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Idaho - Cuori di Palma




La storia discografica di Jeff Martin, losangeleno classe 1964, si dipana ormai da un ventennio sotto il suggestivo moniker Idaho, ovvero come l’angusto e selvaggio stato nel nord degli USA. Passando attraverso diversi stili, cambiando continuamente il personale coinvolto nel progetto fino ad assumere praticamente lo status di one man band, ma mantenendo un livello personale e di integrità artistica invidiabili.
E pensare che ce ne ha messo del tempo, Martin, per emergere. Si forma come pianista classico e nel 1983 neanche ventenne tenta l’avventura, trasferendosi per un po’ di tempo a Londra, in cui registra del materiale da provinare ad una casa discografica chiamata Ensign. Evidentemente la cosa non funziona, visto che l’anno successivo torna a L.A. Qualche anno fa, un paio di quelle registrazioni sono state rese disponibili su www.slidingpast.com , che è uno dei 3 siti in cui si promuove, e mostrano Martin alle prese con un interessante synth-wave per certi versi vicina a Japan, Talk Talk e primi Tears For Fears.
Il resto del decennio lo vede militare in formazioni locali assolutamente sconosciute, a quanto pare mai arrivate al fatidico traguardo discografico. Nel 1990, però, succedono un paio di avvenimenti chiave: nasce il sodalizio con John Barry, chitarrista figlio di un attore di Hollywood, e a casa di un amico si ritrova in mano una chitarra acustica priva delle ultime due corde. Da lì nasce l’idea folgorante di una elettrica custom a 4 corde che da allora diventerà il veicolo principale delle sue composizioni almeno fino a quando, verso fine decennio, non deciderà di recuperare il buon vecchio pianoforte.
Nasce così Idaho, sotto forma di duo. Mentre Martin si occupa di composizioni, voce, chitarra custom e basso, Barry di batteria e di solista che, nelle sue mani, diventa un altro tratto estremamente distintivo; il suo suono lacerante, dilatato, in feedback quasi perenne, riflette l’inquietudine di un personaggio tossicodipendente che si adegua alla perfezione all’esistenzialismo perturbato di Martin. La Caroline se ne assicura le prestazioni e ad inizio 1993 esce prima un EP (The Palms) e poi l’album Year after year. La stampa tende ad inserirli nel calderone slow-core, insieme ad altre stelle come Codeine e Red House Painters (con cui peraltro divideranno un tour durante l’anno), ma era già chiaro come la cifra personale dei due fosse innegabile. Year after year è un disco quasi shockante nel suo lirismo, in cui si passa da meditazioni autunnali (The only road, Save) a vortici tempestosi (Here to go), da iperboli depressive (Gone, Sundown, Year after year) a brevi squarci di sereno (Skyscrape, One Sunday). God’s green earth, il pezzo di apertura, destinato a restare uno degli highlights di sempre di Martin, mette subito in campo le possibilità dei due di provocare emozioni a lenta combustione. Non è certo un disco di facile assimilazione, dall’umore nero-pece ma non per questo privo di grande respiro ed atmosfera, insieme all’EP che racchiude un altro trittico di assoluto rilievo (Creep, Fall around, You are there). Inoltre ha il merito di rivelare la grande personalità di Martin, che oltre ad essere eccellente songwriter si fa notare come cantante dall’estensione non indifferente e dal timbro caldo e magnetico. Insieme ai due gregari Zimmitti (batteria) e Smith (chitarra) fanno il tour americano con i RHP e poi sbarcano in Inghilterra, questa volta con i Sundial.













