Marco Pandin dopo aver chiuso il ciclo di Rockgarage (fanzine ed allegati sonori), ha proseguito creando una nuova etichetta indipendente, la Catfood Press. L’idea era di continuare a stampare nuovo materiale però distribuendolo diversamente, senza intermediari. Ho fatto quattro chiacchiere con Marco sulla Catfood Press, che ha rappresentato un importante passo per arrivare all’attuale etichetta Stella*Nera.
Domanda: Marco, dopo la chiusura della fanzine e della etichetta discografica Rockgarage, non sei riuscito a stare fermo, vero?
Risposta: Non è andata proprio così, non si è trattato di un semplice voltare pagina, o di un improvviso cambiamento di scena e di progetti. Per spiegare meglio la situazione va fatta una premessa, certo un po’ troppo lunga ma necessaria. Nel giro di un paio d’anni Rockgarage aveva cambiato dimensioni, da una fanzine a mentalità e diffusione locale sembrava diventare un affare nazionale, o perlomeno ci si stava arrivando. Andavo spesso a Roma per lavoro e lì ho incontrato più volte Marcello Baraghini, che già ci aveva offerto la copertura legale di Stampa Alternativa: si pensava di dare a Rockgarage una periodicità regolare e con il suo sostegno tecnico sarebbe stato possibile. L’idea era di fare press’a poco come qualche anno dopo avrebbe fatto Giacomo Spazio con Vinile, un contenitore con dentro un disco 7” e un numero di pagine standard, il tutto fatto circolare a basso prezzo. A partire dal terzo numero, quindi dal 1983, abbiamo affidato una parte della tiratura di Rockgarage alla distribuzione commerciale. Lo stesso passo è stato fatto coi dischi: avevamo partecipato nel 1984 al primo meeting delle etichette indipendenti a Firenze e stabilito contatti con un sacco di gente, la voce girava, sono comparse su giornali e altre fanzine le prime recensioni e segnalazioni. Ritrovarsi segnalati su Sound Choice o Maximum Rock’n’Roll significava avere posta in arrivo da gestire per settimane e quindi contatti e spedizioni e scambi che andavano avanti per mesi. C’è una cosa da sottolineare: vorrei ricordare che eravamo un gruppo improvvisato di ventenni, dilettanti, dopolavoristi. Il successo di Rockgarage era senz’altro un’esperienza positiva, ma gestirlo era sempre più difficile e impegnativo. Io, che pure ne ero radicalmente coinvolto da prima del primo numero e del primo disco, Rockgarage non l’ho mai vissuto come “un lavoro” o “un obbligo”, era solo una parte della mia vita, non il nodo in cui si concentrava tutta la mia vita. Era una buona idea, questo sì, ma ne avevo anche altre in testa, e anche altri pensieri tipo la scarsa salute dei miei genitori, avevo altri problemi, per dire, casa e lavoro e sopravvivenza spicciola, altri interessi. Arrivavano lettere e richieste ogni giorno e quindi c’erano pacchi da fare e da spedire ogni giorno, e nelle buste delle lettere c’erano spesso anche dei soldi o dei francobolli, arrivavano vaglia, insomma c’era quel minimo di contabilità da tenere e col volontariato e l’improvvisazione e il dilettantismo si arrivava fino a un certo punto ma poi basta. Ci voleva insomma una quantità di tempo e di attenzione sempre maggiore, tempo ed attenzione che nessuno di noi aveva, io meno che meno, così abbiamo trovato chi poteva mettere a disposizione un po’ del suo tempo e della sua attenzione per noi, in cambio di soldi ovviamente. Il nostro principale punto di riferimento per la distribuzione era un ragazzo di Venezia che si era inventato praticamente dal niente un lavoro, uno con cui s’era fatta una certa amicizia e che era entrato nel nostro giro, e noi un po’ nei suoi. La scena indipendente di allora era costituita in grande parte da gente così, ragazzi più o meno come noi per cui c’era una certa tendenza alla fiducia reciproca ed alla collaborazione perché ci si riconosceva ciascuno nell’altro, eravamo ciascuno a suo modo impegnati a costruire un mondo. Erano ragazzi come noi quelli che suonavano nei gruppi e stampavano le fanzine, ed erano anche ragazzi come noi che aprivano dei piccoli negozi di dischi e dei piccoli locali: negozi come il Backdoor di Torino, locali come il Banale di Padova e il Victor Charlie di Pisa, sono tutte cose che sono state messe in piedi e fatte funzionare da