica maniera per sapere le cose direttamente dalla fonte. Alla metà degli anni Ottanta non era come adesso, che ti piazzi davanti a una tastiera e un monitor e in pochi minuti raccogli informazioni da mezzo mondo. Le cose si venivano a sapere in ritardo, specie se non viaggiavano tramite i telegiornali o la stampa ufficiale. Pensa al punk qui in Italia, noi ragazzi alla fine degli anni Settanta stavamo ancora vivendo la nostra parte di Sessantotto, io ascoltavo Henry Cow e Stormy Six, in radio e nelle strade giravano gli Area ed Eugenio Finardi, si discuteva di aborto, proletari in divisa e obiezione di coscienza, altro che Sex Pistols e spillette. A Milano, forse, Torino, Roma, nelle città grandi. Ma qua in provincia nel Nordest non arrivava niente. La nostra era una cultura giovanile lenta, organizzata accumulando libri e dischi presi in prestito e mai restituiti, fotocopie, ritagli di giornali, lettere, telefonate, cassette copiate, incontri. Al tempo giravano voci incontrollate, si diceva che i Death in June fossero degli attivisti o quantomeno dei simpatizzanti di estrema destra, gente da evitare, anzi da schiacciare, da annientare. La stampa musicale inglese aveva stroncato il loro album “Nada!”, dentro c’erano canzoni oscure, difficili e misteriose, diverse dall’immediatezza punk caciarona che andava di moda. Le informazioni che avevo io erano invece ben diverse, dalle fanzine si sapeva che Douglas Pearce e Tony Wakeford anni prima erano nei Crisis, un gruppo punk che bazzicava piuttosto i giri di Rock Against Racism e dell’Anti Nazi League, tramite amici e compagni inglesi sapevo anche che i Death in June avevano presentato quel loro album così controverso al 100 Club di Londra in una serata organizzata da David Tibet con Current 93, Annie Anxiety e D&V. Insomma, all’infiltrazione dei fascisti nel punk anarchico non ci credevo mica tanto, la stampa ha ogni tanto bisogno di streghe da bruciare per distrarre la gente dalla noia. Penso che Rockerilla, che al tempo ha dedicato alle dichiarazioni di Douglas Pearce uno spazio consistente, sebbene leggermente sforbiciato, abbia aiutato a portare un po’ di luce in quelle tenebre di disinformazione.
D: La Catfood Press conclude la sua vita con la compilation “F/Ear this!” che purtroppo non ho mai visto e ascoltato. Me ne vuoi parlare?
R: L’ idea era raccogliere in giro contributi di vario genere, musiche, canzoni, testi, disegni tutti ricollegati o ricollegabili a un tema comune, la “paura”. Il 1984 era appena passato ma si discuteva comunque di centrali atomiche e guerra nucleare, il “non futuro” punk era diventato un buco nero di disoccupazione e sfruttamento. Si viveva nell’onda lunga dell’asse Reagan-Thatcher e del possibile conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest in Europa, il muro di Berlino era saldamente in piedi e la Yugoslavia e la Cecoslovacchia e l’URSS pure, c’era appena stato l’incidente di Chernobyl, cose così, non è che nel 1986-1987 si vivesse così tranquilli, tra new wave e sorrisi di socializzazione. Non è come raccontano alla televisione nei programmi di revival: il dilagare di gruppi pop col sintetizzatore non ha reso gli anni Ottanta meno difficili. Nel pensare “F/Ear this!” c’era insomma la voglia di raccogliere e raccontare questo malessere e questa disperazione con un linguaggio diverso, in una parola si è cercato di non passare per la strada più facile, attraverso i soliti slogan punk tipo fotti-il-sistema che comunque non sentivamo come nostri. S’è fatta girare la voce e dopo un po’ sono arrivati contributi da mezzo mondo: poesie, disegni, ore e ore di registrazioni. Proprio come si sperava le forme espressive sono le più varie, spaziano dall’improvvisazione al rumorismo, si sono sperimentate contaminazioni e ibridi sonori, sono arrivate tantissime cose scritte, poesie, testi, disegni, collage. Hanno partecipato tanti musicisti sconosciuti ma inaspettatamente anche qualche nome noto come gli inglesi Nurse With Wound ed i tedeschi Embryo. Non mi aspettavo una risposta di queste dimensioni e per forza di cose ho dovuto mettere dei limiti, tipo stabilire una certa durata massima e una data di scadenza del progetto, ma tanti contributi hanno continuato ad arrivare per mesi e mesi, anche quando il disco era già stato pubblicato. Il grosso dei contributi è purtroppo rimasto tagliato fuori.
