La scarnificazione del rock'n'roll
Il mio amico Raffaele, uno dei miei spacciatori di musica preferiti, mi segnala e mi linka a un disco che è una bella botta dal passato. Vintage Vinos si chiama, non ne ho visto tracce in Italia dove credo nessuno lo abbia pubblicato, ed è una raccolta dai tre dischi solista di Keef Richards, più un brano inciso come benefit dopo l’allagamento di New Orleans, Hurricane. Non ascoltavo più questi brani da un ventennio, quando originariamente uscirono.
Allora, il 1988, i Rolling Stones sembravano morti e defunti (e male non sarebbe stato; con l’eccezione di qualche traccia rispettivamente su Steel Wheels e Voodoo Lounge una sequenza di dischi brutti e inutili e tour faraonici altrettanto inutili). Allora, dopo le immonde porcate di Undercover e Dirty Works – a quest’ultimo non era seguito manco un tour, il che voleva dire una cosa sola, nella logica stoniana: la band è morta – c’erano state altrettanto immonde porcate discografiche solista di Mick Jagger. Un brutto modo di chiudere una grande storia. Nel 1988, dal nulla, spuntò un disco, del Richards solista. Un titolo bellissimo, Talk is Cheap, una copertina altrettanto figa e dentro musica…. Che musica? Ai tempi non sapevo giudicarla, ma mi faceva strana impressione. Come se mancasse qualcosa all’insieme. Certo, mancava Mick Jagger a farne un disco degli Stones. Questo lo capii subito. Ma c’era di più in quel disco.
Adesso, vent’anni dopo, Talk is Cheap (e anche i brani ripresi dal seguente disco solo, Main Offender) vanno giù caldi e vitali come una buona sorsata di Jack Daniel's. Proprio come uno degli ultimi grandi dischi degli Stones, il sottovalutato ma splendido Black And Blue, Talk is Cheap non era un disco di canzoni. In Black and Blue, con l'eccezione della formidabile Memory Motel, c'era una giungla di riff che cercavano via d'uscita (si cercava anche il nuovo chitarrista degli Stones, in realtà). Come quel disco ma ancora di più, Talk is Cheap era la scarnificazione e la riduzione all’osso del concetto di rock’n’roll. Keef è sempre stato uomo del riff, questo si sapeva, ma in questo disco porta alle estreme conseguenze il concetto di riff chitarristico rock. Ben coadiuvato da quello straordinario genio di Steve Jordan, batterista immenso e co autore di tutto il disco, Talk is Cheap è un’orgia di sound puro e senza regole. Canzoni che si reggono sulla reiterazione di una frase singola portata avanti all’infinito; note secche e scartavetrate di chitarre; melodico senso della canzone che viene ricacciato indietro in attesa che spunti fuori da solo prima o poi.
E’ una festa, questo disco: rock stoniano del più sanguigno, pulsare funk più sincero di quello che Prince sia mai riuscito a concepire, vibrazioni caraibiche che fanno ballare nella sua tomba il re di Giamaica. Intimidazioni da crooner con un sentimento jazzy che non si sentiva da secoli, da quando Tin Pan Alley chiuse i battenti. E puranche passione hillbilly, come se la country music fosse stata codificata sulle tavole della legge di Mosè. Ci sono in giro sulla Rete delle tracce incise da Richards a fine anni 70 per un disco soliista mai uscito, riprese di standard della country music che fanno paura da quanto sono belle, peccato non siano mai uscite dai cassetti. Per buona misura, questo Vintage Vinos contiene anche una delle più straordinarie esecuzioni live del nostro, Too Rude, come se Joe Strummer fosse stato il leader dei Wailers. Una macchina da guerra, l'accoppiata Richards-Jordan, che mette a nascondere tutto quanto gli Stones hanno fatto dal vivo negli ultimi venti e più anni, da quando tornarono sulle scene con il loro karaoke della terza età.
Finendo in misericordia: la dolcezza di Hurricane è tutta l’anima di questo uomo straordinario, questo santo del rock’n’roll, questo custode della memoria, questo scolatore immondo di bottiglie di Jack Daniel's. Se solo gli Stones non fossero mai tornati insieme per davvero forse quel disco di musica country Keith lo avrebbe pubblicato per davvero.
