Tuxedomoon - Holy Wars
A volte mi accade una cosa singolare.
La prima volta che incontro cose o persone che mi “cambieranno” la vita, riescano a passarmi inosservate.
Le virgolette sono d’obbligo, perché, il campo del cambiamento è quello che attiene alla percezione artistica.
Ma nel caso dei Tuxedomoon, questa percezione ha avuto per me un enorme riflesso sul metodo con il quale avrei poi successivamente giudicato avvenimenti e persone, anche in ambito extra-musicale.
E’ un lungo discorso, spero che alla fine di queste mie impressioni, sarò riuscito a spiegarmi almeno parzialmente.
Dicevo del passare inosservati.
Certo, esiste l’amore a prima vista, la passione immediata, ma questi sono avvenimenti che lasciano poco spazio all’analisi razionale.
Li provi, ti sommergono e resti fermo, bloccato.
Vorrei subito sgomberare il campo da un’altra considerazione di tipo generale.
Io vorrei parlare solo di musica, ma sarò più volte tentato di addentrarmi in altri campi.
Lo so già.
Dirò un’ovvietà (ma voglio correre lo stesso il rischio) sostenendo che considero l’arte come il massimo tentativo umano di dare un senso “alto/altro” all’esistenza.
Nello stesso tempo, non posso ignorare il fatto che noi tutti siamo diventati “consumatori” d’arte e di musica in particolare.
Penso che la cosa “di per sé” non sia né un bene né un male.
Penso comunque che la massa di informazioni relative all’arte che riceviamo (e nel caso della musica, la cosa e’ ancora più evidente), ci renda poco capaci di critica di fronte all’intero fenomeno (non fosse solo che per la quantità di quest’ultima).
Le cose che scrivo sono ovviamente filtrate dall’esperienza personale e dai ricordi dell’epoca: vogliono essere solo una onesta testimonianza di come ho elaborato quel periodo.
“Holy Wars” lo comperai circa nell’85 e rimase per più di un anno sullo scaffale.
Un ascolto o due e poi via, tra i dischi giudicati “acquisti sbagliati”, o quasi.
Per me di solito, è un buon segno.
Vuol dire che probabilmente tornerò a riascoltarlo quando certe condizioni saranno mature.
E’ una specie di sesto senso che mi fa capire che ho qualcosa davanti che ha un valore intrinseco, ma di cui, in quel momento, non so cogliere l’essenza.
La prima cosa che mi saltò all’orecchio fu l’uso di più lingue nei loro testi.
Noi europei parlavamo (e si continua) a parlare dell’Europa come di una nuova identità (politica, sociale, culturale…) in fase di costruzione e loro, i Tuxedomoon (americani) a usare tutte le “nostre” lingue mischiate, ancora prima che il Muro cadesse…
Casualità ?
Canta Brown: “ I was cruising my decay where the trams connect”.
Intuizione magnifica: di quale decadenza sta parlando?
E in quale particolare zona?
Perchè proprio dove “all the trams connect”?
L’esistenza quotidiana di Brown coincide con quella del vecchio continente e/o viceversa?
Oppure, anche ammettendo una più ovvia lettura che quella sia la semplice descrizione di un incontro a sfondo sessuale, non e’ sorprendente questa coincidenza tra le due precarietà: quella vissuta dall’autore e quella del nostro Continente?
Io penso che Brown e Compagni assolutamente non sapessero con quale precisione stavano intuendo il cambiamento, ma è proprio questa sensibilità dell’artista che propone qualcosa che “ancora non esiste”, che lui stesso non “sa”, ma già lui vive sotto forma di intuizione artistica.
E poi la loro Musica…a volte assolutamente “bianca” …altre volte così “araba” da far vergognare ogni altro postumo tentativo di “world-music”…
Un particolare di cui non vorrei parlare e’ di come, molto spesso, il nome dei Tuxedomoon sia stato associato all’inflazionato termine di “contaminazione” (anche se alla fine dei ’70 la cosa era un po’ meno evidente…).
Contaminazione tra generi e forme espressive (teatro, video, balletto, poesia, ecc.). Ognuna di queste forme artistiche ha visto, in qualche modo, i Tuxedomoon protagonisti.
Al di là dei risultati (ascoltate e giudicate), mi piace solo scoprire come, a distanza di tempo, tutti quei tentativi appaiano come episodi di un modo preciso di affrontare la vita dell’artista: una vera e propria “filosofia”.
Probabilmente Blaine L. Reininger non ha mai amato visceralmente le performance teatrali messe in scena dalla coppia Winston Tong/Bruce Geduldig e forse Peter Principle non avrebbe mai lasciato la suggestione della sua New York per scoprire i musicisti indigeni del Messico, come invece ha fatto Steven Brown.