Evidentemente succede qualcosa che fa perdere il controllo a Barry e lo fa ricadere nel cunicolo dell’eroina, così nel 1994 Martin si ritrova da solo ma tutt’altro che sfiduciato e presto pronto a registrare il seguito, col supporto del solo batterista Lewis. This way out segna un pizzico di normalizzazione rispetto al precedente, e non soltanto per l’assenza della chitarra sanguinolenta di Barry. Martin è ben lungi dall’aver trovato un equilibrio esistenziale, ma a differenza del debutto qui riversa le sue arie autunnali con un piglio più posato, meno votato all’abbandono e a tratti quasi grintoso. Anche lo stile vocale ne risente; c’è meno declamazione, si nota un indolenza quasi pigra, alla J Mascis. In qualche frangente del disco, infatti, sembra quasi di trovarsi al cospetto di una versione sofisticata dei migliori Dinosaur Jr. Le composizioni, però, restano sempre di grande fattura; i breaks introspettivi delle due splendide apripista, Drop off e Drive it, sono soltanto l’inizio. Martin modera l’utilizzo del feedback e se ne appropria con abilità, dosandolo con saggezza. Le ballads Weird wood e Still fungono da contorno per il miglior pezzo del disco, la fragorosa e trascinante Fuel, un po’ il manifesto dei nuovi Idaho: umori autunnali, spleen a rilascio controllato e progressioni di grande effetto. La contemplativa Sweep ha anche il merito di far rispolverare all’autore quel pianoforte accantonato da chissà quanto tempo. Verso la fine arrivano altre forti emozioni. Lo slow-core galattico di Taken che confluisce direttamente nel balzello indie di Crawling out. Forever infine chiude in perfetto stile Year after Year, rabbrividente promessa di eternità alla moviola, con una valanga di feedback che al termine sommerge tutto.
Nel frattempo Martin costruisce attorno a sé un trio composto dallo stesso Lewis, Borden al basso e Seta alla chitarra solista, un acquisto importante in quanto resterà il suo collaboratore più duraturo di sempre, e porta in giro This way out per tutto il Nord America per tutto l’inverno '94-95. La riuscita di pezzi forti e compatti come Fuel e Drive it lo spinge a persistere su quel modello di contrasti sonori. Si prende una licenza dalla Caroline e fa uscire il Bayonet EP per l’indie Fingerpaint, minuscola etichetta di L.A. La fuzzatissima e mascisiana The worm poteva anche diventare un hit minore, avesse avuto un’esposizione maggiore. Sliding past e Losing light perpetrano l’introspezione che esplode in schegge di feedback, con particolare attenzione per la seconda, una meraviglia commovente.










A febbraio 1996 esce Three sheets to the wind, album che rappresenta l’equazione perfetta fra accessibilità, cantautorato e indie-rock d’atmosfera. Visto il ritmo incessante di tour che gli Idaho stavano mantenendo e la promozione che quantomeno la Caroline si stava sforzando di garantire loro (ricordo che trovai l’album nel comunissimo reparto dischi di un anonimo centro commerciale), un minimo di riconoscimento se lo sarebbero meritato, anche perché il disco è bellissimo e variegato. Catapult e Pomegranate bleeding, (quest’ultima anche su singolo con The right escape, inspiegabilmente relegata a b-side) mostrano il lato quasi grunge del quartetto, dal fragore melodico ed emotivo. Martin spartisce la firma con i compagni per una buona metà del disco; sul fronte tranquillo si trovano le pepite del disco, come le pigre atmosfere autunnali di Stare at the sky, gli intricati arpeggi chitarristici di No one’s watching e i vorticosi delays di Get you back. Con Alive again Martin rispolvera il vecchio pianoforte per una delicatissima ballad.
Il tour si protrae per otto mesi, fino alla fine di agosto. Evidentemente la Caroline non è soddisfatta e li scarica. Martin lascia liberi Burden e Lewis ma mantiene attivo il sodalizio con Seta, stringe accordo con la piccola indie Buzz ed insieme nel marzo del 1997 pubblicano il mini The Forbidden, con 5 pezzi che calcano sulla vena più rilassata ed indolente dell’Idaho-sound, con le gradevolissime Hold everything e Golden seal, ma con l’eccezione della magnifica Bass crawl, una mistica escursione nel gorgo slow-core dei primi dischi.