La ballata del pendolare
C'è stato un tempo in cui facevo il pendolare settimanale. Non mi ero ancora staccato del tutto da Firenze e andavo e venivo da Milano tutti i fine settimana come un mezzo coglione. Adesso che sono un coglione intero e vivo all'ombra della madunina e ho un figlio che parla lumbard, mi piace ricordare quei tempi arditi con una "ballad" scritta.....
LA BALLATA DEL PENDOLARE
“Chi cazzo me l’avrà fatto fare di venire a lavorare a Milano per due lire in più……” pensavo mentre il treno espresso Milano-Pantelleria (eh oh, pagalo te tutte le settimane l'eurostar) partiva sbuffando dal binario 13 (e te pareva…) della megastazionecentralegalattica di Milàn.
Già sapevo cosa mi attendeva di lì a poco.
(E fu a Piacenza che scoppiò la prima bomba.... Bomba non Bomba-Antonello Venditti)
A Piacenza il primo assalto alla diligenza.
Preceduta dal clangore e dalle urla sguaiate e disperate modello esercito raffazzonato di William Wallace, un’orda di diseredati variopinti e senza tetto (e, soprattutto, senza biglietto) invade rumorosamente ogni interstizio libero della carrozza.
“Cumpà! Tiemme u’poshto….” “Giuvà! ‘ndoshtei?” “Ahhhhh….mò ce schiacciamme ‘nu pisolo” “Kwanda ruanda zuluka” “Zvezda ciurmia debresniev”……sono frasi che si sovrappongono sempre ad ogni salita, ogni venerdì sera, ogni ritorno.
(Siamo meridionaaaaaali....... Mimmo Cavallo)
Non ce l'ho con i meridionali per l'amordiddio solo che questo treno è LORO.
Negli occhi di tutti la voglia di casa e l’ansia della ripartenza del giorno dopo, uguale uguale ai permessini 36h dei militari. Ripartire per ricominciare una nuova settimana di lavoro in nero, dormendo in dodici in una baracca da sei.
Nelle voci e negli aliti la ruggine delle nebbie maldigerite e l’eco di spezie lontane.
Nelle tasche il vuoto, però con l’ultimo modello di telefonino.
Nei loro modi l’irruenza, la spasmodicità, l’impeto di chi sa che sta friggendo in padella ma non vuole restare fermo e cerca, saltellando a più non posso, di scottarsi un pò di meno.
A volte penso, tra resti di panini con la frittata e riviste da barbiere, che ho un culo enorme solo per il fatto di essere nato “altrove”.
A Parma, Rezzo, Modna, Bulagna gli altri assalti alla diligenza.
(è un mondo difficile.....Tonino Carotone)
Bologna è sempre la più dura. Bologna la dotta, Bologna la rossa. Ma anche Bologna dove il treno non entra in stazione ma passa, si ferma un attimo, e riparte alla voleè.
Una volta non entrava neanche uno spillo. Si sono appesi ai predellini di fuori. Dopo dieci minuti di treno immobilizzato è intervenuta (caricaaaa!) la polizia. Che ha disperso i manifestanti a manganellate con disprezzo del pericolo venghino siori e siori.
(police on my back .....i Clash)
Un’altra volta sono usciti i coltelli per un posto a sedere. Per un posto a sedere, cazzo.
(i will survive ....Gloria Gaynor)
“Ferrovie di merda. Ma lo sapete che il venerdì sera rientra verso Sud un milione di persone, cosa vi costa mettere qualche treno speciale in più? Lo fate per i tifosi che sfasciano tutto, non lo fate per chi davvero ha bisogno?” continuavo a pensare insieme a loro, schierato, ad ogni salita, ogni venerdì sera, ogni ritorno.
(Driving that train high on cocaine.........Casey Jones dei Grateful Dead)
Dopo Bologna non sale più (quasi) nessuno. E' il rientro vero e proprio.