Questa “filosofia” alla quale mi riferisco e’ la più semplice del mondo, ma molto rara da trovare nella realtà di tutti i giorni: la profonda onesta’ intellettuale che ti fa vivere assieme agli altri (artisti e non) scoprendo di volta in volta, obiettivi comuni sui quali lavorare e impegnarsi.
Non parlare, ma fare.
Tuxedomoon credono in tutto questo (i loro ultimi show scarni e essenziali lo confermano, ribaltando di 180 gradi i ricordi dei loro fans ancora legati agli anni ‘80: nessun video, nessuno schermo, tantomeno balletti o simili…).
La loro voglia di rimettersi continuamente in discussione, come artisti e come uomini, continua ad accompagnarli nel loro viaggio sonoro e non (qualcuno puo’ dire con sicurezza dove vive Steven Brown o Blaine Reininger?)
Penso possano insegnarci qualcosa.
Ascoltarli e’ il minimo.
Tuxedomoon “Holy Wars”
Cramboy, 1985
La prima volta che incontro cose o persone che mi “cambieranno” la vita, riescano a passarmi inosservate.
Le virgolette sono d’obbligo, perché, il campo del cambiamento è quello che attiene alla percezione artistica.
Ma nel caso dei Tuxedomoon, questa percezione ha avuto per me un enorme riflesso sul metodo con il quale avrei poi successivamente giudicato avvenimenti e persone, anche in ambito extra-musicale.
E’ un lungo discorso, spero che alla fine di queste mie impressioni, sarò riuscito a spiegarmi almeno parzialmente.
Dicevo del passare inosservati.
Certo, esiste l’amore a prima vista, la passione immediata, ma questi sono avvenimenti che lasciano poco spazio all’analisi razionale.
Li provi, ti sommergono e resti fermo, bloccato.
Vorrei subito sgomberare il campo da un’altra considerazione di tipo generale.
Io vorrei parlare solo di musica, ma sarò più volte tentato di addentrarmi in altri campi.
Lo so già.
Dirò un’ovvietà (ma voglio correre lo stesso il rischio) sostenendo che considero l’arte come il massimo tentativo umano di dare un senso “alto/altro” all’esistenza.
Nello stesso tempo, non posso ignorare il fatto che noi tutti siamo diventati “consumatori” d’arte e di musica in particolare.
Penso che la cosa “di per sé” non sia né un bene né un male.
Penso comunque che la massa di informazioni relative all’arte che riceviamo (e nel caso della musica, la cosa e’ ancora più evidente), ci renda poco capaci di critica di fronte all’intero fenomeno (non fosse solo che per la quantità di quest’ultima).
Le cose che scrivo sono ovviamente filtrate dall’esperienza personale e dai ricordi dell’epoca: vogliono essere solo una onesta testimonianza di come ho elaborato quel periodo.
“Holy Wars” lo comperai circa nell’85 e rimase per più di un anno sullo scaffale.
Un ascolto o due e poi via, tra i dischi giudicati “acquisti sbagliati”, o quasi.
Per me di solito, è un buon segno.
Vuol dire che probabilmente tornerò a riascoltarlo quando certe condizioni saranno mature.
E’ una specie di sesto senso che mi fa capire che ho qualcosa davanti che ha un valore intrinseco, ma di cui, in quel momento, non so cogliere l’essenza.
La prima cosa che mi saltò all’orecchio fu l’uso di più lingue nei loro testi.
Noi europei parlavamo (e si continua) a parlare dell’Europa come di una nuova identità (politica, sociale, culturale…) in fase di costruzione e loro, i Tuxedomoon (americani) a usare tutte le “nostre” lingue mischiate, ancora prima che il Muro cadesse…
Casualità ?
Canta Brown: “ I was cruising my decay where the trams connect”.
Intuizione magnifica: di quale decadenza sta parlando?
E in quale particolare zona?
Perchè proprio dove “all the trams connect”?
L’esistenza quotidiana di Brown coincide con quella del vecchio continente e/o viceversa?
Oppure, anche ammettendo una più ovvia lettura che quella sia la semplice descrizione di un incontro a sfondo sessuale, non e’ sorprendente questa coincidenza tra le due precarietà: quella vissuta dall’autore e quella del nostro Continente?
Io penso che Brown e Compagni assolutamente non sapessero con quale precisione stavano intuendo il cambiamento, ma è proprio questa sensibilità dell’artista che propone qualcosa che “ancora non esiste”, che lui stesso non “sa”, ma già lui vive sotto forma di intuizione artistica.