gente che negli anni Ottanta aveva vent’anni. Purtroppo la fiducia è stata spesso mal riposta: noi siamo stati particolarmente sfigati, diciamocelo pure, ma non siamo stati certo un caso isolato, Rockgarage è stata solo una delle tante iniziative costrette a chiudere perché ci si ritrovava improvvisamente senza soldi e soprattutto senza che ce ne fosse un motivo, perché il materiale andava sì richiesto dai vari distributori e negozi e poi diffuso e venduto, però non veniva praticamente mai pagato. A dirne una Vittore Baroni e Piermario Ciani, sebbene Trax fosse un progetto molto meno traballante e disorganizzato di Rockgarage, hanno avuto esattamente gli stessi nostri problemi nel recuperare i crediti. Il non pagare era una pratica diffusa e comune sia ai negozi e distributori tradizionali che ai cosiddetti “alternativi”. I primi prendevano il grosso del materiale in nero, tipo cinquanta-cento-duecento copie, e solo cinque-dieci-venti fatturate, qualcuno magari ti dava un’elemosina di anticipo e se sollecitavi il saldo spesso ricevevi solo risate, tante volte a malapena riuscivi a presentarti che il telefono te lo sbattevano in faccia. Mica potevi prendere il treno e andare a Firenze o a Zurigo o a Tokyo e piazzarti lì davanti al negozio e piantare un casino: in fin dei conti le ricevute quando c’erano erano banali pezzi di carta con un timbro e una firma del cazzo sopra, e sarebbe stato controproducente sostenere i costi di una causa legale per recuperare quella miseria che risultava regolarmente fatturata. Con gli “alternativi” era meno complicato, si facevano degli scambi: certe cose importate erano solo in vendita, e questo è comprensibile, ma se concordavi uno scambio per dire con la Diavlery di Bologna poteva succedere, e infatti succedeva, che ti arrivava solo una parte del materiale perché nel frattempo le loro scorte si erano esaurite, e poi andava tutto a dissolversi in una nebbia di dimenticanze e pressapochismo. Quelli del Virus di Milano erano senz’altro più coerenti: non hanno mai rispettato gli accordi, prendevano il materiale ma poi non ti davano un cazzo, a me non è mai arrivato un pacchetto che sia stato uno. All’estero mica era diverso: anche negozi e distributori affermati come Blacklist Mailorder in California, che avevano preso contatto con me inviando un biglietto di referenze su carta intestata di Alternative Tentacles firmato da Jello Biafra, e addirittura i compagni insospettabili di No Man’s Land, Rec Rec, Eastern Works e Ayaa Disques (rispettivamente le basi tedesca, svizzera, giapponese e francese della Recommended inglese, non so se mi spiego) hanno richiesto e preso centinaia di copie di dischi e cd senza pagare un soldo né offrire neanche qualche fondo di magazzino in scambio. Pensa che dalle cassette dei Crass, pubblicate e ci tengo a sottolinearlo con regolare autorizzazione da Catfood Press, quelli di Blacklist hanno ricavato e stampato prima in vinile e poi in cd un bootleg. Tuttora lo si trova in vendita su siti anarchici e antagonisti tipo amazon.com, so che ne hanno vendute un bel po’ ma so anche che alla Dial House non hanno mai mandato un cazzo. Tornando alla tua domanda, nella mia linea del tempo la fanzine e l’etichetta Rockgarage, Catfood Press e poi P.E.A.C.E. e le attività con la A/Rivista Anarchica e stella*nera si sovrappongono, coesistono, sono una la prosecuzione, la mutazione, la degenerazione dell’altra. Un giorno io e i miei compagni di Rockgarage ci siamo ritrovati improvvisamente senza soldi, ma non è stata quella la catastrofe, non credo che a farci smettere sia stato il vuoto improvviso in cassa: il problema è stata la tristezza, l’amarezza per essere stati derubati di tutto. E’ stata senza dubbio un’occasione per crescere, per smetterla una buona volta con i cazzeggi e guardare in faccia la realtà, cominciare a fare sul serio con la vita. Ho continuato a scrivere e a interessarmi di musica perché mi è sempre piaciuto farlo, non è che non ero capace di stare fermo e allora dopo Rockgarage mi sono inventato un qualche altro giocattolo. In tutta onestà mi sembra di aver fatto praticamente sempre la stessa cosa, magari adattandomi meglio all’ambiente, cercando di ripararmi meglio dal maltempo.
