Anzi, diec'anni di lacrime, come vergava l’antologia terminale che li conduceva a fine corsa nel 2006. E di meraviglie, aggiungerei, ovviamente a mio arbitrario parere. In un Blow Up recente, alle prese con le ristampe deluxe dei primi due album del duo scozzese, il recensore di turno li ha definiti brillantemente gruppo formula che quando finisce butta via lo stampo, ad oggettiva conferma del fatto che la loro peculiarità resterà per sempre inesorabilmente inimitabile.
Circostanze stellari. In quella terra di mezzo che è la provincia di Falkirk nel 1995 si incrociano i destini di due ragazzi poco più che ventenni, si narra interessati alla stessa ragazza e quindi non proprio in procinto di stringere amicizia. Aidan Moffat e Malcolm Middleton invece finiscono per trovare delle similitudini musicali ed iniziano ad unire le forze. O le debolezze, a seconda dei punti di vista; Arab Strap, a causa dell'esclusività, è sempre stata un’entità che si ama o si odia. Ai tempi in cui il gruppo era attivo usavo frequentare il forum ufficiale, i cui utenti denotavano una maniacalità a dir poco parossistica, fino al punto di scrivere in scozzese stretto, alla stregua dello stesso Moffat. La stampa italiana invece è sempre restata nel mezzo, tiepida, appena interessata, forse incapace di coglierne l’essenza pur gradendone l’originalità e la schiettezza.
Dicevo delle debolezze; tecnicamente cos’avevano i due da offrire? Poco o nulla. Moffat era tutto fuorché un vocalist, stonato, pigro e strascicato dagli ettolitri di birra ingeriti. Middleton era un chitarrista incapace di fare gli accordi barrè. Le premesse insomma non erano proprio esaltanti ma come spesso accade, chi possiede grande tecnica non ha creatività e viceversa. Se il secondo aveva un passato amatoriale a base di punk e metal, il primo era già in pista da un paio d’anni nei Bay, un altro duo in cui era batterista e comprimario del cantautore Jason Taylor. Nel loro carniere un paio di dischi oscuri di distribuzione pressoché locale, Alison Rae e Happy being different, contrassegnati da uno slow-core influenzato pesantemente da Codeine e Red House Painters. Nel booklet di Alison Rae Moffat appare in una forma fisica che non gli apparterrà più, magro, sbarbato e con un imbarazzante caschetto stile brit-pop-shoegaze, alle prese con le presunte avances di una donzella...
C’è bisogno di far carburare in fretta la scintilla che scatta col rosso Middleton. Inizialmente le attività dei due si sviluppano sugli arpeggi incerti di uno, sui ritmi pigri e sul recitato indolente dell’altro, in una specie di post-folk sbilenco aperto a distorsioni improvvise. Vengono assemblati due demos; il primo, ad ascoltarlo oggi, è tutto fuorché entusiasmante. Il secondo invece denota già una certa crescita e viene spedito alla Chemikal Underground, i proprietari fiutano bene e capiscono di avere a che fare con un oggetto misterioso, cosicché l’ingaggio è presto fatto. Nel settembre del 1996 quindi si materializza il primo singolo The first big weekend, che ottiene fin da subito una notevole attenzione a livello indipendente. Trattasi di un techno-folk alquanto spiazzante, in cui un azzeccato giro acustico di Middleton viene supportato da un beat digitale da rave-party. Così il racconto di un pomeriggio di estate in cui la nazionale di calcio scozzese viene sconfitta agli Europei di calcio diventa un pretesto per Moffat per iniziare a spartire col mondo il suo lirismo cinico, iperrealista e crudamente auto-confidenziale.
