PJ Harvey - Dry
energia
amore profondo, dolore
solitudine
orizzonti pieni di spazio, spirito di osservazione, percezioni
sensibilità che si raffina, ascolta in silenzio e cresce
bisogno di colpire forte. l’identità’ trova una dimensione propria
un muro.
di musica, di parole, di significati
il senso primitivo della vita prende il sopravvento
happy and bleeding. for you.
dono estremo
annullamento del “sé” di fronte all’immenso che scopri di avere dentro
e’ troppo per essere compreso e contenuto
due sole direzioni possibili: l’esterno percepisce la sensualità, dall’interno la propria anima grida
il bisogno di non essere “interpretata “
perché voler capire con la ragione ciò che solo il cuore può dirti?
P.J. Harvey
"Dry"
1992, Indigo Records
amore profondo, dolore
solitudine
orizzonti pieni di spazio, spirito di osservazione, percezioni
sensibilità che si raffina, ascolta in silenzio e cresce
bisogno di colpire forte. l’identità’ trova una dimensione propria
un muro.
di musica, di parole, di significati
il senso primitivo della vita prende il sopravvento
happy and bleeding. for you.
dono estremo
annullamento del “sé” di fronte all’immenso che scopri di avere dentro
e’ troppo per essere compreso e contenuto
due sole direzioni possibili: l’esterno percepisce la sensualità, dall’interno la propria anima grida
il bisogno di non essere “interpretata “
perché voler capire con la ragione ciò che solo il cuore può dirti?
P.J. Harvey
"Dry"
1992, Indigo Records
di Fabrizio Cavallaro
FREE: da fanzine a rivista contenitore. Paolo Cesaretti e la Firenze all’inizio degli anni ottanta.
FREE era una fanzine musicale nata a Firenze durante gli anni ’80.
FREE era una fanzine che sia per la qualità dei contenuti che per la “forma“, la si poteva considerare una rivista propriamente “contenitore“.
A FREE era allegato un vinile originale.
Di FREE, parlando con un amico, lui mi disse: “… la mia fanzine dopo averla letta potevi anche buttarla. FREE no. La conservavi, la rileggevi.” Uno degli ideatori di FREE è stato Paolo Cesaretti, ora architetto e designer e con lui ho avuto la fortuna e il piacere di scambiare qualche domanda sulla rivista, su quello che ci stava dietro e attorno. Ovviamente stiamo trattando della scena musicale indipendente italiana e non degli anni ’80.
Le risposte possono sembrare un po’ lunghe , quasi dei racconti – del resto come in altre interviste di questo blog – ma a noi non importa, a noi piace così.
Domanda: FREE, un nome semplice, diretto e facile da pronunciare, perché?
Risposta: Free!, libero di dire ciò che pensi ma anche gratuito. Si, certo, inizialmente è una fanzine fotocopiata, distribuita gratuitamente. Da qui il nome. Capisco che oggi la free press sia un fenomeno generalmente accreditato, ma nell’81 è ancora una cosa piuttosto bizzarra, dal sapore vagamente militante. Siamo un gruppetto di compagni di scuola che ha desiderio di condivisione. Con grande ingenuità e aspettativa autoproduciamo una fanzine, la distribuiamo in qualche negozio di dischi, la inviamo alle due-tre radio di cui ci piacciono i programmi. Ne escono cinque numeri, non credo che la tiratura abbia mai superato il centinaio di copie a numero.
D: I primi numeri sono una fanzine tipica: fogli battuti a macchina da scrivere, loghi, foto e disegni tagliati e incollati …
R: Un vero atto d’amore adolescenziale per la musica. Non esiste una linea editoriale. Semplicemente l’idea è quella di mettere insieme un giornale che parli di rock. Gli argomenti sono piuttosto vari, le foto ritagliate qua e là oppure scattate da noi ai concerti. Dal terzo numero iniziamo ad entrare nel giro. Il quinto ed ultimo fotografa sul nascere un momento in cui le cose stanno accadendo, la scena fiorentina si sta delineando, c’è molta energia in giro, molti gruppi si formano gli uni all’insaputa degli altri, nascono le prime conflittualità. Distribuiamo la fanzine alle semifinali del Festival Rock nazionale; è tarda primavera, al Casablanca ci ospita la Materiali Sonori che ha lì un piccolo banco. Ricordo ancora le unghie smaltate di rosa di Giampiero Bigazzi mentre mi porge una copia dell’album compilation Matita Emostatica.
D: Poi esce il primo numero di FREE stampato e con un allegato sonoro.
R: Accade in quattro momenti distinti.
1_I giorni a cavallo fra il 1981 e il 1982 me ne vado a Londra e accanto al mio albergo in Hogarth Road c’è questo strano negozio di dischi. Nel seminterrato hanno un intero reparto di dischi quadrifonici. Mi faccio coraggio e una sera entro, mi guardo un po’ in giro, ci sono tre clienti vestiti di nero e i due commessi alt-punk. Non vedo in giro un disco che mi sia vagamente familiare. I tre confabulano in italiano e mi sembrano piuttosto esperti. Domando. Ah, anche voi di Firenze! (…) Si, vado alla Rokkoteca Brighton (…) Noi due suoniamo e lui ha un negozio di dischi (…) Come si chiama il gruppo?
Ho appena conosciuto i Pankow per caso, a Londra nella sede della 4AD.
2_Estate 1982, prendo contatto con Vittore Baroni. Vive a Forte dei Marmi con i genitori. E’ agosto, io vengo dalla spiaggia e sono in pantaloni corti, lui è Vittore Baroni, iconico e austero come lo sarà sempre. La sua camera è tappezzata di dischi sui quattro lati da pavimento a soffitto. E’ una mattinata luminosa. Quattro ore in cui imparo molto. Trax-Trux, Lt. Murnau, mail art, diy, Nocturnal Emissions, Piermario Ciani, Merzbow, RockZero, dischi giapponesi con copertine ed etichette fatte a mano, cassette, montagne di cassette autoprodotte, altri dischi che sembrano esistere solo lì. E poi fotocopie, soprattutto fotocopie, alcune addirittura a colori, collage fotocopiati, informazioni fotocopiate. E’ la prima volta che mi imbatto in un’idea di network artistico: c’è quotidianamente tutto un mondo di s cambi nella cassetta delle lettere di Via Raffaelli 2 a Forte dei Marmi. Con Vittore discutiamo di una fanzine stampata con un disco allegato. L’idea a lui piace, dice che mi aiuterà.
3_Qualche mese prima, alla Rokkoteca Brighton, hanno suonato i Diaframma. Incredibili. Di Ian Curtis non so ancora molto, ma Nicola è magnetico. I fratelli Cicchi sono potenti e compatti. Fiumani punk dentro. La Rokkoteca stipata, odore di fumo e sudore, luci blu e rosse, notturni urbani proiettati sullo sfondo. Un momento assoluto. Ne scrivo su Free!, li intervisto, vado alle loro prove, mi regalano il test pressing del loro primo singolo. Durante l’estate girello in macchina la sera con Fiumani. Parliamo molto, a casa sua, a casa mia. Gli propongo la mia idea della fanzine con il 45 giri split allegato. Al telefono Federico mi dice: va bene, a patto che sull’altro lato ci siano i Pankow o i Neon, nessun altro gruppo. Una visione precisa della collocazione dei Diaframma. In realtà mi spiazza perché avrei voluto inserire sull’altro lato Romy dei Polyactive, che a mio avviso è un gruppo di grande qualità ma sottostimato, ma mi fa anche felice perché per me Pankow e Neon sono irraggiungibili.
4_Infine: una sera d’ottobre dello stesso anno, in una cantina di Via Giusti a Firenze. Sono per la prima volta negli studi Polar SSS, dentro il mondo dei Pankow. Un mondo misterioso, come i loro bellissimi manifesti apparsi in giro in città, fondo bianco, immagine astratta in grigio, alternanza di caratteri cirillici e neoclassici. Scelte formali e di linguaggio lontane anni luce dalla tappezzeria multicolore che troneggia sui muri di una città italiana all’inizio degli anni ottanta.
Spiego a Fasolo la mia idea, la fanzine organizzata a schede, stampa in offset ma con gli impianti fotocopiati su acetato per contenere i costi, la confezione sigillata. Gli mostro una bozza della copertina. FREE – un tutto maiuscolo che renda il nome più grafico e meno banale, senza il frivolo punto esclamativo finale – 8212 – suggestione sistemica da produzione in serie, in realtà solo anno e mese, codifica ispirata alle realizzazioni di Trax.
Il primo numero di FREE nuova serie lo realizzo con Maurizio, che gli imprime un’identità visiva, ne detta le linee guida. I Diaframma e i Pankow registrano due brani inediti. Vinile blu o vinile nero? Nero certo, non stiamo realizzando un gadget. Le etichette del disco sono stampate su di una carta troppo sottile e si rompono in fase di incollaggio. Alla fine le copie consegnate sono 453. Troviamo una sarta che ci confeziona 450 buste di plastica. Di sera alla Polar SSS assembliamo schede e disco nella busta. La sarta poi sigilla il tutto.
D: IDL – Industrie Discografiche Lacerba nasce in contemporanea con il nuovo corso di FREE? L’etichetta poi produrrà molto materiale, indipendentemente da FREE.
R: Il disco in vinile è un oggetto assoluto. Include emozione, informazione, piacere tattile e visivo. E’ suono e superficie, almeno due lati di vinile e due o quattro o più supporti quadrati di carta da utilizzare. Offre ampie possibilità di sperimentazione e variazione sul tema. Produrre un disco significa emozionarsi ogni volta che arrivano gli scatoloni con l’oggetto finito. E’ inevitabile che succeda. C’ è troppa energia in giro per non cercare di fermarla, rappresentarla, diffonderla. Industrie (di nuovo il fascino dell’aspetto seriale e di un certo immaginario urbano) Discografiche (nessun equivoco, facciamo quei bellissimi oggetti) Lacerba (le avanguardie storiche, l’anno zero della rifondazione novecentesca delle arti. Un riferimento caro a tanta parte del post-punk). In fondo il nome, questo nome, è anche un gioco non privo di ironia.
Industrie Discografiche Lacerba nasce come editore di FREE ma si sviluppa come work in progress con una riformulazione costante del tema e degli obiettivi. Inizialmente, oltre a FREE, IDL produce libri, eventi, collezioni di moda pret a porter. In seguito il progetto si evolve più marcatamente verso la produzione discografica continuando a tracciare una strategia che leghi il contesto in cui opera ad un panorama internazionale d’idee. Questo porta alla realizzazione delle produzioni di Minox e Rinf nei rispettivi ambiti d’influenza – Bruxelles con Steven Brown e Gilles Martin per i primi, e Londra con Adrian Sherwood per i secondi – e, al contrario, a far incidere a Steven Brown – americano d’origine ed europeo per scelta – un’album tributo a Luigi Tenco. Con la stessa idea di sovrapposizione topologica disegnata su rotte invisibili Industrie Discografiche Lacerba ottiene per alcune settimane un posto nella TOP20 indipendente inglese con “Night Train” dei Dub Syndicate.
D: Gli aspetti che mi hanno colpito di FREE sono l’alta qualità degli articoli scritti, la forma grafica originale e i temi non sempre legati alla musica. Gli articoli, forse è riduttivo definirli così, sono dei piccoli saggi o analisi critiche sulla musica, sul cinema o addirittura sul fumetto. Tu coordini e scrivi, però ti avvali anche di alcuni giornalisti e musicisti, come Vittore Baroni o Alex Spalck dei Pankow…
R: Il taglio degli articoli vira dalla cronaca alla elaborazione critica nel momento in cui passiamo da un foglio d’informazione e immediata condivisione della scena locale ad un progetto più complesso – che oltretutto richiede un processo produttivo molto più articolato e lungo. Spesso il pezzo scritto diventa meno funzionale e maggiormente espressivo. I due estremi sono probabilmente proprio Baroni e Spalck. Il primo indagatore analitico e completista, l’altro narratore immaginifico.
Il progetto che va delineandosi si deve confrontare con iniziative similari. Punto di riferimento oltre alle edizioni di Trax sono Sordide Sentimental e la seminale cassetta compilation+booklet di Les Disques du Crépuscule From Bruxelles With Love. Quest’ultimo è un oggetto che non sposa l’approccio filosofico “alto” di Sordide Sentimental ma si propone come espressione della ricerca di un’estetica pop. Crépuscule è un progetto colto che utilizza il pop come linguaggio. Questa è la nostra collocazione. Vogliamo fare o almeno partecipare ad una rivoluzione estetica. Cerchiamo un nuovo rigore formale dopo gli anni della libertà espressiva a tutti i costi. Le nostre pubblicazioni parlano di questo senza parlarne esplicitamente ma lasciando spazio alla ricerca grafica e musicale, donando ai testi il ruolo di riflessione e costruzione di uno scenario, utilizzando l’oggetto assemblato come media. Non possiamo e non vogliamo fare informazione piuttosto costruire o contribuire ad una scena, ad un progetto estetico ed emozionale.
La politica non ci interessa: l’estetica politica è profondamente ancorata agli anni settanta. Quegli anni settanta che in Italia sembra non debbano mai finire. Gli anni che dividono i ragazzi in freak e discotecari. E poi abbiamo vissuto la nostra prima adolescenza nel periodo del terrorismo. Ogni attività politica è vista con sospetto e rifiuto.
Ci interessa piuttosto una certa idea di cooperazione, di primordiale network che unisca realtà affini. E questo avviene rapidamente. Insieme o appena dopo FREE nascono altre pubblicazioni che sposano in maniera istintiva un certo tipo di estetica e una visone trasversale dei temi da trattare. Cito a memoria Dancing Silhouettes di Paola Trimboli e Filippo Rizzi e la bellissima e colta Nero di Marco Formaioni. Schede, musica allegata, argomenti non solo musicali diventano il tratto distintivo di The Scream di Massimiliano Busti.
D: Hai citato alcuni “colleghi” fanzinari, in che rapporti sei con loro? Parlami un pò di più del loro lavoro.