D: La prima pubblicazione della Catfood Press fu il libro dedicato ai Crass e al movimento anarcopunk inglese.
R: Ho messo insieme un’intervista e le traduzioni dei loro testi, fatte da me e da altri amici e compagni, più un indirizzario di fanzine, gruppi, etichette, associazioni e centri culturali inglesi frutto di contatti presi personalmente e tramite Rockgarage ed A/Rivista Anarchica. Ho raccolto il tutto in un centinaio di pagine fotocomposte da me nei ritagli di tempo libero e che ho fatto stampare alla tipografia Utopia, dove stampavamo Rockgarage. A ogni copia ho allegato un flexi che qualche tempo prima veniva diffuso con la fanzine “Toxic graffiti” curata da Andy Palmer, uno dei chitarristi dei Crass. In quell’anno, nel 1984, ho iniziato a collaborare regolarmente con la A/Rivista Anarchica. Per via di quel che ci siamo detti finora ero davvero in serie difficoltà economiche e non potevo mandargli dei soldi come avrei voluto, così un giorno ho pensato che sarebbe stato bello sostenerla tramite quelle produzioni discografiche ed editoriali che sapevo fare e che mi piaceva fare. Direi che è nato tutto da qui, e che la cosa sta andando avanti da allora, con alti e bassi, anzi devo dire con alti e basta, e pure con delle grosse soddisfazioni.
D: Leggendo i titoli delle uscite della Catfood Press noto che i contenuti sono più politici e anarchici, vero?
R: Con gli anarchici mi sono sempre trovato bene, per me è una buona compagnia. Avevo cominciato a frequentarne quando a sedici-diciott’anni bazzicavo a Radio Mestre 103, era tutta gente più vecchia di me ma che mi trattava con rispetto anche se ero solo uno sbarbatello, pensa che con qualcuno ci si vede e ci si sente ancora adesso. Poi mi fermavo spesso e volentieri alla libreria Utopia di Venezia quando andavo all’università. Insomma mi s’era innescata una miccia da qualche parte dentro al cuore e mi sentivo attratto da quei giri e da quelle frequentazioni. La cosa è poi continuata, ho partecipato alle riunioni della redazione della A/Rivista e conosciuto tanti compagni. Sono sempre stato accolto a braccia aperte quando mi presentavo in una libreria o in un qualche centro o collettivo anarchico all’estero con una copia di A e gli mostravo il mio nome scritto lì sopra. Tante delle persone con cui mi sento più legato ed a mio agio le ho conosciute ed incontrate in giri anarchici.
D: Come selezionavi il materiale da pubblicare?
R: Ho concentrato l’attenzione su quello che mi stava succedendo allora, sulle mie frequentazioni inglesi, i miei nuovi amici: nel 1982 ho conosciuto John Loder e dal 1983 sono stato più volte dai Crass a Dial House, poi loro tramite ho potuto incontrare personalmente anche altri musicisti e gruppi che mi piacevano come Adrian Sherwood, Flux of Pink Indians, Omega Tribe e Poison Girls etc. Riuscivo ad andare a Londra anche tre o quattro volte in un anno spendendo pochissimo con l’aiuto di un’amica che lavorava in un’agenzia di viaggi: spesso le riusciva di imbucarmi in una comitiva, a volte saltava fuori un biglietto a scrocco ma dovevo partire tipo la sera stessa e tornare due-tre giorni dopo. Dormire a Londra non è mai stato un problema: case occupate, una branda in ostello, il divano di qualcuno conosciuto per caso. In breve sono riuscito a recuperare molto materiale, dischi e cassette soprattutto, ma anche fanzine, libretti e volantini, tutte cose che qui non giravano granché. Ho cominciato a raccogliere le traduzioni dei testi dei Crass perché mi interessavano personalmente, poi mi sono reso conto che era una storia troppo grossa per tenerla per me, bisognava condividerla, bisognava far sapere che a mille chilometri di distanza c’era della gente che stava facendo certe cose che per me erano importanti, ero convinto sarebbe stato possibile adattarne l’ispirazione alla nostra diversa sensibilità e magari fare non dico altrettanto ma almeno provarci. Dei Flux ho tradotto uno scritto diffuso ai loro concerti del 1984, qualche tempo prima avevo conosciuto Annie Anxiety così ho tradotto alcune cose scritte da lei, poi nell’ottobre 1984 l’ho accompagnata durante un breve giro in Italia durante i giorni del convegno internazionale anarchico a Venezia. Di Pete Wright ho tradotto un articolo pubblicato dal quindicinale pacifista Peace News. Un paio di altre cassette erano in lavorazione, erano registrazioni di Current 93 e Nurse With Wound che mi aveva mandato David Tibet, ma avevo ricevuto solo autorizzazioni piuttosto vaghe così ho lasciato stare. Nel corso del 1986 ho lavorato a “F/Ear this!”, che ho pubblicato l’anno successivo e che è stata l’ultima cosa in cui è stata coinvolta Catfood Press.