Tempo un mese ed è il momento del debutto lungo, con The week never starts round here, che vede i due ancora un po’ indecisi sullo stile da sviluppare, sebbene si noti già la peculiarità del progetto e l‘impossibilità di inquadrarlo in un genere preconfezionato. Nonostante i mezzi a disposizione siano aumentati, decidono comunque di restare intensamente lo-fi, senza quasi nessun contributo esterno. Coming down, il pezzo d’apertura, potrebbe far pensare a degli Slint in versione agreste e soporifera, con le chitarre e il basso di Middleton ad inseguire armonici scoperti, così come la lunga Deeper. Quando agiscono da trio a tutti gli effetti, confezionano scure divagazioni di spleen che ben poco hanno da spartire con il singolo che li aveva rivelati, come la stentorea Gourmet (cantata dal chitarrista), e la scampanellata di Kate Moss. Quando invece scarnificano gli arrangiamenti all’osso, si fa sentire l’influenza di Bill Callahan e Will Oldham, specie nel country di I work in a saloon, nella perdizione di Wasting, e nella rabbrividente Blood. Sembrano più scherzi che altro la lista di General plea to a girlfriend e il country-punk di Little girls, che finiscono più per denotare quell’incertezza sopra-citata che per contribuire alla resa finale. I pezzi che meritano il maggior risalto finiscono per essere The clearing, altro arpeggio minimalista questa volta sostenuto dai rimbombi di una batteria riverberata oltre misura, e l’accorato appello di Phone me tonight, per beatbox, violino gracchiante ed effetti. E’ proprio in questi ultimi due che la scrittura di Moffat accresce la propria rilevanza, con lo scoperchiamento di un mondo fatto di noia giovanile, birra, droghe, ragazze e i loro ragionamenti incomprensibili, di verità sbattute in faccia e di romanticismo mai banale.
Ingaggiano una sezione ritmica, il bassista Gary Miller e il bravissimo batterista David Gow, per suonare dal vivo. L’intento è quello di spiazzare, e dal vivo gli Arab Strap sembrano il contrario dei timidi introspettivi in studio. Nella ristampa deluxe di The week… viene inclusa la registrazione del primo concerto in assoluto in un club di Glasgow, che mostra un gruppo energico ed aggressivo. La loro tendenza a stravolgere le versioni di studio resterà una costante negli anni anche quando guadagneranno la discreta fama. Nel 1997 l’attività prosegue con 3 singoli: 1) The smell of outdoor cooking, pseudo-raga per acustica e organetto, abbinata al fragore noise di Themetune e la solitaria, nervosa middletoniana Blackstar. 2) The girls of summer, che diventerà una preferita live, nuova elucubrazione post-slintiana con progressione rumorosa, completato dalla festaiola Hey fever che segna una collaborazione con i Belle And Sebastian. 3) Il triplo remix di The clearing, con in evidenza la splendida versione cyber-dub di The Hungry Lions e quella trip-hop di Hanlow & Hilditch. Inoltre, in marzo hanno l’onore della prima chiamata di John Peel, alla cui session il quartetto live viene allargato a sestetto con i due tastieristi dei Belle And Sebastian. Eseguono una versione elettrico-frenetica di The smell of outdoor coking, le inedite Soaps e I Saw you, e l’hit single ribattezzato The first big peel thing per l’occasione, umanizzata dalla batteria di Gow e dalle coloriture di piano e organo.