R: Di solito è un rapporto che si basa sulle affinità e sullo scambio reciproco. Il fatto che FREE si presenti così diverso da quello che è il panorama corrente dell’editoria indipendente richiama su di noi l’attenzione di chi possiede una sensibilità assimilabile alla nostra. Quotidianamente arrivano per posta notizie di iniziative editoriali sotterranee da altre città italiane ed europee. Con alcuni si instaurano bellissimi e duraturi rapporti epistolari. Penso a Paola Trimboli e a quanta intelligenza c’è nelle sue lettere. Messina è lontanissima eppure, forse proprio per questo, Dancing Silhouttes e i Victrola sembrano vivere di una luce diversa, distanti da tutto, anche da un certo conformismo. Ma mi scrivono ripetutamente anche personaggi bizzarri e deliranti come ad esempio Blu Schizofrenico alias Carlo Antonelli attuale direttore di Rolling Stone. Nascono collaborazioni con Daniele Ciullini per la sua Nouances, con Tribal Cabaret di Alessandra Giombini e VM di Alessandro Limonta, entrambe fanzine dotate di un’identità propria, che puntando sull’allegato sonoro fotografano un momento di evoluzione della scena musicale indipendente nazionale. Infine Marco Pandin, ammirevole per la determinazione e concretezza con cui porta avanti il progetto Rockgarage. Sebbene le nostre ragioni, modalità e obiettivi siano diversi ci teniamo costantemente in contatto scambiandoci informazioni e progettando sinergie. Marco produrrà No Inzro dei Degada Saf che, insieme al primo album dei Plasticost, rimane uno dei dischi più interessanti e meno allineati del periodo.
D: La scelta degli articoli da pubblicare o da suggerire per la pubblicazione come avviene?
R: In questo c’è una grande libertà. Ognuno può parlare di ciò che vuole, rimanendo sicuramente in sintonia con il progetto generale. Tutto accade in maniera piuttosto naturale. E’ un gruppo di persone per cui nutro una grande stima, persone curiose piene di interessi condivisi. Casomai nei quattro numeri di FREE si assiste ad un graduale cambiamento di “umore”, da regesto della cultura gotico/industrial a progetto tematico in netta antitesi con quell’immaginario che ormai è diventato fortemente codificato. Inesorabilmente il numero delle pagine si assottiglia e, quella che a questo punto si fa fatica a definire fanzine, diviene un oggetto composto da una scatola, un booklet, un disco, alcune cartoline.
D: La grafica poi di FREE è bellissima ed originale, pensata poi a contenere un “oggetto”.
R: FREE è nel suo insieme un progetto che opera in un’area che potremmo definire di sovversione del prodotto culturale. Ovvero il prodotto non esiste più come “distrazione” che impone all’individuo le sue logiche, ma è qualcosa da esplorare e con cui interagire. Non è più intrattenimento o arte piuttosto una miscela di entrambe. FREE, elabora un taglio compositivo trasversale, oggetto dalla struttura ipertestuale (scatola / booklet / cartoline / disco) assemblato come un contenitore in equilibrio per risonanza fra immagine e contenuto: testi critici, poesia, mail-art, musica. L’obiettivo è la ricerca di un’apertura nella barriera iconografica di corrente o di controcorrente che sia. FREE e Industrie Discografiche Lacerba sono espressione di un insofferente disinteresse nei confronti del postmoderno di cui disconosciamo il manipolato recupero del canone classico, mentre ci affascinano il movimento moderno e le avanguardie storiche – di nuovo, il nome Lacerba e il logo ispirato ai segni di Cocteau. Tutta o quasi la grafica delle nostre edizioni è improntata a questo concetto. Ricontestualizzando frammenti iconografici e ponendoli a contrastante accompagnamento di testi e musica, otteniamo nell’insieme un effetto a-temporale, con quella sorta di ambiguità e complessità abitualmente associate all’arte. E FREE riassume in se l’idea dell’edizione d’arte riprodotta in serie limitata, ma è anche feticcio/anti-feticcio nel momento in cui per accedere ai suoi contenuti la preziosa confezione deve per forza essere rotta, distruggendone così l’aura.
D: Il tema grafico varia ad ogni numero.
R: Fasolo si occupa dei primi due numeri. Lavora in maniera istintiva, in costante bilico fra estetica industriale e classicismo, influenzato dal Saville dell’epoca. Trovo brillante come riesca ad elaborare soluzioni inedite nell’uso delle immagini. Nel primo numero si impegna a dare coerenza a materiali incoerenti poiché graficamente prodotti da ognuno di noi. Nel secondo numero il suo lavoro è più chiaro e completo. Riesce a progettare il numero per intero o quasi, e il risultato complessivo è a tratti sorprendente. Dopo FREE8303 avviene la rottura con Fasolo e Spalck. I motivi oggi fanno sorridere, ma all’epoca sembrano insormontabili. Il progetto visivo di Industrie Discografiche Lacerba passa a Lapo Belmestieri, che con le proprie intuizioni ne segnerà da lì in avanti l’identità. Identità per cui Industrie Discografiche Lacerba diventa un piccolo caso nel panorama indipendente italiano ed europeo. Lapo ha una sensibilità diversa da Maurizio. Avverte e si appropria del continuo mutare della cultura visiva dell’epoca. Ha molteplici punti di riferimento. Mescola i generi e i linguaggi. Usa tecniche miste.
Inizia così un lungo periodo di lavoro in tandem, io mi occupo di contattare, coordinare, scrivere, Lapo di creare l’immagine. Insieme elaboriamo scelte e strategie.
D: Paolo, allora spiega un po’ quali strumenti usate, tu e Lapo?
R: Lo strumento principale è un’ispirata decontestualizzazione. Ovvero una versione naive del détournement situazionista, tattica ludica centrata sul saccheggio creativo di elementi preesistenti. Utilizziamo immagini recuperate da fonti varie con l’obiettivo di creare, insieme ai testi e alla musica, un originale “contesto emotivo”. Lapo è decisamente talentuoso nell’accostare e/o sovrapporre e/o contrapporre il disegno e la pittura alla fotografia, procedendo parallelamente ad una propria personale ricerca sugli effetti della manipolazione delle font. Le tecniche sono ovviamente analogiche. Macchina da scrivere, nastro magnetico, carta colla e forbici. L’errore e l’imperfezione fanno parte del gioco. E’ puro artigianato.
D: Parliamo un po’ delle interviste , come avvengono? Dopo i concerti o andando a trovare i musicisti? Dai racconta …
R: In realtà l’unico numero che riporta delle interviste è FREE8303, in parte utilizzate come frammenti e citazioni. Il numero esce dopo un breve soggiorno a Londra. Partiamo con un elenco di contatti forniti da Baroni e altri. Visitiamo, intervistandoli, Chris and Cosey, gli SPK e i Nocturnal Emissions. Convinciamo gli Schleimer K a darci un brano per il singolo. Consegniamo una copia di FREE8212 alla segretaria di John Peel, che ci assicura il passaggio radiofonico, e Rough Trade ce ne compra ben cinque copie. D’altronde la fanzine non è tradotta in inglese, lo sarà solo in seguito, e il singolo è uno split di due band italiane sconosciute.
D: E’ anche così che prendi contatto per pubblicare dei brani di musicisti? Che poi sono sempre inediti. Le registrazioni come arrivano? Hai carta bianca?
R: Il mio lavoro di giornalista per Rockerilla e altre testate mi porta a conoscere personalmente tanti gruppi. Però, inaspettatamente, funziona meglio il contatto tramite posta. Infatti i brani promessi da Section25, Durutti Column e Virgin Prunes, concordati di persona dopo un’intervista, si perdono nel mare di lettere e solleciti inviati. Mentre un bellissimo brano come Leaving dei norvegesi Fra Lippo Lippi arriva dopo un breve scambio epistolare. Di lì a poco il gruppo firmerà per la Virgin inglese diventando icona del pop anni ottanta in mezzo mondo.
Sì, il materiale è sempre inedito e solo successivamente viene ripubblicato. L’unico brano che non ha mai visto la luce in una diversa edizione è Whiter dei Pankow. Cerco di abbinare gruppi che siano in sintonia con il tema sottinteso del numero in preparazione. Ma come capirai molto è dovuto anche al caso. Ognuno dei singoli split ha una sua storia, per non parlare dei singoli mai pubblicati per vicissitudini varie.
D: Sono rimasti dei numeri di Free da pubblicare? Se si, perché?
R: Ci sono almeno due numeri che non vedono la luce. Sono solo idee abbozzate. FREE1984 avrebbe dovuto essere più ricco, con allegato un 10” invece del solito singolo. Questo formato di transizione fra il singolo e l’album ci affascina. Abbiamo già Portion Control, Die Form e Rinf. Nel frattempo arriva un brano di Coil The sewage worker’s birthday party che sarebbe stato incluso nel loro album di debutto in una versione leggermente diversa, e un bel brano solo strumentale di Twin Vision, spin-off degli SPK. Per completare il mini- album contiamo su di un brano dei Virgin Prunes che non arriverà mai. Credo che alla fine non ce la siamo sentita di investire su di una edizione ancora più costosa delle precedenti senza avere almeno un nome di forte richiamo. Il tempo scorre e decidiamo di proseguire sulla strada dell’EP singolo, lasciando indietro il brano di Coil che non ci convince e che non è realmente inedito. Geff Rushton non ci perdona questa approssimazione e mi scrive una lettera dai toni incandescenti quando esce FREE1985sect.2. L’altro episodio è un numero che avrebbe dovuto fare il pari con FREE1985sect.2.
Pensiamo ad un numero ispirato all’immaginario infantile. Vini Reilly, dopo una lunga chiacchierata, mi confida con il suo abituale candore che un intero album di Durutti Column per Factory Benelux è rimasto inedito e che potrebbe darmi uno di questi brani. Lapo contatta Virna Lindt. Siamo entrambi conquistati dall’immagine e dal suono della Compact Organization. Un lavoro molto preciso su di una certa estetica pop. Ci riproveremo anche più avanti con Tot Taylor per IDL Pop Classics. Virna Lindt ha all’attivo Shiver un album strano, stiloso e fuori dal tempo. La segretaria della Compact ci risponde che Virna, per modica cifra, ci potrebbe dare la versione alternativa di un brano che verrà pubblicato sul suo prossimo album Play/Record.
Durutti Column+Virna Lindt: non se ne fa di nulla. Un progetto più impegnativo sta dirottando le nostre energie: Lazare dei Minox, il nostro primo vero disco.
Nei sei-sette anni di vita di IDL i progetti rimasti sulla carta sono molti. In quest’ottica IDL è di fatto quasi pura speculazione teorica in quanto è maggiore il numero dei progetti archiviati – a volte ad un passo dalla realizzazione – rispetto a quelli che effettivamente vedono la luce. In una storia di quanto rimane stritolato nei meccanismi della nostra indolenza e dell’inefficienza distributiva ricorderei un’intero album di Minox con Blaine Reininger prodotto da Gilles Martin, un EP di Catherine Deneuve che interpreta canzoni di Gainsbourg, la brillante serie IDL Pop Classics e l’EP Wyndham Lewis degli Ultramarine, edito poi da Les Disques du Crépuscule, poco prima che questi diventino protagonisti della nuova elettronica minimale accompagnando Bjork in una trionfale tournee americana. Infine il canto del cigno di IDL: la già confermata e non avvenuta collaborazione di Minox con Sakamoto.
D: FREE e la parte commerciale: come ti sei organizzato con i distributori e i negozi?
R: La distribuzione è il vero, grande, irrisolvibile problema. Per un paio d’anni è un lavoro porta a porta: copie in conto vendita, annunci sui giornali, una manciata di sottoscrizioni e abbonamenti. Un vero disastro. Poi, come spesso accade, interviene il caso. Nel luglio del 1984 a Firenze si tiene il primo Independent Music Meeting. Un giovane discografico belga di belle speranze è in vacanza in Toscana. Viene a sapere del Meeting. E’ uno dei rari visitatori paganti. Arriva al nostro stand dove, fra abiti esposti e dischi incorniciati, effettivamente non si capisce bene chi siamo e di cosa ci occupiamo. Domanda, si incuriosisce, ascolta la prova di stampa dell’EP allegato a FREE1984setc.1. Vuole acquistare tutta la tiratura di 900 copie. E anche le rimanenti 150 di FREE8303. Io non ci credo. Siamo talmente abituati e non vendere mai più di cinque copie per volta che sentiamo puzzo di fregatura. Stiliamo e firmiamo un contratto seduta stante. Kenny Gates sta fondando PIAS Play It Again Sam che diventerà nel giro di pochi anni il più importante distributore europeo di musica indipendente. Le cose cominciano ad andare meglio. Ora ci possiamo dedicare a progetti più ambiziosi.
D: La stampa ufficiale come vede FREE? Hai contatti con le redazioni o i giornalisti?
R: La stampa generalista ci liquida come un fenomeno di costume. La stampa musicale invece è rappresentata da noi stessi. Vittore è capo redattore di Rockerilla, io e Pandin scriviamo sulla stessa testata. Federico Guglielmi del Mucchio Selvaggio è un instancabile promotore della cultura indipendente e sotterranea quindi parteggia istintivamente per iniziative come la nostra. Buscadero, Fare Musica, Rockstar sono mondi lontani ancorati ad un mercato morto e sepolto. Red Ronnie debutta con il deludente TuttiFrutti, primo episodio del suo incoerente ma duraturo lavoro a favore di un certo eclettismo pop spettacolare. Per la stampa nazionale di settore è decisamente un momento di transizione. Riceviamo maggiori attenzioni dai potenti settimanali musicali inglesi. Dave Henderson di Sounds ci contatta, vuole sapere cosa facciamo, vuole scrivere di noi.
D: C’è un numero a cui sei particolarmente affezionato?
R: Sono affezionato all’idea complessiva di Industrie Discografiche Lacerba. Segnalo a chi ci legge che all’epoca siamo non ancora ventenni. Oggi me ne stupisco. Mi piace pensare che queste produzioni rappresentino il microscopico tassello di un momento zero della nostra cultura giovanile. Mi fa sorridere l’ingenuità che a tratti ne emerge. Ma l’autorevolezza di questo come di altri progetti a così tanti anni di distanza è forse dettata proprio dalla convinzione che anima le nostre azioni di allora.