D: In quali altri aspetti si differenzia la Catfood da Rockgarage?
R: Catfood Press non era un’etichetta indipendente, nel senso che non si è occupata di musica e di dischi quanto piuttosto di ragionamenti. Per me c’era essenzialmente l’esigenza di trovare un modo per far circolare delle idee, per forza di cose veicolate tramite un supporto cartaceo o discografico, senza passare obbligatoriamente per i centri di distribuzione, né quelli commerciali né quelli alternativi. Mica c’era internet, allora: si andava avanti a fotocopie, posta, cose così. Rispetto a Rockgarage le tirature erano più basse: trecento copie la cassetta dei Death in June, complessivamente seicento copie il concerto per Peace News, i libretti con le traduzioni di Flux, Annie e Pete sono circolati in tirature di due-trecento copie ciascuno. Ho osato alzare il tiro con “F/Ear this!”, milleduecento copie in vinile e non so se trecento o cinquecento cassette, dovrei andare a vedere le vecchie carte.
D: Avevi collaboratori o hai preferito non coinvolgere nessuno?
R: Vittore Baroni mi ha aiutato enormemente con la realizzazione di “F/Ear this!” curando il libretto che è stato allegato all’edizione su vinile, anche il nome della raccolta l’ha pensato lui. Non ho fatto io alcune delle traduzioni dei testi dei Crass pubblicate nel libro, per il resto direi che ho fatto tutto da solo, dalle registrazioni dei concerti all’impaginazione, alla stampa, alla confezione. E buona parte delle spedizioni.
D: Parliamo della distribuzione dei materiali Catfood, hai fatto come per Rockgarage o…
R: Purtroppo non sono riuscito a mandare avanti da solo anche la distribuzione e sono stato proprio un coglione, ho continuato per troppo tempo ancora a fidarmi dei giri “alternativi”. Tra i punks e gli indipendenti di Milano, Venezia, Torino e Bologna sono state diffuse più di ottocento copie del libro dei Crass, due terzi della tiratura quindi, ma non è ritornata una lira. Anzi no, non è corretto: solo dopo un bel po’ di mesi mi è arrivato da Bologna come scambio un pacco semidistrutto con dentro delle copie ondulate insuonabili e invendibili di un picture disc dei CCCP. I libretti con le traduzioni dei Flux, di Annie e di Pete li ho fatti girare da solo. Ho cercato di arrangiarmi da solo anche con la diffusione delle cassette del concerto benefit per Peace News, purtroppo mi sono state fregate quasi tutte quelle dei Death in June. Pensa che ne è stata fatta anche un’edizione taroccata (la cassetta originale era accompagnata da un libretto e un badge) e poi anche un bootleg su cd, Douglas Pearce temeva che fossi coinvolto, figuriamoci. Per ritornare brevemente al discorso di prima sui rapporti non sempre corretti con i distributori, i flexi da allegare al libro erano stati inviati dai Crass ai Raf Punk assieme ad altro materiale che avevano ordinato, e Giampi ha preteso da me 120mila lire giustificandole come costo vivo del materiale, soldi che io gli ho dato subito e senza fiatare. Poco tempo dopo, parlando con i Crass, sono rimasti tutti molto sorpresi di questo fatto perché i flexi erano un regalo, mica erano da pagare. Mettiamola così, diciamo che è stato un altro contributo per la causa. Non so se si capisce il sarcasmo, forse dovrei metterci degli emoticon per stemperare la delusione e rendere tutto più simpatico. Difficile dimenticare quel tizio di Sottosopra di Grosseto che dopo un paio di lettere e varie telefonate ha ordinato roba per quasi mezzo milione inviando per fax alla A/Rivista Anarchica la ricevuta di un versamento che è poi risultato non essere mai stato effettuato. Ho tenuto per ricordo un bel pacco di fotocopie di ricevute, resoconti, lettere senza risposta e fax spediti a vuoto: non c’è mai stato nessuno dall’altra parte, neanche quando qui si è trattato di affrontare emergenze per cure mediche e funerali.