Il tempo di smaltire le varie sbornie e i due tornano a lavorare sul secondo disco, che uscirà nella primavera del 1998 e dai più viene definito il loro capolavoro, Philophobia. Moffat abbandona sempre più la batteria in favore della drum-machine e si dedica alle tastiere, Middleton viene toccato da ispirazione divina. Lasciando perdere i celebri versi introduttivi di Packs of three, che hanno sviato tante orecchie distratte e così alimentato un luogo comune duro a morire, si tratta di una specie di concept in cui si dice il cantante racconti 13 storie dedicate a 13 sue ex-ragazze, una delle quali disegnata in copertina, nuda e a gambe incrociate. Ricordo che la prima volta che lessi le liriche pensai ad un paragone ingombrante che non ho mai abbandonato, cioè quello con il grande Charles Bukowski per la franchezza disarmante, le lunghe digressioni alcoliche, le depressioni cosmiche, gli assalti continui alle donne e le impennate di dolcezza infinita a smentire qualsiasi foggia di uomo duro che potesse fuorviare il lettore. Philophobia è una svolta decisiva: gli arrangiamenti sono ricchi, curatissimi e quasi barocchi, le songs omogenee e scorrono che è un piacere lubrico. Su tutte; la splendida Here we go, con fitta trama acustica, il tintinnio del piano e sequenza di abbandono totale. New birds, variante del tema Girls of summer ma dai risultati superiori. La commovente The night before the funeral, bossanova triste impreziosita da un delizioso assolo di tromba. L’evocativa melodia di Piglet, la scura Afterwards che vede la presenza della suadente vocalist Adele Bethel, l’atmosferica My favourite muse, il quadretto elegiaco di Islands (possibilmente il miglior testo di sempre di Moffat). In tutto il disco non c’è un momento in cui scade la qualità, e il contrasto fra la musicalità prevalentemente molto tranquilla e i testi di prevalente nichilismo crea un mix che grida al mondo l’unicità totale del duo, se ancora ce ne fosse stato bisogno.
Il successo di critica attira l’attenzione delle major, mentre nel frattempo Peel li chiama per una seconda sessions (momento topico la versione di The night before the funeral, con la chitarra distorta a sostituire la tromba originale), ed escono altri due singoli. Trippy, di supporto a Here we go, è la versione post-psichedelica di The first big weekend, dodici minuti avventurosi con tanto di fase techno-rave-party. Soaps, il pezzo più accessibile di Philophobia, ha il merito di includere due inediti di razza come Toy fights e Forest hills. Ma la Chemikal non può trattenerli a lungo e la Go! Beat, label di proprietà dei Portishead, se ne assicura le prestazioni. Non prima però, di congedarsi con un live stellare, Mad for Sadness, ascrivibile a best of della prima fase di carriera, su cui ho già indugiato nel mio blog.
Cosa si aspettassero le rispettive parti in termini di successo e/o vendita, non è dato di sapere. L’anno alla Go! Beat verrà ricordato come una parentesi poco entusiasmante dagli Arab Strap stessi, riconoscendo in parte l’errore di valutazione che poi poteva anche starci. Eppure i risultati artistici sono ancora a livelli straordinari. Qualcosa è cambiato nei due, al momento entrambi legati sentimentalmente e più sereni. Elephant Shoe è un modo di dire dei teenagers scozzesi sostitutivo di I love you, e ciò testimonia che dalla paura di amare Moffat è passato rapidamente all’altra sponda. Il fatto che ciò corrisponda ad un disco musicalmente più ostico e scarno di Philophobia, costituisce un altro contrasto stridente. Il battito digitale che apre Cherubs sembra quasi un cuore pesante che pulsa iperaccelerato. Middleton architetta tutto alla meraviglia come da tendenza, con gli intarsi chitarristici che si fanno sempre più arditi ed ipnotici (One four seven one, Leave the day free), Moffat inizia a sviluppare la sua sensibilità coi sampling e le tastiere minimali (le cascate di synth di Cherubs). E nello stesso modo in cui sbatteva la testa contro le donne fino all’anno prima, ora appare iper-protettivo e vicino alla sua donna anche nelle liti (la pastorale scurissima di Pyjamas). Insomma, non è un uomo tranquillo neppure nella stabilità, neanche nella solare mediterraneità della deliziosa Tanned, con assolo finale di tromba. Ma ci sono almeno 4 capolavori rimasti ineguagliati in Elephant Shoe. La decadenza soffusa di Autumnal, scandita da violoncello e pianoforte, e quella greve, a pieno regime strumentistico di Direction of strong man, il pezzo più loud, con le coloriture di organo e il finale in crescendo. E infine le ultime perle in scaletta, vincenti sul piano acustico-intimistico: Pro(your)-life, probabilmente la cosa più commovente che i due hanno fatto, in cui Moffat racconta dell’aborto della propria compagna,e lo fa incoraggiandola, proteggendola. Hello daylight, una delle trame più belle scritte da Middleton, un risveglio interrogativo sull’amore di tutti i giorni.