I quattro numeri di FREE sono uno differente dall’altro. FREE8212 segna la transizione da fanzine a qualcosa di diverso, è l’atto fondativo, ma è ancora un ibrido. FREE8303 ha già un’identità definita, è ben sviluppato e completo da tutti i punti di vista. FREE1984sect.1 è di nuovo un momento di passaggio, verso FREE1985sect.2 che abbandona completamente l’idea di fanzine in favore dell’oggetto contenitore. Questo accade in quattro anni. La tiratura cresce da 450 a 2.400 copie.
D: Perché decidi di smettere?
R: Produrre FREE è un grosso sforzo in termini organizzativi ed economici. Altri progetti sembrano più urgenti e interessanti. Ovvero il desiderio di fare il salto di qualità, da fanzine a etichetta discografica. Kenny Gates di PIAS, nostro distributore europeo, me lo rimprovera: avremmo dovuto continuare.
In realtà è finita anche per un altro motivo. Quel periodo è per noi una prima assoluta, tutto è proiettato verso il futuro, tutto accade velocemente ed instancabilmente, è un vortice elettrico, due anni significano un’immensità di tempo. Nel 1981 la musica è ancora sorprendente, già nel 1986 la fiamma si sta spegnendo.
Mi chiedo spesso che fine abbia fatto tutta quella energia. Mi interrogo sugli adolescenti di oggi, quelli che ho a portata di mano mi offrono una campionatura di buon livello. Oggi i ragazzi attingono al passato, usano repertori di trenta anni fa, uniscono stili, creano un linguaggio di frammenti, decontestualizzano e reinterpretano. Hanno però un atteggiamento passivo verso questa attività. Non innovano e raramente escono dagli schemi. Serenamente rassegnati ad un quotidiano perpetuo, fatto di stimoli senza peso, di desideri immediati e rapidamente deperibili. Forse è davvero questo il NOFUTURE urlato dal punk, ed è arrivato trenta anni dopo, ma ora è stabile e radicato. E mi rendo conto di quanto fosse difficile per noi diffondere e reperire le informazioni, di quanto fosse impegnativo mettere su una rete di contatti, trovare una distribuzione alle cose che facevamo, mentre oggi con internet e i social network tutto questo è veramente facile e possibile. Ma poi capisco che gran parte del fascino di quel periodo è proprio l’alone di mito creato dalla distanza in cui si sviluppavano le diverse scene. E le scene vivevano di questo mito, chi ascoltava un certo tipo di musica era un carbonaro, un diverso, uno strano che frequentava altri strani in luoghi anch’essi strani. E questo era bellissimo, era affermare la propria indipendenza, le proprie scelte che differivano da quelle dei nostri genitori, della massa dei nostri compagni di scuola che ascoltavano Baglioni o l’onda lunga dei cantautori.
Una rivoluzione silenziosa.
IDL – http://www.lacerba.eu/
Setacciando la rete – come dice Paolo – ecco la playlist da Youtube dedicata a Free e all’ IDL – Industrie Discografiche Lacerba:
Un ringraziamento speciale a Marco Pandin.
Per alcuni numeri in formato pdf puoi andare qui:
http://www.sullamaca.it/musica/free-da-fanzine-a-rivista-contenitore/
FREE era una fanzine che sia per la qualità dei contenuti che per la “forma“, la si poteva considerare una rivista propriamente “contenitore“.
A FREE era allegato un vinile originale.
Di FREE, parlando con un amico, lui mi disse: “… la mia fanzine dopo averla letta potevi anche buttarla. FREE no. La conservavi, la rileggevi.” Uno degli ideatori di FREE è stato Paolo Cesaretti, ora architetto e designer e con lui ho avuto la fortuna e il piacere di scambiare qualche domanda sulla rivista, su quello che ci stava dietro e attorno. Ovviamente stiamo trattando della scena musicale indipendente italiana e non degli anni ’80.
Le risposte possono sembrare un po’ lunghe , quasi dei racconti – del resto come in altre interviste di questo blog – ma a noi non importa, a noi piace così.
Domanda: FREE, un nome semplice, diretto e facile da pronunciare, perché?
Risposta: Free!, libero di dire ciò che pensi ma anche gratuito. Si, certo, inizialmente è una fanzine fotocopiata, distribuita gratuitamente. Da qui il nome. Capisco che oggi la free press sia un fenomeno generalmente accreditato, ma nell’81 è ancora una cosa piuttosto bizzarra, dal sapore vagamente militante. Siamo un gruppetto di compagni di scuola che ha desiderio di condivisione. Con grande ingenuità e aspettativa autoproduciamo una fanzine, la distribuiamo in qualche negozio di dischi, la inviamo alle due-tre radio di cui ci piacciono i programmi. Ne escono cinque numeri, non credo che la tiratura abbia mai superato il centinaio di copie a numero.
D: I primi numeri sono una fanzine tipica: fogli battuti a macchina da scrivere, loghi, foto e disegni tagliati e incollati …
R: Un vero atto d’amore adolescenziale per la musica. Non esiste una linea editoriale. Semplicemente l’idea è quella di mettere insieme un giornale che parli di rock. Gli argomenti sono piuttosto vari, le foto ritagliate qua e là oppure scattate da noi ai concerti. Dal terzo numero iniziamo ad entrare nel giro. Il quinto ed ultimo fotografa sul nascere un momento in cui le cose stanno accadendo, la scena fiorentina si sta delineando, c’è molta energia in giro, molti gruppi si formano gli uni all’insaputa degli altri, nascono le prime conflittualità. Distribuiamo la fanzine alle semifinali del Festival Rock nazionale; è tarda primavera, al Casablanca ci ospita la Materiali Sonori che ha lì un piccolo banco. Ricordo ancora le unghie smaltate di rosa di Giampiero Bigazzi mentre mi porge una copia dell’album compilation Matita Emostatica.
D: Poi esce il primo numero di FREE stampato e con un allegato sonoro.
R: Accade in quattro momenti distinti.
1_I giorni a cavallo fra il 1981 e il 1982 me ne vado a Londra e accanto al mio albergo in Hogarth Road c’è questo strano negozio di dischi. Nel seminterrato hanno un intero reparto di dischi quadrifonici. Mi faccio coraggio e una sera entro, mi guardo un po’ in giro, ci sono tre clienti vestiti di nero e i due commessi alt-punk. Non vedo in giro un disco che mi sia vagamente familiare. I tre confabulano in italiano e mi sembrano piuttosto esperti. Domando. Ah, anche voi di Firenze! (…) Si, vado alla Rokkoteca Brighton (…) Noi due suoniamo e lui ha un negozio di dischi (…) Come si chiama il gruppo?
Ho appena conosciuto i Pankow per caso, a Londra nella sede della 4AD.
2_Estate 1982, prendo contatto con Vittore Baroni. Vive a Forte dei Marmi con i genitori. E’ agosto, io vengo dalla spiaggia e sono in pantaloni corti, lui è Vittore Baroni, iconico e austero come lo sarà sempre. La sua camera è tappezzata di dischi sui quattro lati da pavimento a soffitto. E’ una mattinata luminosa. Quattro ore in cui imparo molto. Trax-Trux, Lt. Murnau, mail art, diy, Nocturnal Emissions, Piermario Ciani, Merzbow, RockZero, dischi giapponesi con copertine ed etichette fatte a mano, cassette, montagne di cassette autoprodotte, altri dischi che sembrano esistere solo lì. E poi fotocopie, soprattutto fotocopie, alcune addirittura a colori, collage fotocopiati, informazioni fotocopiate. E’ la prima volta che mi imbatto in un’idea di network artistico: c’è quotidianamente tutto un mondo di s cambi nella cassetta delle lettere di Via Raffaelli 2 a Forte dei Marmi. Con Vittore discutiamo di una fanzine stampata con un disco allegato. L’idea a lui piace, dice che mi aiuterà.
3_Qualche mese prima, alla Rokkoteca Brighton, hanno suonato i Diaframma. Incredibili. Di Ian Curtis non so ancora molto, ma Nicola è magnetico. I fratelli Cicchi sono potenti e compatti. Fiumani punk dentro. La Rokkoteca stipata, odore di fumo e sudore, luci blu e rosse, notturni urbani proiettati sullo sfondo. Un momento assoluto. Ne scrivo su Free!, li intervisto, vado alle loro prove, mi regalano il test pressing del loro primo singolo. Durante l’estate girello in macchina la sera con Fiumani. Parliamo molto, a casa sua, a casa mia. Gli propongo la mia idea della fanzine con il 45 giri split allegato. Al telefono Federico mi dice: va bene, a patto che sull’altro lato ci siano i Pankow o i Neon, nessun altro gruppo. Una visione precisa della collocazione dei Diaframma. In realtà mi spiazza perché avrei voluto inserire sull’altro lato Romy dei Polyactive, che a mio avviso è un gruppo di grande qualità ma sottostimato, ma mi fa anche felice perché per me Pankow e Neon sono irraggiungibili.
4_Infine: una sera d’ottobre dello stesso anno, in una cantina di Via Giusti a Firenze. Sono per la prima volta negli studi Polar SSS, dentro il mondo dei Pankow. Un mondo misterioso, come i loro bellissimi manifesti apparsi in giro in città, fondo bianco, immagine astratta in grigio, alternanza di caratteri cirillici e neoclassici. Scelte formali e di linguaggio lontane anni luce dalla tappezzeria multicolore che troneggia sui muri di una città italiana all’inizio degli anni ottanta.
Spiego a Fasolo la mia idea, la fanzine organizzata a schede, stampa in offset ma con gli impianti fotocopiati su acetato per contenere i costi, la confezione sigillata. Gli mostro una bozza della copertina. FREE – un tutto maiuscolo che renda il nome più grafico e meno banale, senza il frivolo punto esclamativo finale – 8212 – suggestione sistemica da produzione in serie, in realtà solo anno e mese, codifica ispirata alle realizzazioni di Trax.
Il primo numero di FREE nuova serie lo realizzo con Maurizio, che gli imprime un’identità visiva, ne detta le linee guida. I Diaframma e i Pankow registrano due brani inediti. Vinile blu o vinile nero? Nero certo, non stiamo realizzando un gadget. Le etichette del disco sono stampate su di una carta troppo sottile e si rompono in fase di incollaggio. Alla fine le copie consegnate sono 453. Troviamo una sarta che ci confeziona 450 buste di plastica. Di sera alla Polar SSS assembliamo schede e disco nella busta. La sarta poi sigilla il tutto.
D: IDL – Industrie Discografiche Lacerba nasce in contemporanea con il nuovo corso di FREE? L’etichetta poi produrrà molto materiale, indipendentemente da FREE.
R: Il disco in vinile è un oggetto assoluto. Include emozione, informazione, piacere tattile e visivo. E’ suono e superficie, almeno due lati di vinile e due o quattro o più supporti quadrati di carta da utilizzare. Offre ampie possibilità di sperimentazione e variazione sul tema. Produrre un disco significa emozionarsi ogni volta che arrivano gli scatoloni con l’oggetto finito. E’ inevitabile che succeda. C’ è troppa energia in giro per non cercare di fermarla, rappresentarla, diffonderla. Industrie (di nuovo il fascino dell’aspetto seriale e di un certo immaginario urbano) Discografiche (nessun equivoco, facciamo quei bellissimi oggetti) Lacerba (le avanguardie storiche, l’anno zero della rifondazione novecentesca delle arti. Un riferimento caro a tanta parte del post-punk). In fondo il nome, questo nome, è anche un gioco non privo di ironia.
Industrie Discografiche Lacerba nasce come editore di FREE ma si sviluppa come work in progress con una riformulazione costante del tema e degli obiettivi. Inizialmente, oltre a FREE, IDL produce libri, eventi, collezioni di moda pret a porter. In seguito il progetto si evolve più marcatamente verso la produzione discografica continuando a tracciare una strategia che leghi il contesto in cui opera ad un panorama internazionale d’idee. Questo porta alla realizzazione delle produzioni di Minox e Rinf nei rispettivi ambiti d’influenza – Bruxelles con Steven Brown e Gilles Martin per i primi, e Londra con Adrian Sherwood per i secondi – e, al contrario, a far incidere a Steven Brown – americano d’origine ed europeo per scelta – un’album tributo a Luigi Tenco. Con la stessa idea di sovrapposizione topologica disegnata su rotte invisibili Industrie Discografiche Lacerba ottiene per alcune settimane un posto nella TOP20 indipendente inglese con “Night Train” dei Dub Syndicate.
D: Gli aspetti che mi hanno colpito di FREE sono l’alta qualità degli articoli scritti, la forma grafica originale e i temi non sempre legati alla musica. Gli articoli, forse è riduttivo definirli così, sono dei piccoli saggi o analisi critiche sulla musica, sul cinema o addirittura sul fumetto. Tu coordini e scrivi, però ti avvali anche di alcuni giornalisti e musicisti, come Vittore Baroni o Alex Spalck dei Pankow…
R: Il taglio degli articoli vira dalla cronaca alla elaborazione critica nel momento in cui passiamo da un foglio d’informazione e immediata condivisione della scena locale ad un progetto più complesso – che oltretutto richiede un processo produttivo molto più articolato e lungo. Spesso il pezzo scritto diventa meno funzionale e maggiormente espressivo. I due estremi sono probabilmente proprio Baroni e Spalck. Il primo indagatore analitico e completista, l’altro narratore immaginifico.
Il progetto che va delineandosi si deve confrontare con iniziative similari. Punto di riferimento oltre alle edizioni di Trax sono Sordide Sentimental e la seminale cassetta compilation+booklet di Les Disques du Crépuscule From Bruxelles With Love. Quest’ultimo è un oggetto che non sposa l’approccio filosofico “alto” di Sordide Sentimental ma si propone come espressione della ricerca di un’estetica pop. Crépuscule è un progetto colto che utilizza il pop come linguaggio. Questa è la nostra collocazione. Vogliamo fare o almeno partecipare ad una rivoluzione estetica. Cerchiamo un nuovo rigore formale dopo gli anni della libertà espressiva a tutti i costi. Le nostre pubblicazioni parlano di questo senza parlarne esplicitamente ma lasciando spazio alla ricerca grafica e musicale, donando ai testi il ruolo di riflessione e costruzione di uno scenario, utilizzando l’oggetto assemblato come media. Non possiamo e non vogliamo fare informazione piuttosto costruire o contribuire ad una scena, ad un progetto estetico ed emozionale.