E poi la loro Musica…a volte assolutamente “bianca” …altre volte così “araba” da far vergognare ogni altro postumo tentativo di “world-music”…
Un particolare di cui non vorrei parlare e’ di come, molto spesso, il nome dei Tuxedomoon sia stato associato all’inflazionato termine di “contaminazione” (anche se alla fine dei ’70 la cosa era un po’ meno evidente…).
Contaminazione tra generi e forme espressive (teatro, video, balletto, poesia, ecc.). Ognuna di queste forme artistiche ha visto, in qualche modo, i Tuxedomoon protagonisti.
Al di là dei risultati (ascoltate e giudicate), mi piace solo scoprire come, a distanza di tempo, tutti quei tentativi appaiano come episodi di un modo preciso di affrontare la vita dell’artista: una vera e propria “filosofia”.
Probabilmente Blaine L. Reininger non ha mai amato visceralmente le performance teatrali messe in scena dalla coppia Winston Tong/Bruce Geduldig e forse Peter Principle non avrebbe mai lasciato la suggestione della sua New York per scoprire i musicisti indigeni del Messico, come invece ha fatto Steven Brown.
Questa “filosofia” alla quale mi riferisco e’ la più semplice del mondo, ma molto rara da trovare nella realtà di tutti i giorni: la profonda onesta’ intellettuale che ti fa vivere assieme agli altri (artisti e non) scoprendo di volta in volta, obiettivi comuni sui quali lavorare e impegnarsi.
Non parlare, ma fare.
Tuxedomoon credono in tutto questo (i loro ultimi show scarni e essenziali lo confermano, ribaltando di 180 gradi i ricordi dei loro fans ancora legati agli anni ‘80: nessun video, nessuno schermo, tantomeno balletti o simili…).
La loro voglia di rimettersi continuamente in discussione, come artisti e come uomini, continua ad accompagnarli nel loro viaggio sonoro e non (qualcuno puo’ dire con sicurezza dove vive Steven Brown o Blaine Reininger?)
Penso possano insegnarci qualcosa.
Ascoltarli e’ il minimo.
Tuxedomoon “Holy Wars”
Cramboy, 1985
di Fabrizio Cavallaro
Mogwai - Music For A Forgotten Future (The Singing Mountain)
Ritengo doveroso apporre un integrazione alla mia stroncatura di Hardcore di poco tempo fa. La classica special deluxe edition limited press etc. e quant'altro, famigerata direi, che quando va bene non aggiunge niente alla sostanza del disco principale e quando va male è letteralmente da buttare via.
Ebbene, i Mogwai spiattellano tranquilli questo bonus cd come se niente fosse, ed io salto sulla sedia. Sono cose belle; dai uno dei tuoi gruppi storici per morti dentro e loro a sorpresa piazzano un colpaccio secco, così.
Music for a forgotten future è una suite di 23 minuti, senza ritmo, principalmente per archi e tastiere. Si potrebbe immaginare che sia farina del sacco di Burns, ma non importa. Ciò che conta è che si tratta di 23 minuti di purissima magia, una sorta di soundtrack struggente di quelle che provocano pelle d'oca. I primi 10 minuti vedono un interplay fra piano, Rhodes elettrico ed (immagino) un quartetto d'archi, un drones acuto in sottofondo; lo schema compositivo è di un minimalismo che potrebbe ricordare certe cose di Basinski o Library Tapes.
Molto lentamente il pezzo si evolve e verso la decina di minuti fa la sua comparsa anche una chitarra che ricalca il piano; gli archi continuano a spessorare con decisione il sottofondo.
Al terzo cambio sensibile, attorno ai 15 minuti, entra anche un basso pesante, le chitarre si distorcono un pochettino e l'enfasi sempre più solenne; ci si aspetta quasi che i Mogwai da un momento all'altro possano esplodere come nella loro tradizione, ed invece a sorpresa il pezzo implode su se stesso, scemando nel giro di mezzo minuto.
Ma non è ancora finita: dal pulviscolo atmosferico susseguente risorgono gli archi che eseguono il tema iniziale, in perfetta solitudine, a basso volume.
Un brivido scorre lungo la schiena.
Nessuno ha ancora ammazzato i Mogwai, e questo mi consola parecchio.
Ebbene, i Mogwai spiattellano tranquilli questo bonus cd come se niente fosse, ed io salto sulla sedia. Sono cose belle; dai uno dei tuoi gruppi storici per morti dentro e loro a sorpresa piazzano un colpaccio secco, così.
Music for a forgotten future è una suite di 23 minuti, senza ritmo, principalmente per archi e tastiere. Si potrebbe immaginare che sia farina del sacco di Burns, ma non importa. Ciò che conta è che si tratta di 23 minuti di purissima magia, una sorta di soundtrack struggente di quelle che provocano pelle d'oca. I primi 10 minuti vedono un interplay fra piano, Rhodes elettrico ed (immagino) un quartetto d'archi, un drones acuto in sottofondo; lo schema compositivo è di un minimalismo che potrebbe ricordare certe cose di Basinski o Library Tapes.