D: Hai in mente di ripubblicare questo materiale?
R: Buona parte delle traduzioni dei testi dei Crass, ben sistemate e corrette, sono disponibili sulle pagine web di stella*nera. C’è anche il testo di “A tissue of issues” di Pete Wright, tra qualche tempo rivedrò e renderò disponibili anche alcune traduzioni di Annie Anxiety. Con il supporto tecnico di Marco Giaccaria, che con Marco Milanesio in questi anni mi ha aiutato a salvare alcune delle vecchie bobine e cassette dei Franti e non solo destinate alla corrosione, sono riuscito a recuperare buona parte delle registrazioni raccolte per questo progetto. Penso di riuscire a pubblicare “F/Ear this!” su cd entro qualche mese, anche con dei testi, immagini e registrazioni che non avevano trovato posto nell’ edizione di allora. Lo stesso, dopo un periodo diciamo così di congelamento dovuto a problemi interni tra gli ex-Crass, sto per pubblicare il benefit per Peace News: le registrazioni sono state restaurate e digitalizzate da Paul Harding, uno dei tecnici dei Southern Studios. Verranno allegate ad un libretto che contiene un mio scritto, ritagli di interviste anche recenti, qualche foto del concerto e le traduzioni dei testi.
Marco Pandin vuol dire Rockgarage, Catfood Press, A - Rivista Anarchica, Stella Nera, Crass, Franti e tante altre cose.
Questa intervista con Marco è solo il primo pezzo (già pubblicato qualche mese da Enrico sul suo blog) che parla di tutte queste cose, ed è qui perchè a breve seguirà una seconda parte sull'esperienza di Catfood Press.
A mio parere, è una storia che vale la pena di conoscere. (Alessandro Limonta)
Rockgarage è stata la prima Fanzine che lessi un bel po’ di anni fa. L’acquistai alla Crash Records di Padova e fu veramente una scoperta. Ero un ragazzino (un teenager) e non mi era mai capitata fra le mani una fanzine o meglio “il primo giornale rock di mestre-venezia 1982-1984“. Il numero Zero/Quattro conteneva due vinili a 7″ ma era tutto l’insieme che mi incuriosì e mi appassionò, trovavo interessante leggere di gruppi musicali che non conoscevo ma che erano italiani e che avevano davvero qualcosa di reale da esprimere. Mi piaceva il formato e lo stile di Rockgarage. Per farla breve, scrivo a Marco e mi faccio raccontare qualcosa. Ne è venuta fuori questa specie d’intervista che è anche un racconto di quegli anni, di un gruppo di ragazzi e ragazze che si sono inventati davvero qualcosa di speciale.
D: Come ebbe inizio la fanzine Rockgarage? Cos’era che ti spinse a farla?