La politica non ci interessa: l’estetica politica è profondamente ancorata agli anni settanta. Quegli anni settanta che in Italia sembra non debbano mai finire. Gli anni che dividono i ragazzi in freak e discotecari. E poi abbiamo vissuto la nostra prima adolescenza nel periodo del terrorismo. Ogni attività politica è vista con sospetto e rifiuto.
Ci interessa piuttosto una certa idea di cooperazione, di primordiale network che unisca realtà affini. E questo avviene rapidamente. Insieme o appena dopo FREE nascono altre pubblicazioni che sposano in maniera istintiva un certo tipo di estetica e una visone trasversale dei temi da trattare. Cito a memoria Dancing Silhouettes di Paola Trimboli e Filippo Rizzi e la bellissima e colta Nero di Marco Formaioni. Schede, musica allegata, argomenti non solo musicali diventano il tratto distintivo di The Scream di Massimiliano Busti.
D: Hai citato alcuni “colleghi” fanzinari, in che rapporti sei con loro? Parlami un pò di più del loro lavoro.
R: Di solito è un rapporto che si basa sulle affinità e sullo scambio reciproco. Il fatto che FREE si presenti così diverso da quello che è il panorama corrente dell’editoria indipendente richiama su di noi l’attenzione di chi possiede una sensibilità assimilabile alla nostra. Quotidianamente arrivano per posta notizie di iniziative editoriali sotterranee da altre città italiane ed europee. Con alcuni si instaurano bellissimi e duraturi rapporti epistolari. Penso a Paola Trimboli e a quanta intelligenza c’è nelle sue lettere. Messina è lontanissima eppure, forse proprio per questo, Dancing Silhouttes e i Victrola sembrano vivere di una luce diversa, distanti da tutto, anche da un certo conformismo. Ma mi scrivono ripetutamente anche personaggi bizzarri e deliranti come ad esempio Blu Schizofrenico alias Carlo Antonelli attuale direttore di Rolling Stone. Nascono collaborazioni con Daniele Ciullini per la sua Nouances, con Tribal Cabaret di Alessandra Giombini e VM di Alessandro Limonta, entrambe fanzine dotate di un’identità propria, che puntando sull’allegato sonoro fotografano un momento di evoluzione della scena musicale indipendente nazionale. Infine Marco Pandin, ammirevole per la determinazione e concretezza con cui porta avanti il progetto Rockgarage. Sebbene le nostre ragioni, modalità e obiettivi siano diversi ci teniamo costantemente in contatto scambiandoci informazioni e progettando sinergie. Marco produrrà No Inzro dei Degada Saf che, insieme al primo album dei Plasticost, rimane uno dei dischi più interessanti e meno allineati del periodo.
D: La scelta degli articoli da pubblicare o da suggerire per la pubblicazione come avviene?
R: In questo c’è una grande libertà. Ognuno può parlare di ciò che vuole, rimanendo sicuramente in sintonia con il progetto generale. Tutto accade in maniera piuttosto naturale. E’ un gruppo di persone per cui nutro una grande stima, persone curiose piene di interessi condivisi. Casomai nei quattro numeri di FREE si assiste ad un graduale cambiamento di “umore”, da regesto della cultura gotico/industrial a progetto tematico in netta antitesi con quell’immaginario che ormai è diventato fortemente codificato. Inesorabilmente il numero delle pagine si assottiglia e, quella che a questo punto si fa fatica a definire fanzine, diviene un oggetto composto da una scatola, un booklet, un disco, alcune cartoline.
D: La grafica poi di FREE è bellissima ed originale, pensata poi a contenere un “oggetto”.
R: FREE è nel suo insieme un progetto che opera in un’area che potremmo definire di sovversione del prodotto culturale. Ovvero il prodotto non esiste più come “distrazione” che impone all’individuo le sue logiche, ma è qualcosa da esplorare e con cui interagire. Non è più intrattenimento o arte piuttosto una miscela di entrambe. FREE, elabora un taglio compositivo trasversale, oggetto dalla struttura ipertestuale (scatola / booklet / cartoline / disco) assemblato come un contenitore in equilibrio per risonanza fra immagine e contenuto: testi critici, poesia, mail-art, musica. L’obiettivo è la ricerca di un’apertura nella barriera iconografica di corrente o di controcorrente che sia. FREE e Industrie Discografiche Lacerba sono espressione di un insofferente disinteresse nei confronti del postmoderno di cui disconosciamo il manipolato recupero del canone classico, mentre ci affascinano il movimento moderno e le avanguardie storiche – di nuovo, il nome Lacerba e il logo ispirato ai segni di Cocteau. Tutta o quasi la grafica delle nostre edizioni è improntata a questo concetto. Ricontestualizzando frammenti iconografici e ponendoli a contrastante accompagnamento di testi e musica, otteniamo nell’insieme un effetto a-temporale, con quella sorta di ambiguità e complessità abitualmente associate all’arte. E FREE riassume in se l’idea dell’edizione d’arte riprodotta in serie limitata, ma è anche feticcio/anti-feticcio nel momento in cui per accedere ai suoi contenuti la preziosa confezione deve per forza essere rotta, distruggendone così l’aura.
D: Il tema grafico varia ad ogni numero.
R: Fasolo si occupa dei primi due numeri. Lavora in maniera istintiva, in costante bilico fra estetica industriale e classicismo, influenzato dal Saville dell’epoca. Trovo brillante come riesca ad elaborare soluzioni inedite nell’uso delle immagini. Nel primo numero si impegna a dare coerenza a materiali incoerenti poiché graficamente prodotti da ognuno di noi. Nel secondo numero il suo lavoro è più chiaro e completo. Riesce a progettare il numero per intero o quasi, e il risultato complessivo è a tratti sorprendente. Dopo FREE8303 avviene la rottura con Fasolo e Spalck. I motivi oggi fanno sorridere, ma all’epoca sembrano insormontabili. Il progetto visivo di Industrie Discografiche Lacerba passa a Lapo Belmestieri, che con le proprie intuizioni ne segnerà da lì in avanti l’identità. Identità per cui Industrie Discografiche Lacerba diventa un piccolo caso nel panorama indipendente italiano ed europeo. Lapo ha una sensibilità diversa da Maurizio. Avverte e si appropria del continuo mutare della cultura visiva dell’epoca. Ha molteplici punti di riferimento. Mescola i generi e i linguaggi. Usa tecniche miste.
Inizia così un lungo periodo di lavoro in tandem, io mi occupo di contattare, coordinare, scrivere, Lapo di creare l’immagine. Insieme elaboriamo scelte e strategie.
D: Paolo, allora spiega un po’ quali strumenti usate, tu e Lapo?
R: Lo strumento principale è un’ispirata decontestualizzazione. Ovvero una versione naive del détournement situazionista, tattica ludica centrata sul saccheggio creativo di elementi preesistenti. Utilizziamo immagini recuperate da fonti varie con l’obiettivo di creare, insieme ai testi e alla musica, un originale “contesto emotivo”. Lapo è decisamente talentuoso nell’accostare e/o sovrapporre e/o contrapporre il disegno e la pittura alla fotografia, procedendo parallelamente ad una propria personale ricerca sugli effetti della manipolazione delle font. Le tecniche sono ovviamente analogiche. Macchina da scrivere, nastro magnetico, carta colla e forbici. L’errore e l’imperfezione fanno parte del gioco. E’ puro artigianato.
D: Parliamo un po’ delle interviste , come avvengono? Dopo i concerti o andando a trovare i musicisti? Dai racconta …
R: In realtà l’unico numero che riporta delle interviste è FREE8303, in parte utilizzate come frammenti e citazioni. Il numero esce dopo un breve soggiorno a Londra. Partiamo con un elenco di contatti forniti da Baroni e altri. Visitiamo, intervistandoli, Chris and Cosey, gli SPK e i Nocturnal Emissions. Convinciamo gli Schleimer K a darci un brano per il singolo. Consegniamo una copia di FREE8212 alla segretaria di John Peel, che ci assicura il passaggio radiofonico, e Rough Trade ce ne compra ben cinque copie. D’altronde la fanzine non è tradotta in inglese, lo sarà solo in seguito, e il singolo è uno split di due band italiane sconosciute.
D: E’ anche così che prendi contatto per pubblicare dei brani di musicisti? Che poi sono sempre inediti. Le registrazioni come arrivano? Hai carta bianca?
R: Il mio lavoro di giornalista per Rockerilla e altre testate mi porta a conoscere personalmente tanti gruppi. Però, inaspettatamente, funziona meglio il contatto tramite posta. Infatti i brani promessi da Section25, Durutti Column e Virgin Prunes, concordati di persona dopo un’intervista, si perdono nel mare di lettere e solleciti inviati. Mentre un bellissimo brano come Leaving dei norvegesi Fra Lippo Lippi arriva dopo un breve scambio epistolare. Di lì a poco il gruppo firmerà per la Virgin inglese diventando icona del pop anni ottanta in mezzo mondo.
Sì, il materiale è sempre inedito e solo successivamente viene ripubblicato. L’unico brano che non ha mai visto la luce in una diversa edizione è Whiter dei Pankow. Cerco di abbinare gruppi che siano in sintonia con il tema sottinteso del numero in preparazione. Ma come capirai molto è dovuto anche al caso. Ognuno dei singoli split ha una sua storia, per non parlare dei singoli mai pubblicati per vicissitudini varie.
D: Sono rimasti dei numeri di Free da pubblicare? Se si, perché?
R: Ci sono almeno due numeri che non vedono la luce. Sono solo idee abbozzate. FREE1984 avrebbe dovuto essere più ricco, con allegato un 10” invece del solito singolo. Questo formato di transizione fra il singolo e l’album ci affascina. Abbiamo già Portion Control, Die Form e Rinf. Nel frattempo arriva un brano di Coil The sewage worker’s birthday party che sarebbe stato incluso nel loro album di debutto in una versione leggermente diversa, e un bel brano solo strumentale di Twin Vision, spin-off degli SPK. Per completare il mini- album contiamo su di un brano dei Virgin Prunes che non arriverà mai. Credo che alla fine non ce la siamo sentita di investire su di una edizione ancora più costosa delle precedenti senza avere almeno un nome di forte richiamo. Il tempo scorre e decidiamo di proseguire sulla strada dell’EP singolo, lasciando indietro il brano di Coil che non ci convince e che non è realmente inedito. Geff Rushton non ci perdona questa approssimazione e mi scrive una lettera dai toni incandescenti quando esce FREE1985sect.2. L’altro episodio è un numero che avrebbe dovuto fare il pari con FREE1985sect.2.
Pensiamo ad un numero ispirato all’immaginario infantile. Vini Reilly, dopo una lunga chiacchierata, mi confida con il suo abituale candore che un intero album di Durutti Column per Factory Benelux è rimasto inedito e che potrebbe darmi uno di questi brani. Lapo contatta Virna Lindt. Siamo entrambi conquistati dall’immagine e dal suono della Compact Organization. Un lavoro molto preciso su di una certa estetica pop. Ci riproveremo anche più avanti con Tot Taylor per IDL Pop Classics. Virna Lindt ha all’attivo Shiver un album strano, stiloso e fuori dal tempo. La segretaria della Compact ci risponde che Virna, per modica cifra, ci potrebbe dare la versione alternativa di un brano che verrà pubblicato sul suo prossimo album Play/Record.
Durutti Column+Virna Lindt: non se ne fa di nulla. Un progetto più impegnativo sta dirottando le nostre energie: Lazare dei Minox, il nostro primo vero disco.
Nei sei-sette anni di vita di IDL i progetti rimasti sulla carta sono molti. In quest’ottica IDL è di fatto quasi pura speculazione teorica in quanto è maggiore il numero dei progetti archiviati – a volte ad un passo dalla realizzazione – rispetto a quelli che effettivamente vedono la luce. In una storia di quanto rimane stritolato nei meccanismi della nostra indolenza e dell’inefficienza distributiva ricorderei un’intero album di Minox con Blaine Reininger prodotto da Gilles Martin, un EP di Catherine Deneuve che interpreta canzoni di Gainsbourg, la brillante serie IDL Pop Classics e l’EP Wyndham Lewis degli Ultramarine, edito poi da Les Disques du Crépuscule, poco prima che questi diventino protagonisti della nuova elettronica minimale accompagnando Bjork in una trionfale tournee americana. Infine il canto del cigno di IDL: la già confermata e non avvenuta collaborazione di Minox con Sakamoto.
D: FREE e la parte commerciale: come ti sei organizzato con i distributori e i negozi?
R: La distribuzione è il vero, grande, irrisolvibile problema. Per un paio d’anni è un lavoro porta a porta: copie in conto vendita, annunci sui giornali, una manciata di sottoscrizioni e abbonamenti. Un vero disastro. Poi, come spesso accade, interviene il caso. Nel luglio del 1984 a Firenze si tiene il primo Independent Music Meeting. Un giovane discografico belga di belle speranze è in vacanza in Toscana. Viene a sapere del Meeting. E’ uno dei rari visitatori paganti. Arriva al nostro stand dove, fra abiti esposti e dischi incorniciati, effettivamente non si capisce bene chi siamo e di cosa ci occupiamo. Domanda, si incuriosisce, ascolta la prova di stampa dell’EP allegato a FREE1984setc.1. Vuole acquistare tutta la tiratura di 900 copie. E anche le rimanenti 150 di FREE8303. Io non ci credo. Siamo talmente abituati e non vendere mai più di cinque copie per volta che sentiamo puzzo di fregatura. Stiliamo e firmiamo un contratto seduta stante. Kenny Gates sta fondando PIAS Play It Again Sam che diventerà nel giro di pochi anni il più importante distributore europeo di musica indipendente. Le cose cominciano ad andare meglio. Ora ci possiamo dedicare a progetti più ambiziosi.
D: La stampa ufficiale come vede FREE? Hai contatti con le redazioni o i giornalisti?
