Marco Pandin vuol dire Rockgarage, Catfood Press, A - Rivista Anarchica, Stella Nera, Crass, Franti e tante altre cose.
Questa intervista con Marco è solo il primo pezzo (già pubblicato qualche mese da Enrico sul suo blog) che parla di tutte queste cose, ed è qui perchè a breve seguirà una seconda parte sull'esperienza di Catfood Press.
A mio parere, è una storia che vale la pena di conoscere.
(Alessandro Limonta)
Rockgarage è stata la prima Fanzine che lessi un bel po’ di anni fa. L’acquistai alla Crash Records di Padova e fu veramente una scoperta. Ero un ragazzino (un teenager) e non mi era mai capitata fra le mani una fanzine o meglio “il primo giornale rock di mestre-venezia 1982-1984“. Il numero Zero/Quattro conteneva due vinili a 7″ ma era tutto l’insieme che mi incuriosì e mi appassionò, trovavo interessante leggere di gruppi musicali che non conoscevo ma che erano italiani e che avevano davvero qualcosa di reale da esprimere. Mi piaceva il formato e lo stile di Rockgarage. Per farla breve, scrivo a Marco e mi faccio raccontare qualcosa. Ne è venuta fuori questa specie d’intervista che è anche un racconto di quegli anni, di un gruppo di ragazzi e ragazze che si sono inventati davvero qualcosa di speciale.
D: Come ebbe inizio la fanzine Rockgarage? Cos’era che ti spinse a farla?
R: Mi trovo un po’ perso a raccontare la mia vita nella Mestre di trent’anni fa, e non tanto perché ho traslocato altrove nel 1987 quanto perché nel frattempo sono successe tante cose anche gravi che mi hanno sradicato da tutti i giri. Ho interrotto i rapporti con grande parte dei miei amici e compagni di quartiere, coi compagni di scuola, di radio e col gruppo in cui suonavo; sono riuscito a riprendere in mano qualche vecchio filo rosso solo da poco. Te la faccio breve, ma le radici di questa storia affondano molto più indietro nel tempo: nell’estate del 1981 ho trascorso quattro settimane a Londra (le prime ferie della mia vita, da quando avevo 16 anni durante le vacanze estive lavoricchiavo) e al ritorno ho dato vita con un gruppo di compagni a Rockgarage. Avevo lo zaino pieno di dischi, cassette, volantini e fanzine, roba praticamente mai vista da queste parti: è stata forse solo un’imitazione di quello che succedeva altrove, non credo di essere stato particolarmente bravo o brillante. Però è successo, semplicemente è successo. La musica allora era un collante sociale importante, la si viveva collettivamente perché solo condividendola potevamo renderla accessibile alle nostre tasche. Non c’era un posto per ritrovarci a discutere o per ascoltare la musica che a noi piaceva ascoltare, anzi parlando in un senso culturale più ampio non c’era proprio nessun posto adatto a gente come me e i miei amici, ragazzi emarginati e incazzati e frustrati cresciuti in una periferia grigia strappata alla campagna a forza di cemento armato e asfalto. Mancava un punto di riferimento, un qualche luogo in cui potersi incontrare e confrontare su cose per noi importanti. Per dire, nessun partito ci avrebbe concesso la propria sede: già da tempo non frequentavamo la parrocchia, eravamo sbandati, erba cattiva, danzavamo sul margine se non già oltre. Siccome alcuni di noi collaboravano con una radio libera, avevamo cominciato a ritrovarci lì ma siamo stati cacciati praticamente subito, eravamo un corpo estraneo. Per fare Rockgarage non ci serviva una sede: poteva andar bene anche un pomeriggio in spiaggia, un viaggio in macchina per un concerto a Bologna o a Milano, un finesettimana con la tenda in montagna. Non avevamo obblighi né scadenze, era tutto molto libero e improvvisato. Ci si ritrovava magari a casa mia o da qualcun altro e si pensava cosa fare. In poche ore potevamo riuscire a organizzare un concerto, oppure concordare un’uscita serale di affissioni selvagge, o scegliere di pubblicare un nuovo numero, oppure semplicemente si beveva qualcosa mentre ascoltavamo musica. La fanzine era un modo intelligente per stare insieme, ci si dava una mano tutti, ciascuno contribuiva com’era capace. Eravamo tutti convinti di fare qualcosa di importante, di aver inventato una qualche occasione di riscatto. Ecco, forse è questo il nodo della questione: Rockgarage ci faceva sentire meno soli.