R: Mi trovo un po’ perso a raccontare la mia vita nella Mestre di trent’anni fa, e non tanto perché ho traslocato altrove nel 1987 quanto perché nel frattempo sono successe tante cose anche gravi che mi hanno sradicato da tutti i giri. Ho interrotto i rapporti con grande parte dei miei amici e compagni di quartiere, coi compagni di scuola, di radio e col gruppo in cui suonavo; sono riuscito a riprendere in mano qualche vecchio filo rosso solo da poco. Te la faccio breve, ma le radici di questa storia affondano molto più indietro nel tempo: nell’estate del 1981 ho trascorso quattro settimane a Londra (le prime ferie della mia vita, da quando avevo 16 anni durante le vacanze estive lavoricchiavo) e al ritorno ho dato vita con un gruppo di compagni a Rockgarage. Avevo lo zaino pieno di dischi, cassette, volantini e fanzine, roba praticamente mai vista da queste parti: è stata forse solo un’imitazione di quello che succedeva altrove, non credo di essere stato particolarmente bravo o brillante. Però è successo, semplicemente è successo. La musica allora era un collante sociale importante, la si viveva collettivamente perché solo condividendola potevamo renderla accessibile alle nostre tasche. Non c’era un posto per ritrovarci a discutere o per ascoltare la musica che a noi piaceva ascoltare, anzi parlando in un senso culturale più ampio non c’era proprio nessun posto adatto a gente come me e i miei amici, ragazzi emarginati e incazzati e frustrati cresciuti in una periferia grigia strappata alla campagna a forza di cemento armato e asfalto. Mancava un punto di riferimento, un qualche luogo in cui potersi incontrare e confrontare su cose per noi importanti. Per dire, nessun partito ci avrebbe concesso la propria sede: già da tempo non frequentavamo la parrocchia, eravamo sbandati, erba cattiva, danzavamo sul margine se non già oltre. Siccome alcuni di noi collaboravano con una radio libera, avevamo cominciato a ritrovarci lì ma siamo stati cacciati praticamente subito, eravamo un corpo estraneo. Per fare Rockgarage non ci serviva una sede: poteva andar bene anche un pomeriggio in spiaggia, un viaggio in macchina per un concerto a Bologna o a Milano, un finesettimana con la tenda in montagna. Non avevamo obblighi né scadenze, era tutto molto libero e improvvisato. Ci si ritrovava magari a casa mia o da qualcun altro e si pensava cosa fare. In poche ore potevamo riuscire a organizzare un concerto, oppure concordare un’uscita serale di affissioni selvagge, o scegliere di pubblicare un nuovo numero, oppure semplicemente si beveva qualcosa mentre ascoltavamo musica. La fanzine era un modo intelligente per stare insieme, ci si dava una mano tutti, ciascuno contribuiva com’era capace. Eravamo tutti convinti di fare qualcosa di importante, di aver inventato una qualche occasione di riscatto. Ecco, forse è questo il nodo della questione: Rockgarage ci faceva sentire meno soli.
D: In quanti eravate a lavorare? Esisteva una sorta di redazione?
R: Nessuno a Mestre e dintorni aveva mai fatto una fanzine: fare Rockgarage allora ha significato trovare uno sfogo per tutte le nostre frustrazioni e dare una dimensione concreta ai nostri sogni. Non c’era un vero e proprio progetto, nel senso che non ci siamo davvero mai organizzati tipo tu fai questo e io faccio quest’altro, né discorsi del tipo pubblichiamo questo pezzo e non quell’altro. Avevamo opinioni differenti, questo sì, ma ci siamo sempre confrontati e praticamente mai scontrati: forse è stato per una serie di circostanze fortunate, perché vivevamo nella stessa città, famiglie operaie e quartieri operai. Con me c’erano altri tre o quattro co-fondatori, direi, e tra quelli più coinvolti una dozzina di altri ragazzi e ragazze. Quando organizzavamo un concerto, o una proiezione di videofilmati, sul palco c’erano ragazzi come noi con i quali s’era fatta amicizia, e c’erano sempre volontari per caricare e scaricare gli strumenti e ripulire la sala. Non c’erano ruoli fissi, nel senso che Rockgarage era un’entità piuttosto nebulosa: avevamo fame di confronto, di scambi e di relazioni e la fanzine era un ombrello sotto cui ci si riparava tutti. Dentro a Rockgarage andavano a finire le cose che ci incuriosivano, molto disordinatamente.
D: Mi piacerebbe che mi spiegassi cosa voleva dire allora autoproduzione musicale ed editoriale. Può aver senso ancora oggi?