In Maggio arriva la terza ed ultima chiamata di John Peel, che a mio avviso è la migliore mai compiuta dai nostri: col supporto dei soliti Gow e Miller, e quindi di ritmica umana, i tre estratti dal disco nuovo assumono sembianze indefinibili, quasi da jazz fumoso alla moviola. Da non perdere la coda atmosferica di The drinking eye, l’elettrificazione di Pro(your)-life, i riverberi stratificati di Leave the day free. Con l’aggiunta di una cover shockante di Iggy Pop, pare suonata esclusivamente per l’occasione, Tiny girls, per piano e voce. E’ davvero spiazzante sentire Moffat biascicare con la sua flemma il famoso pezzo, ma ancor di più è l’entrata di Middleton che sfregia tutto orrendamente con un assolo dissonante…Come Peel stesso annunciava nelle presentazioni di rito (oltre a dichiararsi entusiasta e rapito), gli Arab Strap erano tornati a casa. Rescisso il contratto con la Go! Beat, venivano riaccolti all’ovile della Chemikal senza tante storie.
In Agosto del 2000 corono il mio sogno di vederli live ad Urbino, nella fantastica cornice della Fortezza Albornoz. L’attività concertistica fin dall’inizio aveva avuto pochissime pause, e resterà uno dei punti di forza artistici maggiori; avendo ascoltato parecchi bootleg, posso suffragare con certezza che erano soliti rivoluzionare le versioni in studio senza problemi.
Preceduto dall’atipico singolo Love Detective, un lounge poliziesco avvincente, nel 2001 esce il 4° album, The red thread. Una volta che il trademark è stato fissato, occorre mantenere lo standard e perché no, cercare di mantenersi su alti livelli. E i due, miracolosamente ci riescono e sfornano un lavoro tendenzialmente più ottimistico, non certo solare ma più aperto a situazioni melodiche a presa diretta. La delicatissima ballad d’apertura, Amor veneris, è poco più di un bozzetto elegiaco. Last orders e Scenery sono ritmate e con arrangiamenti ricchi, con una forma canzone ben definita. Moffat fa addirittura progressi con la modulazione del canto: l’iperbole sinfonica di Haunt me e l’atmo-disco di Turbulence non cercano tanto un consenso maggiore, ma finiscono per essere fra le cose più accessibili fino ad allora. Per chi preferisce ancora i lati oscuri, le perle sono ben selezionate: l’ipnosi bassistica di Infrared, il volo statico di Screaming in the trees. E soprattutto il meglio del lotto, ovvero il crescendo cosmico da pelle d’oca di The devil-tips e il mare tempestoso di The long sea.
L’attività live procede incessante in tutto il mondo, Australia compresa. Al ritorno a casa, i due staccano un attimo la spina e nel 2002 fanno uscire le prime puntate dei loro progetti personali. Middleton resta sul tradizionale con 5.14, Moffat si butta a pesce sulla macchina umanoide di Lucky Pierre. All’epoca non si pensava minimamente che tali prove fossero avvisaglie del futuro che li aspettava, ma in realtà segnavano un po’ la fine di un epoca, si sentiva il bisogno di qualche rinnovamento. I vecchi e fedeli compagni Miller e Gow abbandonano (il primo la musica del tutto, il secondo stava fondando i mediocri Sons And Daughters insieme alla Bethel) e vengono assoldate due ragazze fisse a violino e violoncello, Rieve e Sievewright. Segno eloquente che la propensione agli archi che era affiorata a tratti negli anni aveva bisogno di un impianto stabile. Monday at the Hug And Pint, che esce nella primavera del 2003, li vede pertanto protagonisti nella quasi totalità dei 13 pezzi in elenco. Una maggiore accessibilità ed eleganza caratterizza il suono generale: il primo singolo, The shy retirer, è una disco da camera ad alta velocità. L’altro, migliore Who named the days?, dolcissimo e soffuso pastorale. A parte la violenta ed epica Fucking little bastards, è un disco molto morbido in cui Moffat appare polemico, quasi sprezzante nei confronti della/e donna/e di turno, sempre più incapace di relazionarsi in modo diplomatico col mondo femminile, (apice la splendida Glue, la composizione migliore), ma non disdegna un tentativo romantico dei suoi (Serenade). Molto belle anche il valzer di Peep peep e la ballad pianistica di Middleton The week never starts round here. Peccato che altrove invece regni una stucchevolezza a tratti eccesiva, non tanto dovuta agli archi quanto ad un momento di ispirazione debole o comunque inadatta al crooning da poeta maledetto e alle tessiture del rosso. Di conseguenza, ritengo che Monday si possa inquadrare come il disco meno entusiasmante degli Arab Strap, tendenza confermata anche dal live a tiratura privata The cunted circus, che lascia pochissimo spazio al passato ed include due cover alquanto bizzarre (AC/DC e Van Halen), non propriamente entusiasmanti.