D: In quanti eravate a lavorare? Esisteva una sorta di redazione?
R: Nessuno a Mestre e dintorni aveva mai fatto una fanzine: fare Rockgarage allora ha significato trovare uno sfogo per tutte le nostre frustrazioni e dare una dimensione concreta ai nostri sogni. Non c’era un vero e proprio progetto, nel senso che non ci siamo davvero mai organizzati tipo tu fai questo e io faccio quest’altro, né discorsi del tipo pubblichiamo questo pezzo e non quell’altro. Avevamo opinioni differenti, questo sì, ma ci siamo sempre confrontati e praticamente mai scontrati: forse è stato per una serie di circostanze fortunate, perché vivevamo nella stessa città, famiglie operaie e quartieri operai. Con me c’erano altri tre o quattro co-fondatori, direi, e tra quelli più coinvolti una dozzina di altri ragazzi e ragazze. Quando organizzavamo un concerto, o una proiezione di videofilmati, sul palco c’erano ragazzi come noi con i quali s’era fatta amicizia, e c’erano sempre volontari per caricare e scaricare gli strumenti e ripulire la sala. Non c’erano ruoli fissi, nel senso che Rockgarage era un’entità piuttosto nebulosa: avevamo fame di confronto, di scambi e di relazioni e la fanzine era un ombrello sotto cui ci si riparava tutti. Dentro a Rockgarage andavano a finire le cose che ci incuriosivano, molto disordinatamente.
D: Mi piacerebbe che mi spiegassi cosa voleva dire allora autoproduzione musicale ed editoriale. Può aver senso ancora oggi?
R: Dell’autoproduzione non avevamo una cognizione politica perché la filosofia punk e la pratica dell’autogestione non si erano ancora diffuse in questa parte del mondo: nel 1980 era un fenomeno nuovo, nel nordest avevamo solo scarsissime informazioni e non ci si poteva fidare neanche delle poche che avevamo. Ad esempio, alla televisione e dai racconti dei compagni che erano stati a Londra i punks venivano descritti come fascisti stupidi e violenti. Io ero confuso, avevo capito che i punks fossero anarchici, e io avevo degli anarchici un’esperienza positiva. Collaboravo da un bel po’ con una radio libera, lì ne avevo conosciuti tanti che mi avevano sempre rispettato nonostante la differenza d’età, poi avevo cominciato a leggere abbastanza regolarmente la A/Rivista Anarchica e a bazzicare Utopia 2, una piccola libreria anarchica a Venezia, quando andavo all’università nel 1977. Autoproduzione musicale significava essenzialmente due cose: far circolare le proprie idee liberamente e soprattutto fare in modo che queste idee oltre che libere rimanessero anche pulite. Avevamo un bisogno assoluto di libertà, e libertà non era un termine che si prestava ad interpretazioni elastiche: essendo giovani ed avendo vissuto gli anni di piombo non eravamo così disposti a scendere a patti. Allora era importante non compromettersi, cioè essere coerenti, un termine caduto da tempo in disuso. Le etichette discografiche, i distributori, gli editori, i mass media, le grosse organizzazioni culturali, gli assessorati alla cultura, le agenzie di spettacolo etc. era tutto un mondo che percepivamo come tentacolare e soffocante: accettare le profferte del sistema avrebbe significato senz’altro rinunciare alla nostra integrità. Questo ha senso oggi più di ieri: non abbiamo saputo difendere i nostri figli, li abbiamo resi precari e costretti a Facebook, aspiranti tronisti e ballerine che non riempiono le piazze per protestare ma per mendicare autografi ai divi Fininvest ed MTV.