R: Dell’autoproduzione non avevamo una cognizione politica perché la filosofia punk e la pratica dell’autogestione non si erano ancora diffuse in questa parte del mondo: nel 1980 era un fenomeno nuovo, nel nordest avevamo solo scarsissime informazioni e non ci si poteva fidare neanche delle poche che avevamo. Ad esempio, alla televisione e dai racconti dei compagni che erano stati a Londra i punks venivano descritti come fascisti stupidi e violenti. Io ero confuso, avevo capito che i punks fossero anarchici, e io avevo degli anarchici un’esperienza positiva. Collaboravo da un bel po’ con una radio libera, lì ne avevo conosciuti tanti che mi avevano sempre rispettato nonostante la differenza d’età, poi avevo cominciato a leggere abbastanza regolarmente la A/Rivista Anarchica e a bazzicare Utopia 2, una piccola libreria anarchica a Venezia, quando andavo all’università nel 1977. Autoproduzione musicale significava essenzialmente due cose: far circolare le proprie idee liberamente e soprattutto fare in modo che queste idee oltre che libere rimanessero anche pulite. Avevamo un bisogno assoluto di libertà, e libertà non era un termine che si prestava ad interpretazioni elastiche: essendo giovani ed avendo vissuto gli anni di piombo non eravamo così disposti a scendere a patti. Allora era importante non compromettersi, cioè essere coerenti, un termine caduto da tempo in disuso. Le etichette discografiche, i distributori, gli editori, i mass media, le grosse organizzazioni culturali, gli assessorati alla cultura, le agenzie di spettacolo etc. era tutto un mondo che percepivamo come tentacolare e soffocante: accettare le profferte del sistema avrebbe significato senz’altro rinunciare alla nostra integrità. Questo ha senso oggi più di ieri: non abbiamo saputo difendere i nostri figli, li abbiamo resi precari e costretti a Facebook, aspiranti tronisti e ballerine che non riempiono le piazze per protestare ma per mendicare autografi ai divi Fininvest ed MTV.
D: C’era un modello editoriale a cui vi siete ispirati?
R: All’inizio degli anni Ottanta conoscevamo già certe etichette discografiche indipendenti, tipo la cooperativa l’Orchestra o l’inglese Recommended, ma erano cose ben organizzate e strutturate, modelli irraggiungibili a cui noi per certo non ci ispiravamo. Ci accontentavamo di molto meno, e poi i nostri tempi di contatto, assimilazione e diffusione della cultura erano lunghi: non sempre era possibile viaggiare, conoscere e riportare esperienze. Qui attorno c’era poco. Giornali, dunque, arrivavano all’edicola della stazione Sounds e NME, cioè la stampa industriale che ruotava attorno alle classifiche di vendita. C’era Rockerilla, ecco, ma sembravano cronache da un altro mondo. C’era il Mucchio Selvaggio, che però parlava di roba che forse solo un paio di noi ascoltavano. C’era Musica 80, che però è durato un anno. C’era Frigidaire, ma tranne Andrea Pazienza di quelli noi non ci si fidava. C’erano i negozi di dischi d’importazione, che però offrivano merce che quasi mai potevamo acquistare e che non sempre potevamo rubare. L’ispirazione a fare un giornale nostro oltre che dal punk è senza dubbio venuta dall’esempio di Marcello Baraghini e Stampa Alternativa, usare cioè la creatività come arma contro il silenzio, contro l’appiattimento sociale. Non avevamo scelta: da una parte scuola famiglia chiesa caserma fabbrica e cimitero oppure malessere devianza emarginazione droga alcol e cimitero comunque. Era fondamentale fare in maniera che il padrone non mettesse gli artigli addosso alla nostra creatività. Dico queste cose adesso che ho cinquant’anni abbondanti, ma allora non si erano fatti tanti ragionamenti sulla repressione e il potere, veniva tutto fuori spontaneamente, ci si costruiva un’idea giorno per giorno tra casa scuola e la strada. La nostra protesta era sincera, il malessere reale e condiviso, la paura, beh, la paura tanta. Le nostre idee, lo ripeto, erano tutt’altro che chiare: non si era fatto un ragionamento politico esplicito né studiata una strategia specifica, eravamo solo ragazzi di vent’anni e si viveva tutto alla giornata, lentamente e senza mezzi ma con tanta fantasia. Stavamo sperimentando le nostre vite in un mondo che adesso non c’è più, dove la tecnologia era irraggiungibile per le nostre tasche e le distanze geografiche erano significative. Non so se un ventenne di oggi riesca ad immaginare una vita senza soldi in tasca, senza voli low-cost, senza internet e senza telefonino.