Si dorme. Si dorme seduti gli uni sugli altri, sdraiati nei corridoi, appesi agli appoggiavaligie, in piedi come i cavalli. Col caldo col freddo col cazzo che si dorme.
Una volta un tizio mi ha confessato che anche a casa, talvolta, gli capita di addormentarsi in piedi davanti alla tv. Non che i programmi stimolino la veglia, ma tant’è. Sai com'è, l'abitudine.
(close your eyes and you will see......Sound Asleep dei Blondie)
Verso mezzanotte il treno entra silenzioso a FirenzeSantaMariaNovella
(e qua ci starebbe bene Pupo ma non ce la faccio dai non ce la faccio)
Con il suo carico di umanità a buon mercato, nenie alla ninodangelomariomerola (non menzionate gigidalessio che vi accoltellano per davvero), illusioni, rabbia e rancore, pessimismo e fastidio, puzza di piedi mista cipolle fritte che potrebbe essere brevettata.
Per scendere ingaggio quasi sempre un penoso incontro di sumo.
Ma ho almeno 15 minuti per vincerlo.
Spesso aiuto qualche ragazza e qualche anziano nella colluttazione con chi rimane sopra. Poi scendo assonnato, stanco, con la voglia del mio letto e della mia famiglia. Con tutti i link della mia vita extramilàn che, mentre percorro il lungobinario
(binarioooo....triste e solitario Claudio Villa)
mi trillano invadenti “allora icchesifà stasera, milanese?”, “oh grullo, icchettuvvòfa? La festa della Deborah con l'acca?”, “Stefano sei arrivato? Hai mangiato? La maglia di lana ce l’hai?” , “Stefano ciao, domani dobbiamo andare ai saldi, al mobilificio e poi a comprare qualcosa per le zie” “oh bellino! Lo sai quant’è che un tu' mi telefoni? Ma per chi m’hai presa, per la troia di turno?”, “oh razzo, stasera c’ho du'manze che un ci si ripiglia più!” .......
E io che penso che stasera, davvero, neanche se ci fosse la zetagions in persona.
(i'm on my wayyyyyy i'm on my waaaay home sweet hooooome dei Motley Crue).
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DiamondDog
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Storie
Quarant'anni di musica italiana
Sarà perché questo blog si chiama Sunday Morning e non Sabato Mattina che quasi mai si è parlato di musica italiana. Allora lo voglio fare io alla mia maniera, sfogliando l'album dei ricordi e aggiornando un vecchio post nel quale avevo elencato i trenta dischi italiani che ho più amato e ascoltato.
Finito il 2010 inizia un nuovo decennio e sono passati quasi 40 anni da quando ascolto musica. Ci sono esperienze che restano nitide e indelebili nella memoria, momenti di snodo in cui la propria esistenza prende una direzione ben definita. A me capitò giovanissimo quando con il mio motorino, andai al Festival della Gioventù (così si chiamavano allora): il mio primo concerto in assoluto. Quella sera decisi che avrei imparato a suonare. La musica italiana è stata il primo amore, poi abbandonato e infine parzialmente ritrovato. Sono cresciuto suonando De André, Lolli, De Gregori e Guccini e ascoltando gli Area. Poi la ventata new wave scombussolò tutte le coordinate degli anni '70 lasciando ben poco di interessante nel panorama italiano del decennio successivo, a parte le avanguardie solitamente ignorate dai media. Negli anni '90 mi sono riavvicinato gradualmente e ancor di più nel nuovo millennio con l'esplosione della rete che finalmente ha offerto a tutti la possibilità di conoscere e farsi conoscere.
Come criterio ho deciso di inserire non più di tre album dello stesso artista, altrimenti quelli di Faber sarebbero stati molti di più.
Come criterio ho deciso di inserire non più di tre album dello stesso artista, altrimenti quelli di Faber sarebbero stati molti di più.
Ovviamente si tratta di un elenco che non pretende di essere esaustivo, ma che riflette solo i miei gusti personali, che a parte alcuni punti fermi, sono mutati e si sono evoluti (qualche volta forse involuti) col passare del tempo.