Molto lentamente il pezzo si evolve e verso la decina di minuti fa la sua comparsa anche una chitarra che ricalca il piano; gli archi continuano a spessorare con decisione il sottofondo.
Al terzo cambio sensibile, attorno ai 15 minuti, entra anche un basso pesante, le chitarre si distorcono un pochettino e l'enfasi sempre più solenne; ci si aspetta quasi che i Mogwai da un momento all'altro possano esplodere come nella loro tradizione, ed invece a sorpresa il pezzo implode su se stesso, scemando nel giro di mezzo minuto.
Ma non è ancora finita: dal pulviscolo atmosferico susseguente risorgono gli archi che eseguono il tema iniziale, in perfetta solitudine, a basso volume.
Un brivido scorre lungo la schiena.
Rockgarage, la Fanzine e la playlist da Youtube
Setacciando il "tubo" (come dice l'amico Paolo Cesaretti della fanzine Free), ho trovato un po' di video creati e caricati dedicati ai musicisti pubblicati come allegato sonoro alla fanzine Rockgarage.
Una delle menti di Rockgarage è Marco Pandin e qui nel blog trovate un pò di materiale su di lui.
I video sono semplici e in pieno spirito "fai da te" o DIY (do it yourself), che poi vuole dire la stessa cosa.
Musica underground direttamente dagli anni'80 italiani.
Così mi è sembrata una buona occasione per ascoltare qualche brano da Rockgarage e allora ho preparato una playlist, eccola:
E ovviamente grazie a chi ha caricato questi video.
Una delle menti di Rockgarage è Marco Pandin e qui nel blog trovate un pò di materiale su di lui.
I video sono semplici e in pieno spirito "fai da te" o DIY (do it yourself), che poi vuole dire la stessa cosa.
Musica underground direttamente dagli anni'80 italiani.
Così mi è sembrata una buona occasione per ascoltare qualche brano da Rockgarage e allora ho preparato una playlist, eccola:
E ovviamente grazie a chi ha caricato questi video.
Don't Stop - Fleetwood Mac
Quando ragazzo che ancora andava alle medie compravo Ciao2001 pensavo, leggendo le classifiche oltreoceano di vendita dei dischi, che ci fosse un errore.
Non era infatti possibile che tutti i mesi sempre ci fosse questo sconociuto "Rumours" di certi altrettanto sconociuti Fleetwood Mac sempre al numero 1 negli USA.
Quanto vi rimase? E chi lo sa, non mi ricordo, ma per moltissimo tempo.(Immagino che basti guardare su google per saperlo).
Le radio lo trasmettevano, avevo cominciato a cercarlo con la manopola della sintonizzazione e scoprii che la sigla di una delle mie tramissioni preferite su una radio locale era un pezzo dei Fleetwood da Rumours: Never Going Back Again.
Ricordo quando ho sentito per la prima volta "Don't Stop", ricordo l'effetto trascinante e piacevole di quella canzone: bellissima.
L'autrice della canzone è Christine Mc Vie e la canzone parla della vita, delle sue difficoltà. Dice delle cose semplici, che il tempo passa, che le persone cambiano, cambiano i sentimenti, finiscono amori e unioni, ma non ci si deve arrendere quando ci si sente sconfitti, dice che c'è sempre la possibilità di ricominciare, di avere una nuova vita anche migliore, basta non perdersi d'animo e non fermarsi a piangere il tempo passato.
Ecco il testo:
If you wake up and don't want to smile,
If it takes just a little while,
Open your eyes and look at the day,
You'll see things in a different way.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Why not think about times to come,
And not about the things that you've done,
If your life was bad to you,
Just think what tomorrow will do.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
All I want is to see you smile,
If it takes just a little while,
I know you don't believe that it's true,
I never meant any harm to you.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Don't you look back,
Don't you look back.
Dimenticavo l'album è del 1977, ed il video sotto è del 1997...e a parte una gran quantià di chirurgia plastica sembrano una band di ragazzini tanto si stanno divertendo.
Buon divertimento. Dedicato a tutti quelli che non si arrendono ed in particolare ad Alessandro.
Non era infatti possibile che tutti i mesi sempre ci fosse questo sconociuto "Rumours" di certi altrettanto sconociuti Fleetwood Mac sempre al numero 1 negli USA.
Quanto vi rimase? E chi lo sa, non mi ricordo, ma per moltissimo tempo.(Immagino che basti guardare su google per saperlo).