D: In Rockgarage c’erano recensioni musicali, interviste, fumetti, illustrazioni insomma molte espressioni artistiche, non volevate essere solo una semplice fanzine? R: Una fanzine non è mai una cosa semplice: ci si riversano dentro pezzi di sogni e pezzi della vita, e i sogni e la vita sono roba complicata. Non ci si mette a fare una fanzine senza crederci, senza sputarci dentro l’anima: quello che ci scriviamo dentro sono pezzi nostri, pezzi di testa e di cuore, ragionamenti nostri che mettiamo in mano ad altra gente. Il nostro primo numero è stato un’enorme sega collettiva, ci abbiamo ficcato dentro tutto quello che ci sarebbe piaciuto ritrovare in un ipotetico giornale fatto a nostra misura. Allora non ci eravamo resi conto subito di quanto i nostri desideri e i nostri sogni fossero colonizzati: è stato solo tenendo in mano il primo numero della “nostra” fanzine che ci siamo accorti di aver riempito le pagine di nomi americani e inglesi, che con noi non c’entravano un cazzo, tenendo fuori da quello spazio le nostre storie e le nostre vite e le nostre aspirazioni reali. Per fortuna abbiamo aperto molto presto gli occhi: già dal numero successivo degli inglesi e degli americani ci importava molto meno, e ci siamo occupati di noi stessi e dei nostri amici che suonavano e che sapevano scrivere e disegnare. Una presa di coscienza notevole per dei ragazzi di vent’anni comunemente ritenuti degli sbandati o dei casi sociali difficilmente recuperabili.
D: Una parte di Rockgarage che mi piaceva molto erano le traduzioni dei testi delle canzoni, tutt’ora nessuna rivista lo fa o si sofferma sul significato dei testi.
R: Gente come me è cresciuta con i vestiti usati, i libri prestati, il cineforum col dibattito, il teatro fatto in cantina, i concerti collettivi quindi immersa in una rete di scambi culturali che privilegiavano l’orizzontalità. C’era anche un forte senso di appartenenza, nel senso di solidarietà e sostegno reciproci più che di spirito di branco. Ci si passava cassette copiate, compravamo i dischi collettivamente, ai concerti non lasciavamo mai fuori i nostri amici senza soldi. Anche a scuola eravamo abituati a darci una mano, chi riusciva meglio in una materia aiutava gli altri che facevano più fatica. Fare una traduzione è un po’ come gettare un ponte. Fernanda Pivano ha permesso a me e ai miei compagni di scuola e di strada di leggere Lee Masters, Hemingway ed Allen Ginsberg cioè di posizionare alcune pietre d’angolo di quella che stavamo costruendo come la nostra cultura. Sono convinto che lei abbia saputo dare ispirazione a me e chissà a quanti altri, spesso le mie riflessioni hanno preso una piega inaspettata sull’onda di certe letture. Non so voi, ma io non ho alcuna voglia di stare ad ascoltare e men che meno di sostenere gente che mi urla dentro un microfono le sue paranoie sessiste farcite di omofobia e antifemminismo. Se i giornali di oggi pubblicassero le traduzioni dei testi delle canzoni in classifica la gente comincerebbe a riflettere e comprerebbe molti meno dischi e, forse, molti più libri.
D: Ad un certo punto delle uscite allegavate dei supporti sonori, come avveniva la scelta dei gruppi musicali? E la parte finanziaria? Immagino che registrare in studio non fosse così facile al tempo.