D: C’era un modello editoriale a cui vi siete ispirati?
R: All’inizio degli anni Ottanta conoscevamo già certe etichette discografiche indipendenti, tipo la cooperativa l’Orchestra o l’inglese Recommended, ma erano cose ben organizzate e strutturate, modelli irraggiungibili a cui noi per certo non ci ispiravamo. Ci accontentavamo di molto meno, e poi i nostri tempi di contatto, assimilazione e diffusione della cultura erano lunghi: non sempre era possibile viaggiare, conoscere e riportare esperienze. Qui attorno c’era poco. Giornali, dunque, arrivavano all’edicola della stazione Sounds e NME, cioè la stampa industriale che ruotava attorno alle classifiche di vendita. C’era Rockerilla, ecco, ma sembravano cronache da un altro mondo. C’era il Mucchio Selvaggio, che però parlava di roba che forse solo un paio di noi ascoltavano. C’era Musica 80, che però è durato un anno. C’era Frigidaire, ma tranne Andrea Pazienza di quelli noi non ci si fidava. C’erano i negozi di dischi d’importazione, che però offrivano merce che quasi mai potevamo acquistare e che non sempre potevamo rubare. L’ispirazione a fare un giornale nostro oltre che dal punk è senza dubbio venuta dall’esempio di Marcello Baraghini e Stampa Alternativa, usare cioè la creatività come arma contro il silenzio, contro l’appiattimento sociale. Non avevamo scelta: da una parte scuola famiglia chiesa caserma fabbrica e cimitero oppure malessere devianza emarginazione droga alcol e cimitero comunque. Era fondamentale fare in maniera che il padrone non mettesse gli artigli addosso alla nostra creatività. Dico queste cose adesso che ho cinquant’anni abbondanti, ma allora non si erano fatti tanti ragionamenti sulla repressione e il potere, veniva tutto fuori spontaneamente, ci si costruiva un’idea giorno per giorno tra casa scuola e la strada. La nostra protesta era sincera, il malessere reale e condiviso, la paura, beh, la paura tanta. Le nostre idee, lo ripeto, erano tutt’altro che chiare: non si era fatto un ragionamento politico esplicito né studiata una strategia specifica, eravamo solo ragazzi di vent’anni e si viveva tutto alla giornata, lentamente e senza mezzi ma con tanta fantasia. Stavamo sperimentando le nostre vite in un mondo che adesso non c’è più, dove la tecnologia era irraggiungibile per le nostre tasche e le distanze geografiche erano significative. Non so se un ventenne di oggi riesca ad immaginare una vita senza soldi in tasca, senza voli low-cost, senza internet e senza telefonino.
D: In Rockgarage c’erano recensioni musicali, interviste, fumetti, illustrazioni insomma molte espressioni artistiche, non volevate essere solo una semplice fanzine?
R: Una fanzine non è mai una cosa semplice: ci si riversano dentro pezzi di sogni e pezzi della vita, e i sogni e la vita sono roba complicata. Non ci si mette a fare una fanzine senza crederci, senza sputarci dentro l’anima: quello che ci scriviamo dentro sono pezzi nostri, pezzi di testa e di cuore, ragionamenti nostri che mettiamo in mano ad altra gente. Il nostro primo numero è stato un’enorme sega collettiva, ci abbiamo ficcato dentro tutto quello che ci sarebbe piaciuto ritrovare in un ipotetico giornale fatto a nostra misura. Allora non ci eravamo resi conto subito di quanto i nostri desideri e i nostri sogni fossero colonizzati: è stato solo tenendo in mano il primo numero della “nostra” fanzine che ci siamo accorti di aver riempito le pagine di nomi americani e inglesi, che con noi non c’entravano un cazzo, tenendo fuori da quello spazio le nostre storie e le nostre vite e le nostre aspirazioni reali. Per fortuna abbiamo aperto molto presto gli occhi: già dal numero successivo degli inglesi e degli americani ci importava molto meno, e ci siamo occupati di noi stessi e dei nostri amici che suonavano e che sapevano scrivere e disegnare. Una presa di coscienza notevole per dei ragazzi di vent’anni comunemente ritenuti degli sbandati o dei casi sociali difficilmente recuperabili.