Le radio lo trasmettevano, avevo cominciato a cercarlo con la manopola della sintonizzazione e scoprii che la sigla di una delle mie tramissioni preferite su una radio locale era un pezzo dei Fleetwood da Rumours: Never Going Back Again.
Ricordo quando ho sentito per la prima volta "Don't Stop", ricordo l'effetto trascinante e piacevole di quella canzone: bellissima.
L'autrice della canzone è Christine Mc Vie e la canzone parla della vita, delle sue difficoltà. Dice delle cose semplici, che il tempo passa, che le persone cambiano, cambiano i sentimenti, finiscono amori e unioni, ma non ci si deve arrendere quando ci si sente sconfitti, dice che c'è sempre la possibilità di ricominciare, di avere una nuova vita anche migliore, basta non perdersi d'animo e non fermarsi a piangere il tempo passato.
Ecco il testo:
If you wake up and don't want to smile,
If it takes just a little while,
Open your eyes and look at the day,
You'll see things in a different way.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Why not think about times to come,
And not about the things that you've done,
If your life was bad to you,
Just think what tomorrow will do.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
All I want is to see you smile,
If it takes just a little while,
I know you don't believe that it's true,
I never meant any harm to you.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Don't you look back,
Don't you look back.
Dimenticavo l'album è del 1977, ed il video sotto è del 1997...e a parte una gran quantià di chirurgia plastica sembrano una band di ragazzini tanto si stanno divertendo.
Buon divertimento. Dedicato a tutti quelli che non si arrendono ed in particolare ad Alessandro.
Idaho - Cuori di Palma
La storia discografica di Jeff Martin, losangeleno classe 1964, si dipana ormai da un ventennio sotto il suggestivo moniker Idaho, ovvero come l’angusto e selvaggio stato nel nord degli USA. Passando attraverso diversi stili, cambiando continuamente il personale coinvolto nel progetto fino ad assumere praticamente lo status di one man band, ma mantenendo un livello personale e di integrità artistica invidiabili.
E pensare che ce ne ha messo del tempo, Martin, per emergere. Si forma come pianista classico e nel 1983 neanche ventenne tenta l’avventura, trasferendosi per un po’ di tempo a Londra, in cui registra del materiale da provinare ad una casa discografica chiamata Ensign. Evidentemente la cosa non funziona, visto che l’anno successivo torna a L.A. Qualche anno fa, un paio di quelle registrazioni sono state rese disponibili su www.slidingpast.com , che è uno dei 3 siti in cui si promuove, e mostrano Martin alle prese con un interessante synth-wave per certi versi vicina a Japan, Talk Talk e primi Tears For Fears.
Il resto del decennio lo vede militare in formazioni locali assolutamente sconosciute, a quanto pare mai arrivate al fatidico traguardo discografico. Nel 1990, però, succedono un paio di avvenimenti chiave: nasce il sodalizio con John Barry, chitarrista figlio di un attore di Hollywood, e a casa di un amico si ritrova in mano una chitarra acustica priva delle ultime due corde. Da lì nasce l’idea folgorante di una elettrica custom a 4 corde che da allora diventerà il veicolo principale delle sue composizioni almeno fino a quando, verso fine decennio, non deciderà di recuperare il buon vecchio pianoforte.
Nasce così Idaho, sotto forma di duo. Mentre Martin si occupa di composizioni, voce, chitarra custom e basso, Barry di batteria e di solista che, nelle sue mani, diventa un altro tratto estremamente distintivo; il suo suono lacerante, dilatato, in feedback quasi perenne, riflette l’inquietudine di un personaggio tossicodipendente che si adegua alla perfezione all’esistenzialismo perturbato di Martin. La Caroline se ne assicura le prestazioni e ad inizio 1993 esce prima un EP (The Palms) e poi l’album Year after year. La stampa tende ad inserirli nel calderone slow-core, insieme ad altre stelle come Codeine e Red House Painters (con cui peraltro divideranno un tour durante l’anno), ma era già chiaro come la cifra personale dei due fosse innegabile. Year after year è un disco quasi shockante nel suo lirismo, in cui si passa da meditazioni autunnali (The only road, Save) a vortici tempestosi (Here to go), da iperboli depressive (Gone, Sundown, Year after year) a brevi squarci di sereno (Skyscrape, One Sunday). God’s green earth, il pezzo di apertura, destinato a restare uno degli highlights di sempre di Martin, mette subito in campo le possibilità dei due di provocare emozioni a lenta combustione. Non è certo un disco di facile assimilazione, dall’umore nero-pece ma non per questo privo di grande respiro ed atmosfera, insieme all’EP che racchiude un altro trittico di assoluto rilievo (Creep, Fall around, You are there). Inoltre ha il merito di rivelare la grande personalità di Martin, che oltre ad essere eccellente songwriter si fa notare come cantante dall’estensione non indifferente e dal timbro caldo e magnetico. Insieme ai due gregari Zimmitti (batteria) e Smith (chitarra) fanno il tour americano con i RHP e poi sbarcano in Inghilterra, questa volta con i Sundial.