R: L’ispirazione è venuta dalle raccolte “Bullshit detector”: i Crass avevano pubblicato a bassissimo prezzo delle compilation di registrazioni che gli erano pervenute via posta. Nel primo volume c’erano solo gruppi punk, nel secondo anche dark, roba elettronica, poesia sonora. Le registrazioni erano di qualità diversissima: qualcuno era riuscito a comperare qualche ora in uno studio ma c’era chi si era dovuto arrangiare con un’attrezzatura casalinga. L’importante non era la confezione, ma quello che si voleva dire: ecco, era esattamente quello che volevamo anche noi. Le raccolte di Rockgarage, proprio come i concerti che abbiamo organizzato, sono sempre state caratterizzate dalla diversità degli stili e della registrazione: abbiamo accostato fisicamente sul palco e sul vinile musiche punk, jazz, dark, elettronica, sperimentale registrate in uno studio oppure in casa. Lo stile espressivo non è mai stato motivo di divisione. Abbiamo pubblicato roba registrata con un 24 piste accanto a roba registrata in diretta su una cassetta in camera da letto. Non abbiamo mai manipolato una registrazione per renderla più ascoltabile: sarebbe stato un tradimento. Nei primi due dischi di Rockgarage ci sono finiti i nostri amici, poi negli altri anche gruppi e musicisti di altre città coi quali s’era fatta amicizia ed era iniziata una certa collaborazione. Se c’era da fare qualche registrazione in uno studio potevamo appoggiarci al Diamine a Mestre oppure all’Odhecaton a Venezia. In entrambi c’erano attrezzature ottime ma soprattutto tecnici capaci e di mentalità aperta, disponibili a concederci sconti consistenti, addirittura a volte hanno lavorato gratis. Penso avessero capito a fondo le nostre esigenze. Passare un pomeriggio con Ermanno Velludo all’Odhecaton significava avere l’opportunità di imparare più cose utili per crescere che in un trimestre di scuola. Ermanno era un filosofo, oltre che un tecnico: sotto le sue dita i suoni prendevano significato. D: Mi piacerebbe conoscere qualche numero, quali erano le tirature? Ha avuto sempre successo? Ci fu una collaborazione o fratellanza con altre realtà editoriali musicali?R: Il primo e il secondo Rockgarage sono stati stampati in tremila copie, gli altri (quelli con i dischi allegati) tra le mille e le milleduecento copie ciascuno. Siamo partiti da zero. Zero soldi, zero esperienza. Per stampare il primo numero abbiamo organizzato una colletta: io e un altro ragazzo avevamo da poco un lavoro fisso e abbiamo messo una cifra più alta, tutti gli altri hanno contribuito come potevano. Poi abbiamo cominciato in mille modi a rastrellare soldi, abbiamo organizzato una festa alla biblioteca di Oriago, abbiamo addirittura raccolto carta straccia e ferrovecchio. Io ho anche elemosinato spiccioli sul posto di lavoro, penso che i miei colleghi mi considerassero uno spostato e in trent’anni non gli ho mai dato l’occasione di cambiare idea. Dopo un lungo giro alla ricerca di un preventivo accettabile, abbiamo preso accordi con una piccola tipografia di Marghera. Probabilmente non ci siamo capiti, avevamo chiesto duemila copie che per noi erano già un’esagerazione, e ne sono state stampate tremila. All’inizio eravamo disperati, pensavamo che non ce l’avremmo mai fatta a smaltirle e invece no: diffondevamo il giornale fuori delle scuole, alle code ai concerti e davanti ai cinema, nei negozi di dischi della zona. Anche quelli un po’ più vecchi di noi ce lo chiedevano: era una novità assoluta, non c’era mai stata nessuna fanzine nella nostra zona. Rockgarage costava mille lire, ma non era un problema raccoglierne anche 500 o meno: i soldi non erano il nostro obiettivo, noi volevamo che il giornale circolasse, eravamo tutti molto presi con l’idea di controcultura, di cultura dal basso, di cultura orizzontale. Nel giro di qualche mese siamo riusciti a dare via quasi tutta la tiratura e a raccogliere quella che per noi era una cifra enorme. Restituita buona parte del denaro anticipato, con la differenza a sei mesi di distanza siamo riusciti a pubblicare un secondo numero della fanzine con più pagine del primo, e sei mesi dopo a pubblicarne un terzo con un disco ep 7” allegato. Per stampare il disco ci ha dato una mano Giampiero Bigazzi della Ma. So., storica etichetta indipendente toscana. Nei primi anni Ottanta c’erano molte altre fanzine, ci si incontrava ai concerti e alle riunioni nei primi centri sociali, si parlava volentieri, si discuteva molto e si facevano scambi. Era davvero bellissimo ritrovarsi con ragazzi e ragazze di altre città e altre realtà che come noi avevano quest’esigenza forte di esprimersi. Ci si annusava però restando ad una certa distanza, e nonostante la simpatia e la stima non si è davvero mai avviata una collaborazione con nessuno. Ad esempio non abbiamo mai partecipato a Punkaminazione, più che altro perché si era molto ma molto scettici sull’idea di un coordinamento. C’era anche l’ARCI che voleva censire, schedare, coordinare, fare liste e a noi tutto questo piaceva assai poco. La prima volta che si è fatto realmente qualcosa insieme è stato già oltre la metà degli anni Ottanta, quindi già dopo che Rockgarage era stata chiusa, quando con Giacomo Spazio di Milano, Blu Bus di Torino, i Plasticost, i Detonazione e Vittore Baroni della Trax abbiamo co-prodotto alcune uscite discografiche con il simbolo/nome comune di P.E.A.C.E., tra cui “Il giardino delle quindici pietre” dei Franti (1986) e la raccolta internazionale “F/Ear this!” a sostegno di A/Rivista Anarchica (1987).