D: Cosa facevi per far conoscere le uscite della Catfood Press?
R: Avevo accumulato un bel giro di posta girando a Londra e in Francia, c’era l’indirizzario di Rockgarage, stavo prendendo molti nuovi contatti grazie alla A/Rivista Anarchica. Ho usato il passaparola, innanzitutto: fotocopiavo dei bigliettini che mettevo nella posta in uscita. Poi era importante arrivare ad occupare un po’ di spazio su certa stampa musicale: una segnalazione su Rockerilla o sul Mucchio ha sempre garantito un bel numero di richieste.
D: Nel catalogo spicca la band dark o gothic inglese dei Death In June, come ci sono entrati?
R: Sono venuti a suonare a Venezia, volevo incontrarli e l’ho fatto: era l’unica maniera per sapere le cose direttamente dalla fonte. Alla metà degli anni Ottanta non era come adesso, che ti piazzi davanti a una tastiera e un monitor e in pochi minuti raccogli informazioni da mezzo mondo. Le cose si venivano a sapere in ritardo, specie se non viaggiavano tramite i telegiornali o la stampa ufficiale. Pensa al punk qui in Italia, noi ragazzi alla fine degli anni Settanta stavamo ancora vivendo la nostra parte di Sessantotto, io ascoltavo Henry Cow e Stormy Six, in radio e nelle strade giravano gli Area ed Eugenio Finardi, si discuteva di aborto, proletari in divisa e obiezione di coscienza, altro che Sex Pistols e spillette. A Milano, forse, Torino, Roma, nelle città grandi. Ma qua in provincia nel Nordest non arrivava niente. La nostra era una cultura giovanile lenta, organizzata accumulando libri e dischi presi in prestito e mai restituiti, fotocopie, ritagli di giornali, lettere, telefonate, cassette copiate, incontri. Al tempo giravano voci incontrollate, si diceva che i Death in June fossero degli attivisti o quantomeno dei simpatizzanti di estrema destra, gente da evitare, anzi da schiacciare, da annientare. La stampa musicale inglese aveva stroncato il loro album “Nada!”, dentro c’erano canzoni oscure, difficili e misteriose, diverse dall’immediatezza punk caciarona che andava di moda. Le informazioni che avevo io erano invece ben diverse, dalle fanzine si sapeva che Douglas Pearce e Tony Wakeford anni prima erano nei Crisis, un gruppo punk che bazzicava piuttosto i giri di Rock Against Racism e dell’Anti Nazi League, tramite amici e compagni inglesi sapevo anche che i Death in June avevano presentato quel loro album così controverso al 100 Club di Londra in una serata organizzata da David Tibet con Current 93, Annie Anxiety e D&V. Insomma, all’infiltrazione dei fascisti nel punk anarchico non ci credevo mica tanto, la stampa ha ogni tanto bisogno di streghe da bruciare per distrarre la gente dalla noia. Penso che Rockerilla, che al tempo ha dedicato alle dichiarazioni di Douglas Pearce uno spazio consistente, sebbene leggermente sforbiciato, abbia aiutato a portare un po’ di luce in quelle tenebre di disinformazione.
D: La Catfood Press conclude la sua vita con la compilation “F/Ear this!” che purtroppo non ho mai visto e ascoltato. Me ne vuoi parlare?