Evidentemente succede qualcosa che fa perdere il controllo a Barry e lo fa ricadere nel cunicolo dell’eroina, così nel 1994 Martin si ritrova da solo ma tutt’altro che sfiduciato e presto pronto a registrare il seguito, col supporto del solo batterista Lewis. This way out segna un pizzico di normalizzazione rispetto al precedente, e non soltanto per l’assenza della chitarra sanguinolenta di Barry. Martin è ben lungi dall’aver trovato un equilibrio esistenziale, ma a differenza del debutto qui riversa le sue arie autunnali con un piglio più posato, meno votato all’abbandono e a tratti quasi grintoso. Anche lo stile vocale ne risente; c’è meno declamazione, si nota un indolenza quasi pigra, alla J Mascis. In qualche frangente del disco, infatti, sembra quasi di trovarsi al cospetto di una versione sofisticata dei migliori Dinosaur Jr. Le composizioni, però, restano sempre di grande fattura; i breaks introspettivi delle due splendide apripista, Drop off e Drive it, sono soltanto l’inizio. Martin modera l’utilizzo del feedback e se ne appropria con abilità, dosandolo con saggezza. Le ballads Weird wood e Still fungono da contorno per il miglior pezzo del disco, la fragorosa e trascinante Fuel, un po’ il manifesto dei nuovi Idaho: umori autunnali, spleen a rilascio controllato e progressioni di grande effetto. La contemplativa Sweep ha anche il merito di far rispolverare all’autore quel pianoforte accantonato da chissà quanto tempo. Verso la fine arrivano altre forti emozioni. Lo slow-core galattico di Taken che confluisce direttamente nel balzello indie di Crawling out. Forever infine chiude in perfetto stile Year after Year, rabbrividente promessa di eternità alla moviola, con una valanga di feedback che al termine sommerge tutto.
Nel frattempo Martin costruisce attorno a sé un trio composto dallo stesso Lewis, Borden al basso e Seta alla chitarra solista, un acquisto importante in quanto resterà il suo collaboratore più duraturo di sempre, e porta in giro This way out per tutto il Nord America per tutto l’inverno '94-95. La riuscita di pezzi forti e compatti come Fuel e Drive it lo spinge a persistere su quel modello di contrasti sonori. Si prende una licenza dalla Caroline e fa uscire il Bayonet EP per l’indie Fingerpaint, minuscola etichetta di L.A. La fuzzatissima e mascisiana The worm poteva anche diventare un hit minore, avesse avuto un’esposizione maggiore. Sliding past e Losing light perpetrano l’introspezione che esplode in schegge di feedback, con particolare attenzione per la seconda, una meraviglia commovente.
A febbraio 1996 esce Three sheets to the wind, album che rappresenta l’equazione perfetta fra accessibilità, cantautorato e indie-rock d’atmosfera. Visto il ritmo incessante di tour che gli Idaho stavano mantenendo e la promozione che quantomeno la Caroline si stava sforzando di garantire loro (ricordo che trovai l’album nel comunissimo reparto dischi di un anonimo centro commerciale), un minimo di riconoscimento se lo sarebbero meritato, anche perché il disco è bellissimo e variegato. Catapult e Pomegranate bleeding, (quest’ultima anche su singolo con The right escape, inspiegabilmente relegata a b-side) mostrano il lato quasi grunge del quartetto, dal fragore melodico ed emotivo. Martin spartisce la firma con i compagni per una buona metà del disco; sul fronte tranquillo si trovano le pepite del disco, come le pigre atmosfere autunnali di Stare at the sky, gli intricati arpeggi chitarristici di No one’s watching e i vorticosi delays di Get you back. Con Alive again Martin rispolvera il vecchio pianoforte per una delicatissima ballad.
Il tour si protrae per otto mesi, fino alla fine di agosto. Evidentemente la Caroline non è soddisfatta e li scarica. Martin lascia liberi Burden e Lewis ma mantiene attivo il sodalizio con Seta, stringe accordo con la piccola indie Buzz ed insieme nel marzo del 1997 pubblicano il mini The Forbidden, con 5 pezzi che calcano sulla vena più rilassata ed indolente dell’Idaho-sound, con le gradevolissime Hold everything e Golden seal, ma con l’eccezione della magnifica Bass crawl, una mistica escursione nel gorgo slow-core dei primi dischi.