R: La stampa generalista ci liquida come un fenomeno di costume. La stampa musicale invece è rappresentata da noi stessi. Vittore è capo redattore di Rockerilla, io e Pandin scriviamo sulla stessa testata. Federico Guglielmi del Mucchio Selvaggio è un instancabile promotore della cultura indipendente e sotterranea quindi parteggia istintivamente per iniziative come la nostra. Buscadero, Fare Musica, Rockstar sono mondi lontani ancorati ad un mercato morto e sepolto. Red Ronnie debutta con il deludente TuttiFrutti, primo episodio del suo incoerente ma duraturo lavoro a favore di un certo eclettismo pop spettacolare. Per la stampa nazionale di settore è decisamente un momento di transizione. Riceviamo maggiori attenzioni dai potenti settimanali musicali inglesi. Dave Henderson di Sounds ci contatta, vuole sapere cosa facciamo, vuole scrivere di noi.
D: C’è un numero a cui sei particolarmente affezionato?
R: Sono affezionato all’idea complessiva di Industrie Discografiche Lacerba. Segnalo a chi ci legge che all’epoca siamo non ancora ventenni. Oggi me ne stupisco. Mi piace pensare che queste produzioni rappresentino il microscopico tassello di un momento zero della nostra cultura giovanile. Mi fa sorridere l’ingenuità che a tratti ne emerge. Ma l’autorevolezza di questo come di altri progetti a così tanti anni di distanza è forse dettata proprio dalla convinzione che anima le nostre azioni di allora.
I quattro numeri di FREE sono uno differente dall’altro. FREE8212 segna la transizione da fanzine a qualcosa di diverso, è l’atto fondativo, ma è ancora un ibrido. FREE8303 ha già un’identità definita, è ben sviluppato e completo da tutti i punti di vista. FREE1984sect.1 è di nuovo un momento di passaggio, verso FREE1985sect.2 che abbandona completamente l’idea di fanzine in favore dell’oggetto contenitore. Questo accade in quattro anni. La tiratura cresce da 450 a 2.400 copie.
D: Perché decidi di smettere?
R: Produrre FREE è un grosso sforzo in termini organizzativi ed economici. Altri progetti sembrano più urgenti e interessanti. Ovvero il desiderio di fare il salto di qualità, da fanzine a etichetta discografica. Kenny Gates di PIAS, nostro distributore europeo, me lo rimprovera: avremmo dovuto continuare.
In realtà è finita anche per un altro motivo. Quel periodo è per noi una prima assoluta, tutto è proiettato verso il futuro, tutto accade velocemente ed instancabilmente, è un vortice elettrico, due anni significano un’immensità di tempo. Nel 1981 la musica è ancora sorprendente, già nel 1986 la fiamma si sta spegnendo.
Mi chiedo spesso che fine abbia fatto tutta quella energia. Mi interrogo sugli adolescenti di oggi, quelli che ho a portata di mano mi offrono una campionatura di buon livello. Oggi i ragazzi attingono al passato, usano repertori di trenta anni fa, uniscono stili, creano un linguaggio di frammenti, decontestualizzano e reinterpretano. Hanno però un atteggiamento passivo verso questa attività. Non innovano e raramente escono dagli schemi. Serenamente rassegnati ad un quotidiano perpetuo, fatto di stimoli senza peso, di desideri immediati e rapidamente deperibili. Forse è davvero questo il NOFUTURE urlato dal punk, ed è arrivato trenta anni dopo, ma ora è stabile e radicato. E mi rendo conto di quanto fosse difficile per noi diffondere e reperire le informazioni, di quanto fosse impegnativo mettere su una rete di contatti, trovare una distribuzione alle cose che facevamo, mentre oggi con internet e i social network tutto questo è veramente facile e possibile. Ma poi capisco che gran parte del fascino di quel periodo è proprio l’alone di mito creato dalla distanza in cui si sviluppavano le diverse scene. E le scene vivevano di questo mito, chi ascoltava un certo tipo di musica era un carbonaro, un diverso, uno strano che frequentava altri strani in luoghi anch’essi strani. E questo era bellissimo, era affermare la propria indipendenza, le proprie scelte che differivano da quelle dei nostri genitori, della massa dei nostri compagni di scuola che ascoltavano Baglioni o l’onda lunga dei cantautori.
Una rivoluzione silenziosa.
IDL – http://www.lacerba.eu/
Setacciando la rete – come dice Paolo – ecco la playlist da Youtube dedicata a Free e all’ IDL – Industrie Discografiche Lacerba:
Un ringraziamento speciale a Marco Pandin.
Per alcuni numeri in formato pdf puoi andare qui:
http://www.sullamaca.it/musica/free-da-fanzine-a-rivista-contenitore/
Einstürzende Neubauten: testi tradotti in italiano da...
Un pò di anni fa googlando nel web mi capitò di trovare una homepage insolita e curiosa: il sito di Daniela Ceglie. La parte più interessante è dedicata al gruppo di Blixa Bargeld gli Einstürzende Neubauten dove troviamo tutti i testi originali e a fianco la traduzione in italiano. Un lavoro enorme dato che la che la discografia del gruppo comincia dagli anni ottanta. L'autore dei testi è il leader carismatico, Blixa Bargeld, che è pure compositore di musiche per colonne sonore di film, di opere teatrali e balletti; oltre ad essere stato il chitarrista dei Bad Seeds, il gruppo di Nick Cave.
L'indirizzo del sito di Daniela Ceglie è: http://www.danielaceglie.com/neubauten/
Allora ho pensato di rivolgere qualche domanda a Daniela e di inserire quella vecchia intervista qui nel blog.
D: Daniela come ti è venuta l'idea di tradurre i testi degli Einstürzende Neubauten?
R: Fin da ragazzina ho sempre avuto la passione per i testi delle canzoni. Non appena comprato un disco, il primo bersaglio della mia attenzione era sempre il booklet dei testi. Mi piaceva capire quel che ascoltavo. Tutto ciò è ovviamente accaduto anche e soprattutto per i Neubauten, visto che da 12 anni sono il mio gruppo preferito. All'inizio mi accontentavo di tradurre in italiano dalla versione inglese che, nei dischi, affiancava il testo tedesco, ma poi ho pensato che sarebbe stato ben più interessante confrontarmi col testo originale. E così, nel 94 dall'oggi al domani ho cominciato a studiare il tedesco. Il mio primo esercizio di traduzione è stato il libro Hör Mit Schmerzen, di Klaus Maeck, che narrava la storia del gruppo dalle origini fino agli anni Novanta. A proposito, lo consiglio vivamente agli appassionati che se lo fossero lasciati sfuggire, tra l'altro so che ne esiste anche una versione aggiornata.
D: Quando hai iniziato quest'opera di traduzione?
R: Nell'agosto del 2000, ancora emozionata dopo il loro concerto di Urbino. In quell'occasione ho avuto anche la grande opportunità di conoscerli di persona, esperienza che ho poi ripetuto al concerto di Roma, un mese dopo. Ero talmente estasiata, dopo Urbino, che non appena tornata a casa ho ritirato fuori tutti i dischi dei Neubauten che avevo, mi sono ritrovata fra le mani i testi e alcune traduzioni che avevo già fatto in passato... da lì a pensare di tradurre anche gli altri testi il passo è stato breve. Non so dirti esattamente quanto ci ho impiegato, ricordo che sono stata su dalla mattina fino a notte fonda per un bel po' di giorni, con la scrivania ingombra di dizionari e di varie altre risorse. Per il concerto di settembre avevo già messo tutto online, quindi diciamo che mi ci sono volute circa tre settimane a tempo pieno. Come ho detto, però, per molti testi la traduzione era stata già fatta da tempo, si trattava solo di rivederla un po'.
D: Quali sono state le difficoltà che hai trovato?
R: Beh, in generale non si può certo dire che i testi di Blixa siano di una chiarezza cristallina, anzi sono piuttosto involuti, specie andando indietro nel tempo ai primi dischi (Kollaps, ma soprattutto "Fuenf auf der nach..."). Lo scoglio maggiore era ricondurre tutto a un filo più o meno logico di pensieri, cosa non sempre possibile perchè a quanto ne so (se non erro questo vien detto in un'intervista nella videocassetta "Liebeslieder") molti dei testi di quel periodo erano pura improvvisazione: Blixa si metteva al microfono e cominciava a tirar fuori suoni e parole, che poi venivano trascritti... E poi considera che a quell'epoca c'era il non trascurabile effetto prodotto dalle droghe... Dunque molto spesso non si può riconoscere una vera e propria metrica nel testo, nè tantomeno un filo logico. Inoltre, Blixa ha sempre avuto un gusto particolare per costruzioni grammaticali atipiche (rispetto alla schematicità imposta dalla lingua tedesca), citazioni, doppi sensi di non sempre facile resa in italiano. Comunque, ci ho provato, e spero di aver fatto un buon lavoro.
D: Avevi pensato sin dall'inzio di pubblicare il tuo lavoro in un sito web?
R: No, come ho detto ho sempre fatto le traduzioni ad uso esclusivamente personale. D'altra parte non mi risultava che ci fosse una risorsa italiana preesistente così completa sui testi dei Neubauten. E allora, dato che da qualche mese avevo messo su il mio sito personale, ho pensato di utilizzare quello spazio per mettere a disposizione di tutti le mie traduzioni.
D: Dagli anni ottanta al 2000 con "Silence is sexy", la ricerca musicale degli Einstürzende Neubauten continua in molte direzioni. Si può dire lo stesso per i testi?
R: Sì, senza dubbio. Blixa è cresciuto molto come autore, d'altra parte basta confrontare i primi testi con gli ultimi per vedere quanto il suo modo di scrivere si sia sempre più raffinato. Ha sempre avuto un talento speciale per costruire immagini poetiche insolite... Pensa solo a testi "storici" e bellissimi come "Halber Mensch", "Ich Bin's", "Z.N.S.", "Letztes Biest", "Yü-Gung"... Ma questo suo talento vien fuori molto meglio adesso, sfrondato dell'improvvisazione degli inizi. I testi si son fatti via via più studiati, sia nella forma che nella sostanza dei concetti espressi. I primi "sintomi" di questa maturità artistica si sentono già in "Haus der Lüge", ma la svolta definitiva a parer mio è arrivata con il successivo "Tabula Rasa". Da quanto ho potuto constatare, è a partire da quel disco che la creatività poetica di Blixa ha trovato finalmente il suo sbocco più felice, con testi più costruiti, più narrati, più complessi e affascinanti, che tradiscono anche una cultura letteraria, umana e artistica veramente notevole. Ha mantenuto il gusto per la ricerca letteraria (quasi mai usa la parola o l'espressione d'uso più corrente per esprimere un pensiero) per le doppie (talvolta triple!) letture e per le citazioni d'ogni genere, aspetto questo che io ho cercato di rispettare infarcendo le mie traduzioni di note a margine, affinchè poco o nulla andasse perduto.
D: Inoltre Blixa Bargeld ha scritto un libro di poesie...
R: Sì, si tratta di "Stimme Frisst Feuer", che risale agli anni ottanta. Purtroppo non fa parte della mia collezione... E poi c'è anche "Texte für Einstürzende Neubauten/Text for Collapsing New Buildings", un interessantissimo libro dalla copertina fosforescente che contiene appunto tutti i testi in tedesco e inglese e una splendida intervista a Blixa. Solo che non so se si trovi in Italia. A me l'ha regalato Klaus Maeck... :o)
D: La scrittura dei testi segue delle regole ben precise o...
R: Non saprei dirti. Se ci sono, queste regole variano parecchio da un disco all'altro... L'unico tratto comune che ho sempre notato è l'utilizzo molto frequente di metafore e altre figure retoriche, e anche l'uso "sonoro" della lingua tedesca. Il testo è costruito in modo che anche il suono stesso di ciascuna parola, la sua pronuncia, faccia parte integrante del progetto musicale generale. Per questo vi sono spesso parole di uso non comune, allitterazioni, rime interne...
D: Che idea di ti sei fatta dell'artista Blixa Bargeld?
R: Hehehe, spero tu non voglia un giudizio obiettivo da me, a questo punto sarà chiaro a tutti che lo adoro! Comunque, ammiro moltissimo la sua fame di conoscenza, che l'ha portato a sperimentare sempre, uscendo dagli schemi non già per il gusto di essere "alternativo", ma per creare qualcosa di veramente nuovo. Il progetto Einstürzende Neubauten è iniziato ventun anni fa e non si è mai fermato, non ha mai prodotto un disco uguale all'altro, non si è mai stancato di spostare sempre più in la i confini del concetto stesso di musica... Beh, su di me tutto ciò ha un fascino particolare.... aggiungi poi il fascino personale di Blixa, che ho avuto modo di sperimentare quando l'ho incontrato... E' una persona veramente magnetica, se non fosse anche squisitamente gentile metterebbe davvero in soggezione...
D: So che esiste un libro italiano sugli Einstürzende Neubauten solo con una parte dei testi, lo conosci?
R: Ma certo, il mitico libretto di Stampa Alternativa! Ricordo che fu pubblicato in concomitanza dell'uscita di Tabula Rasa. Certo, mi è stato molto utile come fonte d' informazioni, come del resto anche il libro di Klaus Maeck. Per quanto riguarda le traduzioni, effettivamente mi fece venire l'idea. Fu allora che cominciai a tradurre tutti i testi che avevo. Poi però il lavoro definitivo, come ho detto, è stato fatto l'anno scorso.
Riferimenti:
http://www.neubauten.org/
http://www.danielaceglie.com/neubauten/
http://it.wikipedia.org/wiki/Einst%C3%BCrzende_Neubauten
http://www.fromthearchives.com/
La playlist dal tubo dedicata agli E.N. :
Brown Plays Tenco
Steven Brown (membro fondatore dei Tuxedomoon) chiese ad un amico fidato di suggerirgli alcuni cantanti bravi degli anni sessanta. Ascoltando una cassetta trovata in un negozio sulla riviera Adriatica, la prima canzone che emozionò Brown fu “Ciao amore ciao”.
Dalle note interne del disco leggiamo: “Una strana musica melanconica sposata ad una luccicante produzione… accompagnata da un basso grave e da un tempo di rullante stile slow-rock, che irrompe in un maestoso ritornello, frenetico e corale: un hit maledetto.”