D: A cosa fu dovuta la chiusura di Rockgarage?
R: E’ tutto riconducibile ad un nostro grosso errore di fondo: stavamo trasformando un progetto collettivo senza padrone né obblighi né scadenze in una piccola attività editoriale, e ci siamo messi in mano ad un distributore commerciale. Avevamo impiegato tutti i nostri risparmi per pubblicare un numero della fanzine con allegato un intero lp. Coi soldi che pensavamo di raccogliere volevamo dare a Rockgarage una certa stabilità: continuando a pubblicare un nuovo numero ogni quattro invece che ogni sei mesi, e mantenendo costante il numero di pagine avremmo potuto raccogliere abbastanza per creare non dico un lavoro ma quasi un lavoro per un paio di noi che ne avevano bisogno. In due parole, tutti i risparmi accumulati tenendo in vita Rockgarage col volontariato, come s’era fatto tra il 1981 e il 1984, sono andati persi in fretta in un gorgo di bugie, fatture non pagate, dischi in nero scomparsi, assegni scoperti e minacce di ritorsioni legali. Avevamo già pronto per la tipografia il numero zero/sei, a cui sarebbe stato allegato un 7” split con Spleen Fix (Salerno) e Dava I’Ciass (S. Donà di Piave). Eravamo anche in trattativa coi Litfiba, si pensava di fare un disco a parte con due loro pezzi.
D: C’è un articolo o numero di Rockgarage a cui sei particolarmente legato?
R: Direi proprio questo settimo numero rimasto nella memoria della fotocomposizione e mai uscito. E’ stato importante per aprire gli occhi e per cambiare strada. Mi auguro con tutta la cattiveria di cui sono capace che i soldi che ci sono stati rubati siano andati in spese mediche inutili.
D: Immagino che sai che alla fiere del vinile i vostri allegati sonori hanno valore considerevole, lo avresti mai immaginato?
R: Ho sempre invitato esplicitamente al furto o almeno al danneggiamento delle copie di Rockgarage e dei dischi di Rockgarage posti in vendita dagli speculatori. Ho litigato anche di recente con dei tipi in un paio di negozi che volevano rivendermi un pezzo di me stesso, un pezzo dei miei amici. Lo dico forte, anche qui: se trovate in giro vecchie copie di Rockgarage in vendita rubatele, danneggiatele, fatele a pezzi, bruciatele. Se si lamentano, ditegli che ve l’ho chiesto io: Rockgarage non era e non è cibo per collezionisti.
D: C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere?
R: Enrico, l’unica domanda che mi sono sempre aspettato e che non è mai arrivata è una cosa del tipo: come mai in un territorio che tra Mestre Venezia Marghera e hinterland conta quasi mezzo milione di persone dopo Rockgarage in questi ultimi 25 anni non c’è mai stato nessuno a cui è venuto in mente di fare un’altra fanzine? Sono alla fine quasi contento che una domanda così non mi sia mai stata fatta, perché proprio non saprei rispondere. Cioè potrei rispondere facendo delle congetture ma non riuscirei a parlare per esperienza diretta.
Marco, grazie per queste parole e chissà per il futuro che non possano essere la fiamma che accenda la miccia per un altra fanzine.
Inoltre ho trovato in rete un’intervista pubblica a Marco Pandin, durante la presentazione del libro “Nel cuore della bestia. Storie personali nel mondo della musica bastarda” scritto assieme a Stefano Giaccone. Si possono leggere alcuni brani di quella conversazione coordinata da Piero Brunello e allargata al pubblico presente nel sito storiAmestre.