L’album che esce l’anno successivo si chiama Alas e si compiace del contributo di un paio di ospiti di rilievo come il batterista di Beck, Waronker, nonché dei vocalizzi sparsi della Auf Der Mar, ex-Hole e in quel periodo bassista negli Smashing Pumpkins. Si tratta comunque di un disco che non aggiunge molto a quanto detto fino ad allora da Martin, forse per un eccessivo indugiare su temi classicamente autunnali ed indolenti senza grosse variazioni, comunque contenente un paio di perle come Run but you ran e Yesterday’s unwinding. Al posto del solito lungo tour, si esibiscono solo per una manciata di date in California in Agosto, dopodichè Martin si prende una pausa di riflessione. E’ proprio questo il momento cruciale; come da egli stesso raccontato in un’intervista, alla fine del 1998, sfiduciato dall’industria musicale, dall’immeritata mancanza di diffusione della sua musica e forse anche da un Alas che lo vede in difetto di ispirazione, decide che è ora di trovarsi un lavoro e lasciar perdere la musica da professionista.
Per fortuna, non resterà della stessa idea per molto e addirittura decide di fondare una propria etichetta, Idahomusic, che inaugura i battenti licenziando un precario documento live tratto dal tour del 1993, intitolato People like us should be stopped. Nonostante le registrazioni siano alquanto grezze, si tratta di un reperto preziosissimo per gli amanti dei primissimi Idaho, un live grondante sangue e stordente di feedback iper-amplificati.
Ed è un Martin in forma ritrovata per Hearts of palm, nuovo album del 2000, ancora in collaborazione con Dan Seta che co-firma una metà circa del materiale. A partire dalla caracollante To be the one, destinata a diventare una favorita live in futuro, è una conferma del talento compositivo del leader che realizza alcune gemme di assoluto valore come l’insistente cantilena della title-track, la discreta e sinuosa Down in waves, la meditabonda Happy times, la nervosa ballad elettrica Alta dena, e il lungo ambientale di Under. Il tour che parte in estate vede gli Idaho approdare per la prima volta in Europa, con alcune date in Novembre in Germania, Francia e Svizzera.
Tempo neanche un anno e si materializza un altro album, Levitate. Seta non fa più parte del progetto, cosicché da quel momento in poi Idaho diventa a tutti gli effetti una one-man band. Il disco parte in quarta con le frizzantissime Wondering the fields e 20 Years, ma sulla lunga distanza si rivela tener fede al titolo che porta, diventando in pratica una nebulosa semi-ambientale. Martin imposta quasi la globalità delle composizioni sul piano, realizzando deliziosi quadretti quasi accademici in Orange, Come back home e Levitate.
Il 2002 è un anno ricco di soddisfazioni per tre validi motivi. Innanzitutto la Idahomusic licenzia l’antologia We were young and needed the money, che raccoglie 10 anni di out-takes ed inediti per un totale di ben 17 titoli. Nonostante gli input siano eterogenei e ovviamente frutti di epoche diverse, in essa trovano posto pezzi che fanno interrogare seriamente sul mistero per cui non siano state pubblicate sugli album di riferimento del periodo. L’irresistibile pigrizia di This day col suo assolo di basso legnoso, la furia dirompente ed allucinata di Flat Top (sicuramente il pezzo più aggressivo di tutta la carriera), l’enfasi trascinante della splendida Shoulder Back, la nubi rabbiose e lancinanti di Straw Dogs. Nel finale, oltretutto ci sono ben tre scarti da Year after year, tranquillamente nella media di ciò che era già noto. L’ipnotica spirale di Traces, il disincanto di Carefully turning e soprattutto la magniloquente Drown, una delle migliori tracce degli Idaho in assoluto, con un Martin da brividi alla voce nel finale. Ed è proprio l’altro protagonista di quella breve stagione, John Berry, a fare un’inattesa ricomparsa nella formazione live che viaggia durante l’anno, nella prima parte lungo gli Stati Uniti e in autunno in Europa, per una ventina di date. In Novembre Idaho mette piede per la prima volta in Italia, a Verona e Milano. Insieme ai due, c’è un batterista innominato di gran talento (immagino di formazione jazzistica) che impreziosisce il set senza far neanche rimpiangere l’assenza del basso.
A dimostrazione degli ottimi risultati raggiunti dal trio, è stato diffuso in rete un documento molto importante, ovvero la registrazione da soundboard dell’esibizione tedesca del 05 Ottobre a Munster, in cui trovano posto 5 inediti di eccellente qualità, destinati fra l’altro a restare nel repertorio live-only. Sintetizzando quanto riportato nel post, ribadisco che si tratta di un grande concerto non soltanto per le perle sconosciute, ma anche per la grande prestazione di Martin, il contributo graffiante e mai invasivo di Berry e la prova di classe offerta dal batterista. Alla luce di tutto questo e vista la precarietà del People like us, a mio avviso il Live in Gleis si potrebbe idealmente aggiungere alla discografia come il disco dal vivo ideale di Idaho.