D: Una parte di Rockgarage che mi piaceva molto erano le traduzioni dei testi delle canzoni, tutt’ora nessuna rivista lo fa o si sofferma sul significato dei testi.
R: Gente come me è cresciuta con i vestiti usati, i libri prestati, il cineforum col dibattito, il teatro fatto in cantina, i concerti collettivi quindi immersa in una rete di scambi culturali che privilegiavano l’orizzontalità. C’era anche un forte senso di appartenenza, nel senso di solidarietà e sostegno reciproci più che di spirito di branco. Ci si passava cassette copiate, compravamo i dischi collettivamente, ai concerti non lasciavamo mai fuori i nostri amici senza soldi. Anche a scuola eravamo abituati a darci una mano, chi riusciva meglio in una materia aiutava gli altri che facevano più fatica. Fare una traduzione è un po’ come gettare un ponte. Fernanda Pivano ha permesso a me e ai miei compagni di scuola e di strada di leggere Lee Masters, Hemingway ed Allen Ginsberg cioè di posizionare alcune pietre d’angolo di quella che stavamo costruendo come la nostra cultura. Sono convinto che lei abbia saputo dare ispirazione a me e chissà a quanti altri, spesso le mie riflessioni hanno preso una piega inaspettata sull’onda di certe letture. Non so voi, ma io non ho alcuna voglia di stare ad ascoltare e men che meno di sostenere gente che mi urla dentro un microfono le sue paranoie sessiste farcite di omofobia e antifemminismo. Se i giornali di oggi pubblicassero le traduzioni dei testi delle canzoni in classifica la gente comincerebbe a riflettere e comprerebbe molti meno dischi e, forse, molti più libri.
D: Ad un certo punto delle uscite allegavate dei supporti sonori, come avveniva la scelta dei gruppi musicali? E la parte finanziaria? Immagino che registrare in studio non fosse così facile al tempo.
R: L’ispirazione è venuta dalle raccolte “Bullshit detector”: i Crass avevano pubblicato a bassissimo prezzo delle compilation di registrazioni che gli erano pervenute via posta. Nel primo volume c’erano solo gruppi punk, nel secondo anche dark, roba elettronica, poesia sonora. Le registrazioni erano di qualità diversissima: qualcuno era riuscito a comperare qualche ora in uno studio ma c’era chi si era dovuto arrangiare con un’attrezzatura casalinga. L’importante non era la confezione, ma quello che si voleva dire: ecco, era esattamente quello che volevamo anche noi. Le raccolte di Rockgarage, proprio come i concerti che abbiamo organizzato, sono sempre state caratterizzate dalla diversità degli stili e della registrazione: abbiamo accostato fisicamente sul palco e sul vinile musiche punk, jazz, dark, elettronica, sperimentale registrate in uno studio oppure in casa. Lo stile espressivo non è mai stato motivo di divisione. Abbiamo pubblicato roba registrata con un 24 piste accanto a roba registrata in diretta su una cassetta in camera da letto. Non abbiamo mai manipolato una registrazione per renderla più ascoltabile: sarebbe stato un tradimento. Nei primi due dischi di Rockgarage ci sono finiti i nostri amici, poi negli altri anche gruppi e musicisti di altre città coi quali s’era fatta amicizia ed era iniziata una certa collaborazione. Se c’era da fare qualche registrazione in uno studio potevamo appoggiarci al Diamine a Mestre oppure all’Odhecaton a Venezia. In entrambi c’erano attrezzature ottime ma soprattutto tecnici capaci e di mentalità aperta, disponibili a concederci sconti consistenti, addirittura a volte hanno lavorato gratis. Penso avessero capito a fondo le nostre esigenze. Passare un pomeriggio con Ermanno Velludo all’Odhecaton significava avere l’opportunità di imparare più cose utili per crescere che in un trimestre di scuola. Ermanno era un filosofo, oltre che un tecnico: sotto le sue dita i suoni prendevano significato.