Brown restò colpito anche dalla vicenda artistica e umana del cantautore genovese. Il frutto di questo “colpo di fulmine” è lo splendido vinile a 33 rpm, dove canta anche altri classici di Luigi Tenco.
Il musicista americano affronta le canzoni rispettandole e interpretandole con la sua sensibilità e personalità. Sembra aver capito a fondo le canzoni e fa commuovere sentirlo mentre le canta. Un disco di classe e profondo, con dei suoni moderni e attuali, che ci fa rimpiangere, ancora una volta, la prematura scomparsa di Luigi Tenco.
Una nota curiosa riguarda l’accento americano di Steven Brown: ogni volta che lo ascolto mi sembra che aggiunga quel qualcosa in più alle canzoni, quel qualcosa di ineffabile rendendo queste interpretazioni ancora più curiose e suggestive, … uniche?
L’etichetta discografica che pubbblicò il vinile è la IDL - Industrie Discografiche Lacerba che al tempo stampò dischi e la fanzine FREE ... però questa è un altra storia su cui presto ritornerò.
Restate in contatto.
STEVEN BROWN “Brown plays Tenco”
1988, IDL - Industrie Discografche Lacerba
P.S.
L'album è stato ristampato con l'aggiunta di inediti dal vivo, la ristampa è questa: http://www.ltmrecordings.com/sbcat.html
Ecco invece la playlist dal "tubo" .
Dalle note interne del disco leggiamo: “Una strana musica melanconica sposata ad una luccicante produzione… accompagnata da un basso grave e da un tempo di rullante stile slow-rock, che irrompe in un maestoso ritornello, frenetico e corale: un hit maledetto.”
Brown restò colpito anche dalla vicenda artistica e umana del cantautore genovese. Il frutto di questo “colpo di fulmine” è lo splendido vinile a 33 rpm, dove canta anche altri classici di Luigi Tenco.
Il musicista americano affronta le canzoni rispettandole e interpretandole con la sua sensibilità e personalità. Sembra aver capito a fondo le canzoni e fa commuovere sentirlo mentre le canta. Un disco di classe e profondo, con dei suoni moderni e attuali, che ci fa rimpiangere, ancora una volta, la prematura scomparsa di Luigi Tenco.
Una nota curiosa riguarda l’accento americano di Steven Brown: ogni volta che lo ascolto mi sembra che aggiunga quel qualcosa in più alle canzoni, quel qualcosa di ineffabile rendendo queste interpretazioni ancora più curiose e suggestive, … uniche?
L’etichetta discografica che pubbblicò il vinile è la IDL - Industrie Discografiche Lacerba che al tempo stampò dischi e la fanzine FREE ... però questa è un altra storia su cui presto ritornerò.
Restate in contatto.
STEVEN BROWN “Brown plays Tenco”
1988, IDL - Industrie Discografche Lacerba
P.S.
L'album è stato ristampato con l'aggiunta di inediti dal vivo, la ristampa è questa: http://www.ltmrecordings.com/sbcat.html
Ecco invece la playlist dal "tubo" .
Black Dub
Ogni tanto qualche pesce pregiato scappa dalla rete. Mi è capitato con Black Dub, gruppo messo su da Daniel Lanois, famoso più come produttore (ultima collaborazione Le Noise con Neil Young) che come musicista. Black Dub è anche l'album omonimo, uscito alla fine del 2010, registrato in presa diretta nel salone della villa/studio di Lanois, posizionando i microfoni in modo da registrare gli strumenti tutti insieme in un'unica session; il tutto documentato da una serie di video. Al basso Daryl Johnson; alla batteria Brian Blade, e al canto l'autentica sorpresa costituita dalla giovane Trixie Whitley, figlia d'arte dalla voce calda.
Gruppo dal nome programmatico: black music con un vago accenno di sfumature dub, ma anche blues e jazz (radice comune del bassista e del batterista) e spruzzate di chitarra distorta con quel gusto funk sporco che non guasta mai. Suoni autentici senza tanti orpelli e appesantimenti da super-post-produzione.
Last Time, suonata dal vivo nel video sotto, è esemplificativa dello stile di questo album del marpione canadese che veleggia verso i sessanta. Buona pesca e buon ascolto.
Gruppo dal nome programmatico: black music con un vago accenno di sfumature dub, ma anche blues e jazz (radice comune del bassista e del batterista) e spruzzate di chitarra distorta con quel gusto funk sporco che non guasta mai. Suoni autentici senza tanti orpelli e appesantimenti da super-post-produzione.
Last Time, suonata dal vivo nel video sotto, è esemplificativa dello stile di questo album del marpione canadese che veleggia verso i sessanta. Buona pesca e buon ascolto.
June Miller e Antigone
Dei June Miller avevo già scritto qui, sul loro blog ci sono stati diversi aggiornamenti.
In sintesi: disco nuovo in arrivo, ma non c'è più alla voce Federica, probabilmente (?) rientrata nel "suo" gruppo, gli Antigone.
Devo dire che molto mi spiace: senza nulla togliere al resto del gruppo, la voce di Federica era una vera marcia in più per i pezzi dei JM.
Sul sito di Komakino, webzine che seguo da parecchio tempo (direi 2001 almeno, avevo letto per la prima volta lì di due gruppi come Moonbabies e Giardini di Mirò) c'è la recensione di un concerto dei JM di un anno fa circa, e c'è soprattutto il video del pezzo acustico qui sotto (ma acustico davvero, chitarra e voce assolutamente non amplificate) da brividi.
Come dice il commento, una breve canzone di poesia e dolore, mentre sullo sfondo le altre persone parlano, ridono, bevono, ignorando completamente quello che sta accadendo sul palco, e ci vuole un coraggio o un'incoscenza colossali per fare quello che fanno qui i June Miller.
Ci sono canzoni così belle che fanno male, e questa può stare tranquillamente insieme, per coraggio e sincerità, a quelle di Nick Drake di cui parla Paolo Vites nel suo post su "Pink Moon", o a quelle di Judee Sill, scoperta da poco grazie al blog appena citato, di cui ascolto a ripetizione da qualche tempo due canzoni incredibili: "The Kiss" e "The Donor".
Poi certo, il vero rock'n'roll non passa mica di qui, passa piuttosto dai Kiss, dagli Ac/Dc, dai Pink Floyd, dai Genesis e dal Boss: come si diceva una volta, "da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo le sue necessità"...
P.s. - Questo post era già pronto qualche tempo fa, prima che i miei cari buoni amici (anonimi e nonimi) mi facessero capire quanto sarebbe stato meglio per il mondo se avessi smesso di partecipare a questo blog.
Poi oggi, facendo il solito giro su indieitalia (niente link, sbattetevi un minimo, su...) ho trovato un video degli Antigone.
In questo periodo di nuovi dischi di Radiohead e Rem, mi sembrava doveroso parlare di qualcosa di veramente bello.
Gli amici di cui sopra stiano tranquilli, questo è un intervento "una tantum": c'è anche la giusta dose di polemica che rovina tutti i miei post e non avrà ulteriori seguiti :)
Tuxedomoon - Holy Wars
A volte mi accade una cosa singolare.
La prima volta che incontro cose o persone che mi “cambieranno” la vita, riescano a passarmi inosservate.
Le virgolette sono d’obbligo, perché, il campo del cambiamento è quello che attiene alla percezione artistica.
Ma nel caso dei Tuxedomoon, questa percezione ha avuto per me un enorme riflesso sul metodo con il quale avrei poi successivamente giudicato avvenimenti e persone, anche in ambito extra-musicale.
E’ un lungo discorso, spero che alla fine di queste mie impressioni, sarò riuscito a spiegarmi almeno parzialmente.
Dicevo del passare inosservati.
Certo, esiste l’amore a prima vista, la passione immediata, ma questi sono avvenimenti che lasciano poco spazio all’analisi razionale.
Li provi, ti sommergono e resti fermo, bloccato.
Vorrei subito sgomberare il campo da un’altra considerazione di tipo generale.
Io vorrei parlare solo di musica, ma sarò più volte tentato di addentrarmi in altri campi.
Lo so già.
Dirò un’ovvietà (ma voglio correre lo stesso il rischio) sostenendo che considero l’arte come il massimo tentativo umano di dare un senso “alto/altro” all’esistenza.
Nello stesso tempo, non posso ignorare il fatto che noi tutti siamo diventati “consumatori” d’arte e di musica in particolare.
Penso che la cosa “di per sé” non sia né un bene né un male.
Penso comunque che la massa di informazioni relative all’arte che riceviamo (e nel caso della musica, la cosa e’ ancora più evidente), ci renda poco capaci di critica di fronte all’intero fenomeno (non fosse solo che per la quantità di quest’ultima).
Le cose che scrivo sono ovviamente filtrate dall’esperienza personale e dai ricordi dell’epoca: vogliono essere solo una onesta testimonianza di come ho elaborato quel periodo.
“Holy Wars” lo comperai circa nell’85 e rimase per più di un anno sullo scaffale.
Un ascolto o due e poi via, tra i dischi giudicati “acquisti sbagliati”, o quasi.
Per me di solito, è un buon segno.
Vuol dire che probabilmente tornerò a riascoltarlo quando certe condizioni saranno mature.
E’ una specie di sesto senso che mi fa capire che ho qualcosa davanti che ha un valore intrinseco, ma di cui, in quel momento, non so cogliere l’essenza.
La prima cosa che mi saltò all’orecchio fu l’uso di più lingue nei loro testi.
Noi europei parlavamo (e si continua) a parlare dell’Europa come di una nuova identità (politica, sociale, culturale…) in fase di costruzione e loro, i Tuxedomoon (americani) a usare tutte le “nostre” lingue mischiate, ancora prima che il Muro cadesse…
Casualità ?
Canta Brown: “ I was cruising my decay where the trams connect”.
Intuizione magnifica: di quale decadenza sta parlando?
E in quale particolare zona?
Perchè proprio dove “all the trams connect”?
L’esistenza quotidiana di Brown coincide con quella del vecchio continente e/o viceversa?
Oppure, anche ammettendo una più ovvia lettura che quella sia la semplice descrizione di un incontro a sfondo sessuale, non e’ sorprendente questa coincidenza tra le due precarietà: quella vissuta dall’autore e quella del nostro Continente?
Io penso che Brown e Compagni assolutamente non sapessero con quale precisione stavano intuendo il cambiamento, ma è proprio questa sensibilità dell’artista che propone qualcosa che “ancora non esiste”, che lui stesso non “sa”, ma già lui vive sotto forma di intuizione artistica.
E poi la loro Musica…a volte assolutamente “bianca” …altre volte così “araba” da far vergognare ogni altro postumo tentativo di “world-music”…
Un particolare di cui non vorrei parlare e’ di come, molto spesso, il nome dei Tuxedomoon sia stato associato all’inflazionato termine di “contaminazione” (anche se alla fine dei ’70 la cosa era un po’ meno evidente…).
Contaminazione tra generi e forme espressive (teatro, video, balletto, poesia, ecc.). Ognuna di queste forme artistiche ha visto, in qualche modo, i Tuxedomoon protagonisti.
Al di là dei risultati (ascoltate e giudicate), mi piace solo scoprire come, a distanza di tempo, tutti quei tentativi appaiano come episodi di un modo preciso di affrontare la vita dell’artista: una vera e propria “filosofia”.
Probabilmente Blaine L. Reininger non ha mai amato visceralmente le performance teatrali messe in scena dalla coppia Winston Tong/Bruce Geduldig e forse Peter Principle non avrebbe mai lasciato la suggestione della sua New York per scoprire i musicisti indigeni del Messico, come invece ha fatto Steven Brown.
Questa “filosofia” alla quale mi riferisco e’ la più semplice del mondo, ma molto rara da trovare nella realtà di tutti i giorni: la profonda onesta’ intellettuale che ti fa vivere assieme agli altri (artisti e non) scoprendo di volta in volta, obiettivi comuni sui quali lavorare e impegnarsi.
Non parlare, ma fare.
Tuxedomoon credono in tutto questo (i loro ultimi show scarni e essenziali lo confermano, ribaltando di 180 gradi i ricordi dei loro fans ancora legati agli anni ‘80: nessun video, nessuno schermo, tantomeno balletti o simili…).
La loro voglia di rimettersi continuamente in discussione, come artisti e come uomini, continua ad accompagnarli nel loro viaggio sonoro e non (qualcuno puo’ dire con sicurezza dove vive Steven Brown o Blaine Reininger?)
Penso possano insegnarci qualcosa.
Ascoltarli e’ il minimo.
Tuxedomoon “Holy Wars”
Cramboy, 1985
La prima volta che incontro cose o persone che mi “cambieranno” la vita, riescano a passarmi inosservate.
Le virgolette sono d’obbligo, perché, il campo del cambiamento è quello che attiene alla percezione artistica.
Ma nel caso dei Tuxedomoon, questa percezione ha avuto per me un enorme riflesso sul metodo con il quale avrei poi successivamente giudicato avvenimenti e persone, anche in ambito extra-musicale.
E’ un lungo discorso, spero che alla fine di queste mie impressioni, sarò riuscito a spiegarmi almeno parzialmente.
Dicevo del passare inosservati.
Certo, esiste l’amore a prima vista, la passione immediata, ma questi sono avvenimenti che lasciano poco spazio all’analisi razionale.
Li provi, ti sommergono e resti fermo, bloccato.
Vorrei subito sgomberare il campo da un’altra considerazione di tipo generale.
Io vorrei parlare solo di musica, ma sarò più volte tentato di addentrarmi in altri campi.
Lo so già.
Dirò un’ovvietà (ma voglio correre lo stesso il rischio) sostenendo che considero l’arte come il massimo tentativo umano di dare un senso “alto/altro” all’esistenza.
Nello stesso tempo, non posso ignorare il fatto che noi tutti siamo diventati “consumatori” d’arte e di musica in particolare.
Penso che la cosa “di per sé” non sia né un bene né un male.
Penso comunque che la massa di informazioni relative all’arte che riceviamo (e nel caso della musica, la cosa e’ ancora più evidente), ci renda poco capaci di critica di fronte all’intero fenomeno (non fosse solo che per la quantità di quest’ultima).
Le cose che scrivo sono ovviamente filtrate dall’esperienza personale e dai ricordi dell’epoca: vogliono essere solo una onesta testimonianza di come ho elaborato quel periodo.