Evidentemente anche i due non restano molto convinti, anche se il pubblico che li apprezza è in continua espansione. Un altro live privato (Acoustic request show) li vede in solitudine, chitarra acustica e voce, ed è eloquente: i pezzi vengono scelti tramite sondaggio fra i fans, che privilegiano di gran lunga i primi due album, particolarmente Philophobia. Ma è evidente che i due hanno già la testa altrove e pubblicano, curiosamente sempre in contemporanea, la seconda puntata dei loro side project. Lucky Pierre con l’eccellente Touchpool, e Middleton con l’ottimo, più elettrico Into the woods.
Le coincidenze potrebbero far pensare al peggio, eppure i due hanno un colpo di reni, una scossa d’orgoglio e nel 2005 escono con The last romance, titolo programmatico che inizia a far preoccupare seriamente i fans su voci di scioglimento. Messi via gli archi, si tratta del disco più compatto ed asciutto che hanno mai realizzato, di breve durata (poco più di mezz’ora), e perché no, anche potente. Stink e No hope for us sono schegge furenti di spleen elettrificato senza tanti fronzoli. Non c’è più traccia di batterie elettroniche, e la mano di Middleton appare predominante in lungo e in largo, mentre Moffat è costantemente impegnato al canto, con i risultati migliori mai ottenuti. Gli highlights, oltre ai due titoli sopra, sono le rocciose Don’t ask me to dance, Speed-date, e l’atmosferica Dream sequence. E alla fine, ciò che sembra una sigla finale dal disorientante titolo There is no ending, sarabanda di fiati quasi pop. Escono in rapida successione ben tre singoli, e stupisce il fatto che alcune b-sides siano di assoluta eccellenza ed escluse dall’album, come la stupenda ballad The girl I loved before I fucked e la cupa Dead Air.
Nel febbraio 2006 il tour include Bologna e il set è improntato ovviamente su Last romance. Questa volta sul palco con i due ci sono un trio di giovani strumentisti, ineccepibili tecnicamente, specialmente il pianista. L’impressione di freddezza e sbrigatività però mi lascia un po’ interdetto, salvo poi ricredermi quando nel finale si concentrano sulle perle del passato. Poco tempo dopo l’annuncio diventa ufficiale, lo scioglimento è stato decretato. Un ultimo tour rifà il giro dell’Europa e a dicembre ritornano, sempre all’Estragon. La tristezza che mi attanaglia per la notizia viene mitigata da un bellissimo concerto, in cui appare chiaro che i due non si guardino in faccia neanche un momento. Mentre smontano il palco chiedo ad Aidan il perché della fine. Sconsolato, allarga le braccia, fa uno sguardo dispiaciuto e mormora That’s life!