D: Mi piacerebbe conoscere qualche numero, quali erano le tirature? Ha avuto sempre successo? Ci fu una collaborazione o fratellanza con altre realtà editoriali musicali?R: Il primo e il secondo Rockgarage sono stati stampati in tremila copie, gli altri (quelli con i dischi allegati) tra le mille e le milleduecento copie ciascuno. Siamo partiti da zero. Zero soldi, zero esperienza. Per stampare il primo numero abbiamo organizzato una colletta: io e un altro ragazzo avevamo da poco un lavoro fisso e abbiamo messo una cifra più alta, tutti gli altri hanno contribuito come potevano. Poi abbiamo cominciato in mille modi a rastrellare soldi, abbiamo organizzato una festa alla biblioteca di Oriago, abbiamo addirittura raccolto carta straccia e ferrovecchio. Io ho anche elemosinato spiccioli sul posto di lavoro, penso che i miei colleghi mi considerassero uno spostato e in trent’anni non gli ho mai dato l’occasione di cambiare idea. Dopo un lungo giro alla ricerca di un preventivo accettabile, abbiamo preso accordi con una piccola tipografia di Marghera. Probabilmente non ci siamo capiti, avevamo chiesto duemila copie che per noi erano già un’esagerazione, e ne sono state stampate tremila. All’inizio eravamo disperati, pensavamo che non ce l’avremmo mai fatta a smaltirle e invece no: diffondevamo il giornale fuori delle scuole, alle code ai concerti e davanti ai cinema, nei negozi di dischi della zona. Anche quelli un po’ più vecchi di noi ce lo chiedevano: era una novità assoluta, non c’era mai stata nessuna fanzine nella nostra zona. Rockgarage costava mille lire, ma non era un problema raccoglierne anche 500 o meno: i soldi non erano il nostro obiettivo, noi volevamo che il giornale circolasse, eravamo tutti molto presi con l’idea di controcultura, di cultura dal basso, di cultura orizzontale. Nel giro di qualche mese siamo riusciti a dare via quasi tutta la tiratura e a raccogliere quella che per noi era una cifra enorme. Restituita buona parte del denaro anticipato, con la differenza a sei mesi di distanza siamo riusciti a pubblicare un secondo numero della fanzine con più pagine del primo, e sei mesi dopo a pubblicarne un terzo con un disco ep 7” allegato. Per stampare il disco ci ha dato una mano Giampiero Bigazzi della Ma. So., storica etichetta indipendente toscana. Nei primi anni Ottanta c’erano molte altre fanzine, ci si incontrava ai concerti e alle riunioni nei primi centri sociali, si parlava volentieri, si discuteva molto e si facevano scambi. Era davvero bellissimo ritrovarsi con ragazzi e ragazze di altre città e altre realtà che come noi avevano quest’esigenza forte di esprimersi. Ci si annusava però restando ad una certa distanza, e nonostante la simpatia e la stima non si è davvero mai avviata una collaborazione con nessuno. Ad esempio non abbiamo mai partecipato a Punkaminazione, più che altro perché si era molto ma molto scettici sull’idea di un coordinamento. C’era anche l’ARCI che voleva censire, schedare, coordinare, fare liste e a noi tutto questo piaceva assai poco. La prima volta che si è fatto realmente qualcosa insieme è stato già oltre la metà degli anni Ottanta, quindi già dopo che Rockgarage era stata chiusa, quando con Giacomo Spazio di Milano, Blu Bus di Torino, i Plasticost, i Detonazione e Vittore Baroni della Trax abbiamo co-prodotto alcune uscite discografiche con il simbolo/nome comune di P.E.A.C.E., tra cui “Il giardino delle quindici pietre” dei Franti (1986) e la raccolta internazionale “F/Ear this!” a sostegno di A/Rivista Anarchica (1987).