“Holy Wars” lo comperai circa nell’85 e rimase per più di un anno sullo scaffale.
Un ascolto o due e poi via, tra i dischi giudicati “acquisti sbagliati”, o quasi.
Per me di solito, è un buon segno.
Vuol dire che probabilmente tornerò a riascoltarlo quando certe condizioni saranno mature.
E’ una specie di sesto senso che mi fa capire che ho qualcosa davanti che ha un valore intrinseco, ma di cui, in quel momento, non so cogliere l’essenza.
La prima cosa che mi saltò all’orecchio fu l’uso di più lingue nei loro testi.
Noi europei parlavamo (e si continua) a parlare dell’Europa come di una nuova identità (politica, sociale, culturale…) in fase di costruzione e loro, i Tuxedomoon (americani) a usare tutte le “nostre” lingue mischiate, ancora prima che il Muro cadesse…
Casualità ?
Canta Brown: “ I was cruising my decay where the trams connect”.
Intuizione magnifica: di quale decadenza sta parlando?
E in quale particolare zona?
Perchè proprio dove “all the trams connect”?
L’esistenza quotidiana di Brown coincide con quella del vecchio continente e/o viceversa?
Oppure, anche ammettendo una più ovvia lettura che quella sia la semplice descrizione di un incontro a sfondo sessuale, non e’ sorprendente questa coincidenza tra le due precarietà: quella vissuta dall’autore e quella del nostro Continente?
Io penso che Brown e Compagni assolutamente non sapessero con quale precisione stavano intuendo il cambiamento, ma è proprio questa sensibilità dell’artista che propone qualcosa che “ancora non esiste”, che lui stesso non “sa”, ma già lui vive sotto forma di intuizione artistica.
E poi la loro Musica…a volte assolutamente “bianca” …altre volte così “araba” da far vergognare ogni altro postumo tentativo di “world-music”…
Un particolare di cui non vorrei parlare e’ di come, molto spesso, il nome dei Tuxedomoon sia stato associato all’inflazionato termine di “contaminazione” (anche se alla fine dei ’70 la cosa era un po’ meno evidente…).
Contaminazione tra generi e forme espressive (teatro, video, balletto, poesia, ecc.). Ognuna di queste forme artistiche ha visto, in qualche modo, i Tuxedomoon protagonisti.
Al di là dei risultati (ascoltate e giudicate), mi piace solo scoprire come, a distanza di tempo, tutti quei tentativi appaiano come episodi di un modo preciso di affrontare la vita dell’artista: una vera e propria “filosofia”.
Probabilmente Blaine L. Reininger non ha mai amato visceralmente le performance teatrali messe in scena dalla coppia Winston Tong/Bruce Geduldig e forse Peter Principle non avrebbe mai lasciato la suggestione della sua New York per scoprire i musicisti indigeni del Messico, come invece ha fatto Steven Brown.
Questa “filosofia” alla quale mi riferisco e’ la più semplice del mondo, ma molto rara da trovare nella realtà di tutti i giorni: la profonda onesta’ intellettuale che ti fa vivere assieme agli altri (artisti e non) scoprendo di volta in volta, obiettivi comuni sui quali lavorare e impegnarsi.
Non parlare, ma fare.
Tuxedomoon credono in tutto questo (i loro ultimi show scarni e essenziali lo confermano, ribaltando di 180 gradi i ricordi dei loro fans ancora legati agli anni ‘80: nessun video, nessuno schermo, tantomeno balletti o simili…).
La loro voglia di rimettersi continuamente in discussione, come artisti e come uomini, continua ad accompagnarli nel loro viaggio sonoro e non (qualcuno puo’ dire con sicurezza dove vive Steven Brown o Blaine Reininger?)
Penso possano insegnarci qualcosa.
Ascoltarli e’ il minimo.
Tuxedomoon “Holy Wars”
Cramboy, 1985
di Fabrizio Cavallaro
Mogwai - Music For A Forgotten Future (The Singing Mountain)
Ritengo doveroso apporre un integrazione alla mia stroncatura di Hardcore di poco tempo fa. La classica special deluxe edition limited press etc. e quant'altro, famigerata direi, che quando va bene non aggiunge niente alla sostanza del disco principale e quando va male è letteralmente da buttare via.
Ebbene, i Mogwai spiattellano tranquilli questo bonus cd come se niente fosse, ed io salto sulla sedia. Sono cose belle; dai uno dei tuoi gruppi storici per morti dentro e loro a sorpresa piazzano un colpaccio secco, così.
Music for a forgotten future è una suite di 23 minuti, senza ritmo, principalmente per archi e tastiere. Si potrebbe immaginare che sia farina del sacco di Burns, ma non importa. Ciò che conta è che si tratta di 23 minuti di purissima magia, una sorta di soundtrack struggente di quelle che provocano pelle d'oca. I primi 10 minuti vedono un interplay fra piano, Rhodes elettrico ed (immagino) un quartetto d'archi, un drones acuto in sottofondo; lo schema compositivo è di un minimalismo che potrebbe ricordare certe cose di Basinski o Library Tapes.
Molto lentamente il pezzo si evolve e verso la decina di minuti fa la sua comparsa anche una chitarra che ricalca il piano; gli archi continuano a spessorare con decisione il sottofondo.
Al terzo cambio sensibile, attorno ai 15 minuti, entra anche un basso pesante, le chitarre si distorcono un pochettino e l'enfasi sempre più solenne; ci si aspetta quasi che i Mogwai da un momento all'altro possano esplodere come nella loro tradizione, ed invece a sorpresa il pezzo implode su se stesso, scemando nel giro di mezzo minuto.
Ma non è ancora finita: dal pulviscolo atmosferico susseguente risorgono gli archi che eseguono il tema iniziale, in perfetta solitudine, a basso volume.
Un brivido scorre lungo la schiena.
Nessuno ha ancora ammazzato i Mogwai, e questo mi consola parecchio.
Ebbene, i Mogwai spiattellano tranquilli questo bonus cd come se niente fosse, ed io salto sulla sedia. Sono cose belle; dai uno dei tuoi gruppi storici per morti dentro e loro a sorpresa piazzano un colpaccio secco, così.
Music for a forgotten future è una suite di 23 minuti, senza ritmo, principalmente per archi e tastiere. Si potrebbe immaginare che sia farina del sacco di Burns, ma non importa. Ciò che conta è che si tratta di 23 minuti di purissima magia, una sorta di soundtrack struggente di quelle che provocano pelle d'oca. I primi 10 minuti vedono un interplay fra piano, Rhodes elettrico ed (immagino) un quartetto d'archi, un drones acuto in sottofondo; lo schema compositivo è di un minimalismo che potrebbe ricordare certe cose di Basinski o Library Tapes.
Molto lentamente il pezzo si evolve e verso la decina di minuti fa la sua comparsa anche una chitarra che ricalca il piano; gli archi continuano a spessorare con decisione il sottofondo.
Al terzo cambio sensibile, attorno ai 15 minuti, entra anche un basso pesante, le chitarre si distorcono un pochettino e l'enfasi sempre più solenne; ci si aspetta quasi che i Mogwai da un momento all'altro possano esplodere come nella loro tradizione, ed invece a sorpresa il pezzo implode su se stesso, scemando nel giro di mezzo minuto.
Ma non è ancora finita: dal pulviscolo atmosferico susseguente risorgono gli archi che eseguono il tema iniziale, in perfetta solitudine, a basso volume.
Un brivido scorre lungo la schiena.
Rockgarage, la Fanzine e la playlist da Youtube
Setacciando il "tubo" (come dice l'amico Paolo Cesaretti della fanzine Free), ho trovato un po' di video creati e caricati dedicati ai musicisti pubblicati come allegato sonoro alla fanzine Rockgarage.
Una delle menti di Rockgarage è Marco Pandin e qui nel blog trovate un pò di materiale su di lui.
I video sono semplici e in pieno spirito "fai da te" o DIY (do it yourself), che poi vuole dire la stessa cosa.
Musica underground direttamente dagli anni'80 italiani.
Così mi è sembrata una buona occasione per ascoltare qualche brano da Rockgarage e allora ho preparato una playlist, eccola:
E ovviamente grazie a chi ha caricato questi video.
Una delle menti di Rockgarage è Marco Pandin e qui nel blog trovate un pò di materiale su di lui.
I video sono semplici e in pieno spirito "fai da te" o DIY (do it yourself), che poi vuole dire la stessa cosa.
Musica underground direttamente dagli anni'80 italiani.
Così mi è sembrata una buona occasione per ascoltare qualche brano da Rockgarage e allora ho preparato una playlist, eccola:
E ovviamente grazie a chi ha caricato questi video.
Don't Stop - Fleetwood Mac
Quando ragazzo che ancora andava alle medie compravo Ciao2001 pensavo, leggendo le classifiche oltreoceano di vendita dei dischi, che ci fosse un errore.
Non era infatti possibile che tutti i mesi sempre ci fosse questo sconociuto "Rumours" di certi altrettanto sconociuti Fleetwood Mac sempre al numero 1 negli USA.
Quanto vi rimase? E chi lo sa, non mi ricordo, ma per moltissimo tempo.(Immagino che basti guardare su google per saperlo).
Le radio lo trasmettevano, avevo cominciato a cercarlo con la manopola della sintonizzazione e scoprii che la sigla di una delle mie tramissioni preferite su una radio locale era un pezzo dei Fleetwood da Rumours: Never Going Back Again.
Ricordo quando ho sentito per la prima volta "Don't Stop", ricordo l'effetto trascinante e piacevole di quella canzone: bellissima.
L'autrice della canzone è Christine Mc Vie e la canzone parla della vita, delle sue difficoltà. Dice delle cose semplici, che il tempo passa, che le persone cambiano, cambiano i sentimenti, finiscono amori e unioni, ma non ci si deve arrendere quando ci si sente sconfitti, dice che c'è sempre la possibilità di ricominciare, di avere una nuova vita anche migliore, basta non perdersi d'animo e non fermarsi a piangere il tempo passato.
Ecco il testo:
If you wake up and don't want to smile,
If it takes just a little while,
Open your eyes and look at the day,
You'll see things in a different way.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Why not think about times to come,
And not about the things that you've done,
If your life was bad to you,
Just think what tomorrow will do.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
All I want is to see you smile,
If it takes just a little while,
I know you don't believe that it's true,
I never meant any harm to you.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Don't you look back,
Don't you look back.
Dimenticavo l'album è del 1977, ed il video sotto è del 1997...e a parte una gran quantià di chirurgia plastica sembrano una band di ragazzini tanto si stanno divertendo.
Buon divertimento. Dedicato a tutti quelli che non si arrendono ed in particolare ad Alessandro.
Non era infatti possibile che tutti i mesi sempre ci fosse questo sconociuto "Rumours" di certi altrettanto sconociuti Fleetwood Mac sempre al numero 1 negli USA.
Quanto vi rimase? E chi lo sa, non mi ricordo, ma per moltissimo tempo.(Immagino che basti guardare su google per saperlo).
Le radio lo trasmettevano, avevo cominciato a cercarlo con la manopola della sintonizzazione e scoprii che la sigla di una delle mie tramissioni preferite su una radio locale era un pezzo dei Fleetwood da Rumours: Never Going Back Again.
Ricordo quando ho sentito per la prima volta "Don't Stop", ricordo l'effetto trascinante e piacevole di quella canzone: bellissima.
L'autrice della canzone è Christine Mc Vie e la canzone parla della vita, delle sue difficoltà. Dice delle cose semplici, che il tempo passa, che le persone cambiano, cambiano i sentimenti, finiscono amori e unioni, ma non ci si deve arrendere quando ci si sente sconfitti, dice che c'è sempre la possibilità di ricominciare, di avere una nuova vita anche migliore, basta non perdersi d'animo e non fermarsi a piangere il tempo passato.
Ecco il testo:
If you wake up and don't want to smile,
If it takes just a little while,
Open your eyes and look at the day,
You'll see things in a different way.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Why not think about times to come,
And not about the things that you've done,
If your life was bad to you,
Just think what tomorrow will do.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
All I want is to see you smile,
If it takes just a little while,
I know you don't believe that it's true,
I never meant any harm to you.
Don't stop, thinking about tomorrow,
Don't stop, it'll soon be here,
It'll be, better than before,
Yesterday's gone, yesterday's gone.
Don't you look back,
Don't you look back.
Dimenticavo l'album è del 1977, ed il video sotto è del 1997...e a parte una gran quantià di chirurgia plastica sembrano una band di ragazzini tanto si stanno divertendo.
Buon divertimento. Dedicato a tutti quelli che non si arrendono ed in particolare ad Alessandro.
Idaho - Cuori di Palma
La storia discografica di Jeff Martin, losangeleno classe 1964, si dipana ormai da un ventennio sotto il suggestivo moniker Idaho, ovvero come l’angusto e selvaggio stato nel nord degli USA. Passando attraverso diversi stili, cambiando continuamente il personale coinvolto nel progetto fino ad assumere praticamente lo status di one man band, ma mantenendo un livello personale e di integrità artistica invidiabili.
E pensare che ce ne ha messo del tempo, Martin, per emergere. Si forma come pianista classico e nel 1983 neanche ventenne tenta l’avventura, trasferendosi per un po’ di tempo a Londra, in cui registra del materiale da provinare ad una casa discografica chiamata Ensign. Evidentemente la cosa non funziona, visto che l’anno successivo torna a L.A. Qualche anno fa, un paio di quelle registrazioni sono state rese disponibili su www.slidingpast.com , che è uno dei 3 siti in cui si promuove, e mostrano Martin alle prese con un interessante synth-wave per certi versi vicina a Japan, Talk Talk e primi Tears For Fears.
Il resto del decennio lo vede militare in formazioni locali assolutamente sconosciute, a quanto pare mai arrivate al fatidico traguardo discografico. Nel 1990, però, succedono un paio di avvenimenti chiave: nasce il sodalizio con John Barry, chitarrista figlio di un attore di Hollywood, e a casa di un amico si ritrova in mano una chitarra acustica priva delle ultime due corde. Da lì nasce l’idea folgorante di una elettrica custom a 4 corde che da allora diventerà il veicolo principale delle sue composizioni almeno fino a quando, verso fine decennio, non deciderà di recuperare il buon vecchio pianoforte.