In realtà il sito ufficiale (che curiosamente verrà bombardato e distrutto dagli spammers poco tempo dopo) fa chiarezza sul fatto che i due si dividono amichevolmente, consapevoli di aver portato l’esperienza ad una naturale conclusione e perché no, comunque aperti a future collaborazioni. La Chemikal sigilla il tutto con una compilation ai primi del 2006, Ten Years of Tears, eterogenea quanto destinata allo zoccolo duro di fans delusi. La cover è sarcastica: i due appaiono seduti ai lati di una stanza addobbata a festa, sguardi corrucciati e un cartello alle spalle che recita Enjoy your retirement. L’antologia è un accozzaglia di rarità, remix e ripescaggi in ordine puramente casuale, ma ha il merito di riportare alla luce alcuni episodi minori ma assolutamente di prestigio come Racket take your turn e To all a goodnight.
Fine delle trasmissioni, e della magia. I due prendono esclusivamente la loro strada solista, che purtroppo si rivela soltanto una discesa graduale nella mediocrità. Middleton negli ultimi 4 anni ha fatto uscire ben 3 album, uno più deludente dell’altro, contrassegnati da un cantautorato sterile e scontato. Dopo un altro episodio a nome Lucky Pierre, Moffat ha realizzato un disco spoken-word incomprensibile e ha varato A.M. & The best ofs, di fatto un duo con un giovane chitarrista. How to get heaven from Scotland, uscito l’anno scorso, è quasi imbarazzante nella sua pochezza stilistica. Segnali che in un certo senso fanno capire che è stato meglio così, lo scioglimento è avvenuto al momento giusto, i due hanno capito che il ciclo era chiuso e non sarebbe stato giusto imboccare il declino con quella sigla che li ha portati ad essere una stella di primissima grandezza del firmamento britannico a cavallo del millennio.
Però ci mancano. Come accennavo all’inizio, la Chemikal proprio quest’anno ha fatto uscire i primi due dischi in deluxe edition con aggiunte gustose, per chi magari si fosse perso la saga in tempo reale. Ed addirittura, in seconda battuta, rilascia un cofanetto limitato a 1000 copie intitolato Scenes of a sexual nature, mastodontica operazione che ripesca demos, EPs, inediti, Peel Sessions, a ruota libera. Queste operazioni nostalgiche contribuiscono ulteriormente ad alimentare il rimpianto di un grande gruppo alfiere e portabandiera dei sentimenti a 360°, venuto fuori dal nulla e con pochissimi mezzi a disposizione, ma stracolmo di idee e dalla cifra personale incalcolabile.
DISCOGRAFIA ALBUM
The week never starts round here (1996) 7/10
Philophobia (1998) 8,5/10
Elephant Shoe (1999) 8,5/10
The red thread (2001) 8/10
Monday at The Hug And Pint (2003) 6,5/10
The last romance (2005) 7/10
LIVE
Mad for sadness (1999) 8,5/10
The cunted circus (2003) 6,5/10
Acoustic request show (2004) 7/10
ANTOLOGIE
Singles (1998) 8/10
Ten years of tears (2006) 7/10
Scenes of a sexual nature (2010) 8/10
Island
We were lying in bed, staring at the moon, and I was wondering if I was supposed to be in love.
But we couldn't quite decide if the moon was full, but I thought, well, tonight it's full enough.
And this morning I was casually trying to sniff my fingers on the way back home.
I could smell you and I felt like a little boy.
Now we've been on these open seas far too long so take a breath, take my hand, there's land ahoy.
Pro-(your) life
Now you always say terminated,
I never hear you say aborted.
You just have to accept mistakes happen
And sometimes they have to be sorted.
You know I'd love it - a little us would be sweet.
But don't take that from your pro-life pal, she doesn't even eat meat.
It's as simple as this: the time's not right.
You need a new job and some sleep tonight.
The night before the funeral
The night before the funeral, I got some - I sneaked a young girl up the stairs and past my mum.
I took off her clothes and I played with her bits and she did the same but it took ages for me to come.
Too drunk and getting old...
It was a lovely show for a god I don't believe in.
I couldn't sing a single note at the service.
When they did "How Great Thou Art" all I could think of was my old l.p. of hymns by Elvis.