R: L’ idea era raccogliere in giro contributi di vario genere, musiche, canzoni, testi, disegni tutti ricollegati o ricollegabili a un tema comune, la “paura”. Il 1984 era appena passato ma si discuteva comunque di centrali atomiche e guerra nucleare, il “non futuro” punk era diventato un buco nero di disoccupazione e sfruttamento. Si viveva nell’onda lunga dell’asse Reagan-Thatcher e del possibile conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest in Europa, il muro di Berlino era saldamente in piedi e la Yugoslavia e la Cecoslovacchia e l’URSS pure, c’era appena stato l’incidente di Chernobyl, cose così, non è che nel 1986-1987 si vivesse così tranquilli, tra new wave e sorrisi di socializzazione. Non è come raccontano alla televisione nei programmi di revival: il dilagare di gruppi pop col sintetizzatore non ha reso gli anni Ottanta meno difficili. Nel pensare “F/Ear this!” c’era insomma la voglia di raccogliere e raccontare questo malessere e questa disperazione con un linguaggio diverso, in una parola si è cercato di non passare per la strada più facile, attraverso i soliti slogan punk tipo fotti-il-sistema che comunque non sentivamo come nostri. S’è fatta girare la voce e dopo un po’ sono arrivati contributi da mezzo mondo: poesie, disegni, ore e ore di registrazioni. Proprio come si sperava le forme espressive sono le più varie, spaziano dall’improvvisazione al rumorismo, si sono sperimentate contaminazioni e ibridi sonori, sono arrivate tantissime cose scritte, poesie, testi, disegni, collage. Hanno partecipato tanti musicisti sconosciuti ma inaspettatamente anche qualche nome noto come gli inglesi Nurse With Wound ed i tedeschi Embryo. Non mi aspettavo una risposta di queste dimensioni e per forza di cose ho dovuto mettere dei limiti, tipo stabilire una certa durata massima e una data di scadenza del progetto, ma tanti contributi hanno continuato ad arrivare per mesi e mesi, anche quando il disco era già stato pubblicato. Il grosso dei contributi è purtroppo rimasto tagliato fuori.
D: Hai in mente di ripubblicare questo materiale?
R: Buona parte delle traduzioni dei testi dei Crass, ben sistemate e corrette, sono disponibili sulle pagine web di stella*nera. C’è anche il testo di “A tissue of issues” di Pete Wright, tra qualche tempo rivedrò e renderò disponibili anche alcune traduzioni di Annie Anxiety. Con il supporto tecnico di Marco Giaccaria, che con Marco Milanesio in questi anni mi ha aiutato a salvare alcune delle vecchie bobine e cassette dei Franti e non solo destinate alla corrosione, sono riuscito a recuperare buona parte delle registrazioni raccolte per questo progetto. Penso di riuscire a pubblicare “F/Ear this!” su cd entro qualche mese, anche con dei testi, immagini e registrazioni che non avevano trovato posto nell’ edizione di allora. Lo stesso, dopo un periodo diciamo così di congelamento dovuto a problemi interni tra gli ex-Crass, sto per pubblicare il benefit per Peace News: le registrazioni sono state restaurate e digitalizzate da Paul Harding, uno dei tecnici dei Southern Studios. Verranno allegate ad un libretto che contiene un mio scritto, ritagli di interviste anche recenti, qualche foto del concerto e le traduzioni dei testi.
Riferimenti:
http://www.anarca-bolo.ch/Stellanera%20website/main.htm
Discografia Catfood Press
1. Crass “Anok4u” (libro e flexi-disc 7″, 1984)2. Annie Anxiety “Poesie e canzoni d’amore e rivoluzione” (libretto A4 fotocopiato, 1984)
3. Crass, Flux of Pink Indians, Annie Anxiety, D & V “Benefit concert for Peace News” (tre cassette C60 e due libretti A6 fotocopiati, registrate a Maggio del 1984 e pubblicate a Gennaio 1985)
4. Flux of Pink Indians “Thatcher wants us all to crawl on our fucking knees” (libretto A4
fotocopiato, 1985)
6. Death in June “The white hands of death” (cassetta C60 e libretto A6 fotocopiato + badge, 1985)
7. Pete Wright “A tissue of issues” (libretto A4 fotocopiato, 1985)
8. T-shirt serigrafata dei Flux Of Pink Indians cat/005, con aiuto di Giacomo Spazio (50 esemplari di colore bianco e 100 di colore grigio, 1985)
9. Various “f/ear this!” (2 lp e libretto o 2 cassette, 1987)
L' album dedicato alla Catfood Press:
Magnifico.
Tra un po' puoi farci un libro!
Devi assolutamente scovare Baraghini.
Sia da intervistare che come eventuale editore.
Bellissima intervista, aspetto la terza parte adesso :)
@ Desbela Eh, non male come idea, conservo con piacere e ogni tanto sfoglio o consulto i libretti di Stampa Alternativa, come le riviste Vinile, o ti ricordi quelli che avevano le dimensioni di un 45giri?
@ Allelimo Ma certo, occorre arrivare a Stella*Nera.