Nasce così Idaho, sotto forma di duo. Mentre Martin si occupa di composizioni, voce, chitarra custom e basso, Barry di batteria e di solista che, nelle sue mani, diventa un altro tratto estremamente distintivo; il suo suono lacerante, dilatato, in feedback quasi perenne, riflette l’inquietudine di un personaggio tossicodipendente che si adegua alla perfezione all’esistenzialismo perturbato di Martin. La Caroline se ne assicura le prestazioni e ad inizio 1993 esce prima un EP (The Palms) e poi l’album Year after year. La stampa tende ad inserirli nel calderone slow-core, insieme ad altre stelle come Codeine e Red House Painters (con cui peraltro divideranno un tour durante l’anno), ma era già chiaro come la cifra personale dei due fosse innegabile. Year after year è un disco quasi shockante nel suo lirismo, in cui si passa da meditazioni autunnali (The only road, Save) a vortici tempestosi (Here to go), da iperboli depressive (Gone, Sundown, Year after year) a brevi squarci di sereno (Skyscrape, One Sunday). God’s green earth, il pezzo di apertura, destinato a restare uno degli highlights di sempre di Martin, mette subito in campo le possibilità dei due di provocare emozioni a lenta combustione. Non è certo un disco di facile assimilazione, dall’umore nero-pece ma non per questo privo di grande respiro ed atmosfera, insieme all’EP che racchiude un altro trittico di assoluto rilievo (Creep, Fall around, You are there). Inoltre ha il merito di rivelare la grande personalità di Martin, che oltre ad essere eccellente songwriter si fa notare come cantante dall’estensione non indifferente e dal timbro caldo e magnetico. Insieme ai due gregari Zimmitti (batteria) e Smith (chitarra) fanno il tour americano con i RHP e poi sbarcano in Inghilterra, questa volta con i Sundial.
Evidentemente succede qualcosa che fa perdere il controllo a Barry e lo fa ricadere nel cunicolo dell’eroina, così nel 1994 Martin si ritrova da solo ma tutt’altro che sfiduciato e presto pronto a registrare il seguito, col supporto del solo batterista Lewis. This way out segna un pizzico di normalizzazione rispetto al precedente, e non soltanto per l’assenza della chitarra sanguinolenta di Barry. Martin è ben lungi dall’aver trovato un equilibrio esistenziale, ma a differenza del debutto qui riversa le sue arie autunnali con un piglio più posato, meno votato all’abbandono e a tratti quasi grintoso. Anche lo stile vocale ne risente; c’è meno declamazione, si nota un indolenza quasi pigra, alla J Mascis. In qualche frangente del disco, infatti, sembra quasi di trovarsi al cospetto di una versione sofisticata dei migliori Dinosaur Jr. Le composizioni, però, restano sempre di grande fattura; i breaks introspettivi delle due splendide apripista, Drop off e Drive it, sono soltanto l’inizio. Martin modera l’utilizzo del feedback e se ne appropria con abilità, dosandolo con saggezza. Le ballads Weird wood e Still fungono da contorno per il miglior pezzo del disco, la fragorosa e trascinante Fuel, un po’ il manifesto dei nuovi Idaho: umori autunnali, spleen a rilascio controllato e progressioni di grande effetto. La contemplativa Sweep ha anche il merito di far rispolverare all’autore quel pianoforte accantonato da chissà quanto tempo. Verso la fine arrivano altre forti emozioni. Lo slow-core galattico di Taken che confluisce direttamente nel balzello indie di Crawling out. Forever infine chiude in perfetto stile Year after Year, rabbrividente promessa di eternità alla moviola, con una valanga di feedback che al termine sommerge tutto.
Nel frattempo Martin costruisce attorno a sé un trio composto dallo stesso Lewis, Borden al basso e Seta alla chitarra solista, un acquisto importante in quanto resterà il suo collaboratore più duraturo di sempre, e porta in giro This way out per tutto il Nord America per tutto l’inverno '94-95. La riuscita di pezzi forti e compatti come Fuel e Drive it lo spinge a persistere su quel modello di contrasti sonori. Si prende una licenza dalla Caroline e fa uscire il Bayonet EP per l’indie Fingerpaint, minuscola etichetta di L.A. La fuzzatissima e mascisiana The worm poteva anche diventare un hit minore, avesse avuto un’esposizione maggiore. Sliding past e Losing light perpetrano l’introspezione che esplode in schegge di feedback, con particolare attenzione per la seconda, una meraviglia commovente.
A febbraio 1996 esce Three sheets to the wind, album che rappresenta l’equazione perfetta fra accessibilità, cantautorato e indie-rock d’atmosfera. Visto il ritmo incessante di tour che gli Idaho stavano mantenendo e la promozione che quantomeno la Caroline si stava sforzando di garantire loro (ricordo che trovai l’album nel comunissimo reparto dischi di un anonimo centro commerciale), un minimo di riconoscimento se lo sarebbero meritato, anche perché il disco è bellissimo e variegato. Catapult e Pomegranate bleeding, (quest’ultima anche su singolo con The right escape, inspiegabilmente relegata a b-side) mostrano il lato quasi grunge del quartetto, dal fragore melodico ed emotivo. Martin spartisce la firma con i compagni per una buona metà del disco; sul fronte tranquillo si trovano le pepite del disco, come le pigre atmosfere autunnali di Stare at the sky, gli intricati arpeggi chitarristici di No one’s watching e i vorticosi delays di Get you back. Con Alive again Martin rispolvera il vecchio pianoforte per una delicatissima ballad.
Il tour si protrae per otto mesi, fino alla fine di agosto. Evidentemente la Caroline non è soddisfatta e li scarica. Martin lascia liberi Burden e Lewis ma mantiene attivo il sodalizio con Seta, stringe accordo con la piccola indie Buzz ed insieme nel marzo del 1997 pubblicano il mini The Forbidden, con 5 pezzi che calcano sulla vena più rilassata ed indolente dell’Idaho-sound, con le gradevolissime Hold everything e Golden seal, ma con l’eccezione della magnifica Bass crawl, una mistica escursione nel gorgo slow-core dei primi dischi.
L’album che esce l’anno successivo si chiama Alas e si compiace del contributo di un paio di ospiti di rilievo come il batterista di Beck, Waronker, nonché dei vocalizzi sparsi della Auf Der Mar, ex-Hole e in quel periodo bassista negli Smashing Pumpkins. Si tratta comunque di un disco che non aggiunge molto a quanto detto fino ad allora da Martin, forse per un eccessivo indugiare su temi classicamente autunnali ed indolenti senza grosse variazioni, comunque contenente un paio di perle come Run but you ran e Yesterday’s unwinding. Al posto del solito lungo tour, si esibiscono solo per una manciata di date in California in Agosto, dopodichè Martin si prende una pausa di riflessione. E’ proprio questo il momento cruciale; come da egli stesso raccontato in un’intervista, alla fine del 1998, sfiduciato dall’industria musicale, dall’immeritata mancanza di diffusione della sua musica e forse anche da un Alas che lo vede in difetto di ispirazione, decide che è ora di trovarsi un lavoro e lasciar perdere la musica da professionista.
Per fortuna, non resterà della stessa idea per molto e addirittura decide di fondare una propria etichetta, Idahomusic, che inaugura i battenti licenziando un precario documento live tratto dal tour del 1993, intitolato People like us should be stopped. Nonostante le registrazioni siano alquanto grezze, si tratta di un reperto preziosissimo per gli amanti dei primissimi Idaho, un live grondante sangue e stordente di feedback iper-amplificati.
Ed è un Martin in forma ritrovata per Hearts of palm, nuovo album del 2000, ancora in collaborazione con Dan Seta che co-firma una metà circa del materiale. A partire dalla caracollante To be the one, destinata a diventare una favorita live in futuro, è una conferma del talento compositivo del leader che realizza alcune gemme di assoluto valore come l’insistente cantilena della title-track, la discreta e sinuosa Down in waves, la meditabonda Happy times, la nervosa ballad elettrica Alta dena, e il lungo ambientale di Under. Il tour che parte in estate vede gli Idaho approdare per la prima volta in Europa, con alcune date in Novembre in Germania, Francia e Svizzera.
Tempo neanche un anno e si materializza un altro album, Levitate. Seta non fa più parte del progetto, cosicché da quel momento in poi Idaho diventa a tutti gli effetti una one-man band. Il disco parte in quarta con le frizzantissime Wondering the fields e 20 Years, ma sulla lunga distanza si rivela tener fede al titolo che porta, diventando in pratica una nebulosa semi-ambientale. Martin imposta quasi la globalità delle composizioni sul piano, realizzando deliziosi quadretti quasi accademici in Orange, Come back home e Levitate.
Il 2002 è un anno ricco di soddisfazioni per tre validi motivi. Innanzitutto la Idahomusic licenzia l’antologia We were young and needed the money, che raccoglie 10 anni di out-takes ed inediti per un totale di ben 17 titoli. Nonostante gli input siano eterogenei e ovviamente frutti di epoche diverse, in essa trovano posto pezzi che fanno interrogare seriamente sul mistero per cui non siano state pubblicate sugli album di riferimento del periodo. L’irresistibile pigrizia di This day col suo assolo di basso legnoso, la furia dirompente ed allucinata di Flat Top (sicuramente il pezzo più aggressivo di tutta la carriera), l’enfasi trascinante della splendida Shoulder Back, la nubi rabbiose e lancinanti di Straw Dogs. Nel finale, oltretutto ci sono ben tre scarti da Year after year, tranquillamente nella media di ciò che era già noto. L’ipnotica spirale di Traces, il disincanto di Carefully turning e soprattutto la magniloquente Drown, una delle migliori tracce degli Idaho in assoluto, con un Martin da brividi alla voce nel finale. Ed è proprio l’altro protagonista di quella breve stagione, John Berry, a fare un’inattesa ricomparsa nella formazione live che viaggia durante l’anno, nella prima parte lungo gli Stati Uniti e in autunno in Europa, per una ventina di date. In Novembre Idaho mette piede per la prima volta in Italia, a Verona e Milano. Insieme ai due, c’è un batterista innominato di gran talento (immagino di formazione jazzistica) che impreziosisce il set senza far neanche rimpiangere l’assenza del basso.
A dimostrazione degli ottimi risultati raggiunti dal trio, è stato diffuso in rete un documento molto importante, ovvero la registrazione da soundboard dell’esibizione tedesca del 05 Ottobre a Munster, in cui trovano posto 5 inediti di eccellente qualità, destinati fra l’altro a restare nel repertorio live-only. Sintetizzando quanto riportato nel post, ribadisco che si tratta di un grande concerto non soltanto per le perle sconosciute, ma anche per la grande prestazione di Martin, il contributo graffiante e mai invasivo di Berry e la prova di classe offerta dal batterista. Alla luce di tutto questo e vista la precarietà del People like us, a mio avviso il Live in Gleis si potrebbe idealmente aggiungere alla discografia come il disco dal vivo ideale di Idaho.
I due anni successivi scorrono praticamente inattivi, con Martin che ottiene l’ingaggio come compositore di colonna sonora di una serie televisiva della ABC, Days, e al lavoro per un nuovo disco. Ma sembra che abbia stipulato un legame molto forte con l’Europa, tant’è che l’indie label tedesca Kalinkaland mette sul mercato un antologia, intitolata Vieux Carrè, che di fatto a parte la Rope che compariva in una compilation, raccoglie pezzi già editi. Trattasi di un preparativo quasi ad hoc per il tour che vede gli Idaho tornare nel vecchio continente nelle prime due decadi di Dicembre 2004, e che per la mia gioia tocca addirittura la mia città, presso il glorioso (R.I.P.) circolo Ex-Machina. Così ho modo di conoscere Martin e Barry di persona e conversare qualche minuto con loro, persone squisite e affabili com’era facile prevedere.
Un live per pochissimi intimi, se non ricordo male eravamo neanche una trentina ad assistere. Il batterista innominato non c’era più (e captavo una vena polemica in Martin nel dichiarare aveva di meglio da fare), al suo posto una fredda drum-machine che un po’ penalizzava la grande suggestione di un set che, oltre agli inediti del 2002, svariava sul repertorio dal 1996 al momento e anticipava quasi di un anno qualche estratto di The Lone Gunman, a tutt’oggi ultima fatica. Che conferma la tendenza al pianismo raffinato ed emotivo di Martin, con la totalità dei ritmi digitali, innesti elettronici ed atmosfere generalmente soffuse, come ben introdotto dall’intro immaginifica di The orange cliffs ed Echelon. Un liquido Rhodes costituisce la spina dorsale di ballads notturne come The mystery e la bellissima Live today again, quest’ultima promossa anche con un videoclip alquanto suggestivo. E’ un disco ispiratissimo, con Have to be, U got that gunman thang (ripresa da Days), Wet work, The days of patrol, brevi e delicati affreschi di cantautorato ambientale che curiosamente si avvicina alle deliziose raccolte di Keith Kenniff aka Helios. Come già scrissi tempo fa, una collaborazione fra i due sarebbe una gran bella cosa.
Da allora le attività si sono rarefatte all’inverosimile per Martin. Nel maggio 2006 vola per una comparsata di tre date in Spagna, per poi tornare massicciamente nel febbraio 2008, mese in cui praticamente si esibisce ogni sera per tutta l’Europa centrale, Italia compresa. Per il Maggio prossimo è prevista, con un ritardo di oltre un anno dalle intenzioni iniziali, l’uscita di Revoluta. Vista la lunghissima gestazione, mi aspetto un'altra bella prova da parte di un artista ingiustamente sconosciuto a tutti.
Discografia
Year after year (1993) 8
This way out (1994) 7,5
Three sheets to the wind (1996) 7,5
Alas (1998) 6,5
Hearts of Palm (2000) 7,5
Levitate (2001) 7
The Lone Gunman (2005) 7,5
Live
People like us should be stopped (2000) 7
Live in Gleis 22, Munster (2002 - Bootleg) 8
Antologie
We were young and needed the money (2002) 7,5
Vieux Carrè (2004) 7
Siti di riferimento
Idahomusic
Sliding Past
Jeff Martin