There's no such thing as sin...
I said to Laura, "I hope I know you forever and when I'm going, I'm going the Viking way. Lay me in a boat with my favourite things and set me on fire and send me on my way. Kick me out to sea..."
Here We Go
How am I supposed to walk you home when you're at least fifty feet ahead?
Cause you walked off in a huff and I'm that pissed I can't even remember what it was I said.
And I don't doubt you wouldn't touch him now, but let's face it, you always use to go for that kind.
And if you ever really wanted two men at once, all I'm saying is I better be one of the guys you've got in mind.
Here we go same time, same place.
I don't like the way you kiss his face.
It's not that there's no trust as such.
I'd love to make up but I've had to much.
Now you know fine well I'm staying, I've only ever carried out that threat once before.
And even then I coudn't get far and you're mum came and called me back before I'd even made it to the door.
Here we go same time, same place.
My embarassment versus your damp face.
We could down here or we could talk in bed.
But I'm afraid that's all, as I've already said.
We were lying in bed, staring at the moon, and I was wondering if I was supposed to be in love.
But we couldn't quite decide if the moon was full, but I thought, well, tonight it's full enough.
And this morning I was casually trying to sniff my fingers on the way back home.
I could smell you and I felt like a little boy.
Now we've been on these open seas far too long so take a breath, take my hand, there's land ahoy.
Pro-(your) life
Now you always say terminated,
I never hear you say aborted.
You just have to accept mistakes happen
And sometimes they have to be sorted.
You know I'd love it - a little us would be sweet.
But don't take that from your pro-life pal, she doesn't even eat meat.
It's as simple as this: the time's not right.
You need a new job and some sleep tonight.
The night before the funeral
The night before the funeral, I got some - I sneaked a young girl up the stairs and past my mum.
I took off her clothes and I played with her bits and she did the same but it took ages for me to come.
Too drunk and getting old...
It was a lovely show for a god I don't believe in.
I couldn't sing a single note at the service.
When they did "How Great Thou Art" all I could think of was my old l.p. of hymns by Elvis.
There's no such thing as sin...
I said to Laura, "I hope I know you forever and when I'm going, I'm going the Viking way. Lay me in a boat with my favourite things and set me on fire and send me on my way. Kick me out to sea..."
Here We Go
How am I supposed to walk you home when you're at least fifty feet ahead?
Cause you walked off in a huff and I'm that pissed I can't even remember what it was I said.
And I don't doubt you wouldn't touch him now, but let's face it, you always use to go for that kind.
And if you ever really wanted two men at once, all I'm saying is I better be one of the guys you've got in mind.
Here we go same time, same place.
I don't like the way you kiss his face.
It's not that there's no trust as such.
I'd love to make up but I've had to much.
Now you know fine well I'm staying, I've only ever carried out that threat once before.
And even then I coudn't get far and you're mum came and called me back before I'd even made it to the door.
Here we go same time, same place.
My embarassment versus your damp face.
We could down here or we could talk in bed.
But I'm afraid that's all, as I've already said.
ciao webba..i concerti ala fine son saltati tutti.che c'è in giro prossimammente?
Gli Arab Strap appartengono al mio "periodo sabbatico" (nel senso di allontanamento dalla musica, non di devozione ai Black Sabbath), a cavallo dell'anno 2000.
Ne avevo già letto ma non credo di averli mai ascoltati, dopo un post così appassionato ed esauriente devo proprio provare a farlo :)
Quello che mi sta piacendo di Sunday Morning blog è che si leggono dei post interessanti scritti da appassioanti e che ti fanno venire la voglia di riascoltare gli album che si hanno in casa. Più tardi tiro fuori Philophobia (1998) e Elephant Shoe (1999).
Complimenti davvero per il post dettagliato, approfondito e personale il giusto. Per chi non conosce gli Arab Strap è un ottimo punto di riferimento, per chi già li conosce è un piacere leggerlo e condividerlo. Webbaticy è sempre una garanzia.