I due anni successivi scorrono praticamente inattivi, con Martin che ottiene l’ingaggio come compositore di colonna sonora di una serie televisiva della ABC, Days, e al lavoro per un nuovo disco. Ma sembra che abbia stipulato un legame molto forte con l’Europa, tant’è che l’indie label tedesca Kalinkaland mette sul mercato un antologia, intitolata Vieux Carrè, che di fatto a parte la Rope che compariva in una compilation, raccoglie pezzi già editi. Trattasi di un preparativo quasi ad hoc per il tour che vede gli Idaho tornare nel vecchio continente nelle prime due decadi di Dicembre 2004, e che per la mia gioia tocca addirittura la mia città, presso il glorioso (R.I.P.) circolo Ex-Machina. Così ho modo di conoscere Martin e Barry di persona e conversare qualche minuto con loro, persone squisite e affabili com’era facile prevedere.
Un live per pochissimi intimi, se non ricordo male eravamo neanche una trentina ad assistere. Il batterista innominato non c’era più (e captavo una vena polemica in Martin nel dichiarare aveva di meglio da fare), al suo posto una fredda drum-machine che un po’ penalizzava la grande suggestione di un set che, oltre agli inediti del 2002, svariava sul repertorio dal 1996 al momento e anticipava quasi di un anno qualche estratto di The Lone Gunman, a tutt’oggi ultima fatica. Che conferma la tendenza al pianismo raffinato ed emotivo di Martin, con la totalità dei ritmi digitali, innesti elettronici ed atmosfere generalmente soffuse, come ben introdotto dall’intro immaginifica di The orange cliffs ed Echelon. Un liquido Rhodes costituisce la spina dorsale di ballads notturne come The mystery e la bellissima Live today again, quest’ultima promossa anche con un videoclip alquanto suggestivo. E’ un disco ispiratissimo, con Have to be, U got that gunman thang (ripresa da Days), Wet work, The days of patrol, brevi e delicati affreschi di cantautorato ambientale che curiosamente si avvicina alle deliziose raccolte di Keith Kenniff aka Helios. Come già scrissi tempo fa, una collaborazione fra i due sarebbe una gran bella cosa.
Da allora le attività si sono rarefatte all’inverosimile per Martin. Nel maggio 2006 vola per una comparsata di tre date in Spagna, per poi tornare massicciamente nel febbraio 2008, mese in cui praticamente si esibisce ogni sera per tutta l’Europa centrale, Italia compresa. Per il Maggio prossimo è prevista, con un ritardo di oltre un anno dalle intenzioni iniziali, l’uscita di Revoluta. Vista la lunghissima gestazione, mi aspetto un'altra bella prova da parte di un artista ingiustamente sconosciuto a tutti.
Discografia
Year after year (1993) 8
This way out (1994) 7,5
Three sheets to the wind (1996) 7,5
Alas (1998) 6,5
Hearts of Palm (2000) 7,5
Levitate (2001) 7
The Lone Gunman (2005) 7,5
Live
People like us should be stopped (2000) 7
Live in Gleis 22, Munster (2002 - Bootleg) 8
Antologie
We were young and needed the money (2002) 7,5
Vieux Carrè (2004) 7
Siti di riferimento
Idahomusic
Sliding Past
Jeff Martin
Poster e Artworks: Rick Griffin
I Man, gruppo scozzese degli anni settanta, ebbero quasi più successo negli Stati Uniti grazie al loro sound che fondeva rock, blues, psichedelia e west coast. Nell'album Slow Motion (1974) la copertina ritraeva originariamente il celebre personaggio Alfred E. Newman star del magazine Mad. La rivista si oppose e la band dovette cedere nel far uscire la copertina ritoccata, mostrante solo una parte del disegno originale. Il disegno è dell'artista psichedelico californiano Rick Griffin, famoso per gli artworks di Quicksilver Messenger Service e Grateful Dead, fra cui la celeberrima copertina di Aoxomoxoa, terzo album della band di Jerry Garcia.
Hanno fatto storia i suoi posters realizzati per i concerti nell'età d'oro della psichedelia. Eccone un paio: Frank Zappa and Alice Cooper insieme: Original Concert Poster Cal State Fullerton, 1968. Bello anche questo per i Doors.
Rick Griffin è morto nel 1991 in California in un incidente motociclistico all'età di 47 anni.
Rick Griffin è morto nel 1991 in California in un incidente motociclistico all'età di 47 anni.