D: A cosa fu dovuta la chiusura di Rockgarage?
R: E’ tutto riconducibile ad un nostro grosso errore di fondo: stavamo trasformando un progetto collettivo senza padrone né obblighi né scadenze in una piccola attività editoriale, e ci siamo messi in mano ad un distributore commerciale. Avevamo impiegato tutti i nostri risparmi per pubblicare un numero della fanzine con allegato un intero lp. Coi soldi che pensavamo di raccogliere volevamo dare a Rockgarage una certa stabilità: continuando a pubblicare un nuovo numero ogni quattro invece che ogni sei mesi, e mantenendo costante il numero di pagine avremmo potuto raccogliere abbastanza per creare non dico un lavoro ma quasi un lavoro per un paio di noi che ne avevano bisogno. In due parole, tutti i risparmi accumulati tenendo in vita Rockgarage col volontariato, come s’era fatto tra il 1981 e il 1984, sono andati persi in fretta in un gorgo di bugie, fatture non pagate, dischi in nero scomparsi, assegni scoperti e minacce di ritorsioni legali. Avevamo già pronto per la tipografia il numero zero/sei, a cui sarebbe stato allegato un 7” split con Spleen Fix (Salerno) e Dava I’Ciass (S. Donà di Piave). Eravamo anche in trattativa coi Litfiba, si pensava di fare un disco a parte con due loro pezzi.
D: C’è un articolo o numero di Rockgarage a cui sei particolarmente legato?
R: Direi proprio questo settimo numero rimasto nella memoria della fotocomposizione e mai uscito. E’ stato importante per aprire gli occhi e per cambiare strada. Mi auguro con tutta la cattiveria di cui sono capace che i soldi che ci sono stati rubati siano andati in spese mediche inutili.
D: Immagino che sai che alla fiere del vinile i vostri allegati sonori hanno valore considerevole, lo avresti mai immaginato?
R: Ho sempre invitato esplicitamente al furto o almeno al danneggiamento delle copie di Rockgarage e dei dischi di Rockgarage posti in vendita dagli speculatori. Ho litigato anche di recente con dei tipi in un paio di negozi che volevano rivendermi un pezzo di me stesso, un pezzo dei miei amici. Lo dico forte, anche qui: se trovate in giro vecchie copie di Rockgarage in vendita rubatele, danneggiatele, fatele a pezzi, bruciatele. Se si lamentano, ditegli che ve l’ho chiesto io: Rockgarage non era e non è cibo per collezionisti.
D: C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere?
R: Enrico, l’unica domanda che mi sono sempre aspettato e che non è mai arrivata è una cosa del tipo: come mai in un territorio che tra Mestre Venezia Marghera e hinterland conta quasi mezzo milione di persone dopo Rockgarage in questi ultimi 25 anni non c’è mai stato nessuno a cui è venuto in mente di fare un’altra fanzine? Sono alla fine quasi contento che una domanda così non mi sia mai stata fatta, perché proprio non saprei rispondere. Cioè potrei rispondere facendo delle congetture ma non riuscirei a parlare per esperienza diretta.
Marco, grazie per queste parole e chissà per il futuro che non possano essere la fiamma che accenda la miccia per un altra fanzine.
Se volete vedere ed approfondire o contattare Marco Pandin, ecco alcuni riferimenti:
Stella Nera: pagina su Rockgarage
Altra pagina su Rockgarage
Inoltre ho trovato in rete un’intervista pubblica a Marco Pandin, durante la presentazione del libro “Nel cuore della bestia. Storie personali nel mondo della musica bastarda” scritto assieme a Stefano Giaccone. Si possono leggere alcuni brani di quella conversazione coordinata da Piero Brunello e allargata al pubblico presente nel sito storiAmestre.
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