L’album che esce l’anno successivo si chiama Alas e si compiace del contributo di un paio di ospiti di rilievo come il batterista di Beck, Waronker, nonché dei vocalizzi sparsi della Auf Der Mar, ex-Hole e in quel periodo bassista negli Smashing Pumpkins. Si tratta comunque di un disco che non aggiunge molto a quanto detto fino ad allora da Martin, forse per un eccessivo indugiare su temi classicamente autunnali ed indolenti senza grosse variazioni, comunque contenente un paio di perle come Run but you ran e Yesterday’s unwinding. Al posto del solito lungo tour, si esibiscono solo per una manciata di date in California in Agosto, dopodichè Martin si prende una pausa di riflessione. E’ proprio questo il momento cruciale; come da egli stesso raccontato in un’intervista, alla fine del 1998, sfiduciato dall’industria musicale, dall’immeritata mancanza di diffusione della sua musica e forse anche da un Alas che lo vede in difetto di ispirazione, decide che è ora di trovarsi un lavoro e lasciar perdere la musica da professionista.
Per fortuna, non resterà della stessa idea per molto e addirittura decide di fondare una propria etichetta, Idahomusic, che inaugura i battenti licenziando un precario documento live tratto dal tour del 1993, intitolato People like us should be stopped. Nonostante le registrazioni siano alquanto grezze, si tratta di un reperto preziosissimo per gli amanti dei primissimi Idaho, un live grondante sangue e stordente di feedback iper-amplificati.
Ed è un Martin in forma ritrovata per Hearts of palm, nuovo album del 2000, ancora in collaborazione con Dan Seta che co-firma una metà circa del materiale. A partire dalla caracollante To be the one, destinata a diventare una favorita live in futuro, è una conferma del talento compositivo del leader che realizza alcune gemme di assoluto valore come l’insistente cantilena della title-track, la discreta e sinuosa Down in waves, la meditabonda Happy times, la nervosa ballad elettrica Alta dena, e il lungo ambientale di Under. Il tour che parte in estate vede gli Idaho approdare per la prima volta in Europa, con alcune date in Novembre in Germania, Francia e Svizzera.











Tempo neanche un anno e si materializza un altro album, Levitate. Seta non fa più parte del progetto, cosicché da quel momento in poi Idaho diventa a tutti gli effetti una one-man band. Il disco parte in quarta con le frizzantissime Wondering the fields e 20 Years, ma sulla lunga distanza si rivela tener fede al titolo che porta, diventando in pratica una nebulosa semi-ambientale. Martin imposta quasi la globalità delle composizioni sul piano, realizzando deliziosi quadretti quasi accademici in Orange, Come back home e Levitate.
Il 2002 è un anno ricco di soddisfazioni per tre validi motivi. Innanzitutto la Idahomusic licenzia l’antologia We were young and needed the money, che raccoglie 10 anni di out-takes ed inediti per un totale di ben 17 titoli. Nonostante gli input siano eterogenei e ovviamente frutti di epoche diverse, in essa trovano posto pezzi che fanno interrogare seriamente sul mistero per cui non siano state pubblicate sugli album di riferimento del periodo. L’irresistibile pigrizia di This day col suo assolo di basso legnoso, la furia dirompente ed allucinata di Flat Top (sicuramente il pezzo più aggressivo di tutta la carriera), l’enfasi trascinante della splendida Shoulder Back, la nubi rabbiose e lancinanti di Straw Dogs. Nel finale, oltretutto ci sono ben tre scarti da Year after year, tranquillamente nella media di ciò che era già noto. L’ipnotica spirale di Traces, il disincanto di Carefully turning e soprattutto la magniloquente Drown, una delle migliori tracce degli Idaho in assoluto, con un Martin da brividi alla voce nel finale. Ed è proprio l’altro protagonista di quella breve stagione, John Berry, a fare un’inattesa ricomparsa nella formazione live che viaggia durante l’anno, nella prima parte lungo gli Stati Uniti e in autunno in Europa, per una ventina di date. In Novembre Idaho mette piede per la prima volta in Italia, a Verona e Milano. Insieme ai due, c’è un batterista innominato di gran talento (immagino di formazione jazzistica) che impreziosisce il set senza far neanche rimpiangere l’assenza del basso.












A dimostrazione degli ottimi risultati raggiunti dal trio, è stato diffuso in rete un documento molto importante, ovvero la registrazione da soundboard dell’esibizione tedesca del 05 Ottobre a Munster, in cui trovano posto 5 inediti di eccellente qualità, destinati fra l’altro a restare nel repertorio live-only. Sintetizzando quanto riportato nel post, ribadisco che si tratta di un grande concerto non soltanto per le perle sconosciute, ma anche per la grande prestazione di Martin, il contributo graffiante e mai invasivo di Berry e la prova di classe offerta dal batterista. Alla luce di tutto questo e vista la precarietà del People like us, a mio avviso il Live in Gleis si potrebbe idealmente aggiungere alla discografia come il disco dal vivo ideale di Idaho.
I due anni successivi scorrono praticamente inattivi, con Martin che ottiene l’ingaggio come compositore di colonna sonora di una serie televisiva della ABC, Days, e al lavoro per un nuovo disco. Ma sembra che abbia stipulato un legame molto forte con l’Europa, tant’è che l’indie label tedesca Kalinkaland mette sul mercato un antologia, intitolata Vieux Carrè, che di fatto a parte la Rope che compariva in una compilation, raccoglie pezzi già editi. Trattasi di un preparativo quasi ad hoc per il tour che vede gli Idaho tornare nel vecchio continente nelle prime due decadi di Dicembre 2004, e che per la mia gioia tocca addirittura la mia città, presso il glorioso (R.I.P.) circolo Ex-Machina. Così ho modo di conoscere Martin e Barry di persona e conversare qualche minuto con loro, persone squisite e affabili com’era facile prevedere.
Un live per pochissimi intimi, se non ricordo male eravamo neanche una trentina ad assistere. Il batterista innominato non c’era più (e captavo una vena polemica in Martin nel dichiarare aveva di meglio da fare), al suo posto una fredda drum-machine che un po’ penalizzava la grande suggestione di un set che, oltre agli inediti del 2002, svariava sul repertorio dal 1996 al momento e anticipava quasi di un anno qualche estratto di The Lone Gunman, a tutt’oggi ultima fatica. Che conferma la tendenza al pianismo raffinato ed emotivo di Martin, con la totalità dei ritmi digitali, innesti elettronici ed atmosfere generalmente soffuse, come ben introdotto dall’intro immaginifica di The orange cliffs ed Echelon. Un liquido Rhodes costituisce la spina dorsale di ballads notturne come The mystery e la bellissima Live today again, quest’ultima promossa anche con un videoclip alquanto suggestivo. E’ un disco ispiratissimo, con Have to be, U got that gunman thang (ripresa da Days), Wet work, The days of patrol, brevi e delicati affreschi di cantautorato ambientale che curiosamente si avvicina alle deliziose raccolte di Keith Kenniff aka Helios. Come già scrissi tempo fa, una collaborazione fra i due sarebbe una gran bella cosa.













Da allora le attività si sono rarefatte all’inverosimile per Martin. Nel maggio 2006 vola per una comparsata di tre date in Spagna, per poi tornare massicciamente nel febbraio 2008, mese in cui praticamente si esibisce ogni sera per tutta l’Europa centrale, Italia compresa. Per il Maggio prossimo è prevista, con un ritardo di oltre un anno dalle intenzioni iniziali, l’uscita di Revoluta. Vista la lunghissima gestazione, mi aspetto un'altra bella prova da parte di un artista ingiustamente sconosciuto a tutti.


Discografia
Year after year (1993) 8
This way out (1994) 7,5
Three sheets to the wind (1996) 7,5
Alas (1998) 6,5
Hearts of Palm (2000) 7,5
Levitate (2001) 7
The Lone Gunman (2005) 7,5

Live
People like us should be stopped (2000) 7
Live in Gleis 22, Munster (2002 - Bootleg) 8

Antologie
We were young and needed the money (2002) 7,5
Vieux Carrè (2004) 7

Siti di riferimento
Idahomusic
Sliding Past
Jeff Martin

1 commenti a "Idaho - Cuori di Palma"

  1. Grazie, non conoscevo questo musicista, vedrò d'approfondire. Bello il video che incluso nel post.

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