Non al denaro, non all'amore nè al cielo - Fabrizio De André 1971
Aria - Alan Sorrenti 1972
Banco de Mutuo Soccorso - Omonimo 1972
Storia di un impiegato - Fabrizio De André 1973
Arbeit Macht Frei - Area 1973
Far finta di essere sani - Giorgio Gaber 1973
I buoni e i cattivi - Edoardo Bennato 1974
Anima latina - Lucio Battisti 1974
Rimmel - Francesco De Gregori 1975
Ho visto anche degli zingari felici - Claudio Lolli 1976
Via Paolo Fabbri 43 - Francesco Guccini 1976
Bufalo Bill - Francesco De Gregori 1976
MONOtono - Skiantos 1978
Sick Soundtrack - Gaznevada 1980
The Secrets Lies in Rhythm - Surprize 1982
Siberia - Diaframma 1984
Italyan, Rum Casusu Citki - Elio e le Storie Tese 1992
Daniele Silvestri - Omonimo 1994
Ust - Ustmamo 1996
Eat the phikis - Elio e le Storie Tese 1996
Anime Salve - Fabrizio De André 1996
La morte dei miracoli - Frankie HI-NRG 1997
Tabula Rasa Elettrificata - C.S.I. 1997
Lingo - Almamegretta 1998
Rospo - Quintorigo 1999
Verità supposte - Caparezza 2003
La malavita - Baustelle 2005
Controlli - Africa Unite 2006
Requiem - Verdena 2007
Amen - Baustelle 2008
Il marxista della CEI
Il mio sguardo è tarato, va sempre a chi è in fondo alla fila. Durante un'assemblea feci il mio intervento, che come al solito qualcuno ha scambiato per comizio politico: "Bisogna esaminare seriamente le situazioni degli emarginati, che il nostro sistema di vita ignora, persino coltiva. Anziani, handiccappati, tossicodipendenti, dimessi dal carcere e dagli ospedali psichiatrici: perché accrescere ulteriormente la folla dei nuovi poveri? Perché la società attuale risponde così poco a un’emarginazione clamorosa? Con gli ultimi e con gli emarginati potremo recuperare tutti un genere di vita diverso; demoliremo innanzitutto gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Riscopriremo i valori del bene comune, della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale e della corresponsabilità.
A quel punto, nel salone, si alzò in piedi un giovane prete e urlò: “Basta venire qui a fare il marxista. Rispetti l’ambiente cattolico in cui si trova e opera!”.
Allora risposi: “Mi scuso molto, ho dimenticato di citare la fonte: La chiesa e le prospettive del Paese, documento del Consiglio Permanente della CEI, Roma, 23 ottobre 1981”.
(Tratto da "Come in terra, così in cielo", di Don Andrea Gallo, pagine 49/50)
Non c'entra molto con la musica, o forse sì, e comunque per oggi mi sembra un post molto adatto.
Buon Natale a tutti :)
A quel punto, nel salone, si alzò in piedi un giovane prete e urlò: “Basta venire qui a fare il marxista. Rispetti l’ambiente cattolico in cui si trova e opera!”.
Allora risposi: “Mi scuso molto, ho dimenticato di citare la fonte: La chiesa e le prospettive del Paese, documento del Consiglio Permanente della CEI, Roma, 23 ottobre 1981”.
(Tratto da "Come in terra, così in cielo", di Don Andrea Gallo, pagine 49/50)
Non c'entra molto con la musica, o forse sì, e comunque per oggi mi sembra un post molto adatto.
Buon Natale a tutti :)
Il "P.U.C."
Va molto di moda anche quest'anno, tra il popolo dei blog musicali, il "Pensiero Unico Certificato" (P.U.C.), che si basa su una generica condivisione acritica ben esemplificata dalla frase "siamo tutti d'accordo che...".
Usando quindi alcuni postulati (che non devono evidentemente neppure essere dimostrati) del P.U.C. uniti tra di loro dalle opportune congiunzioni e/o disgiunzioni subordinative o coordinative (quindi, dunque, nonostante, però, e, oppure, etc.) si possono scrivere millemila post che otterranno l'approvazione incondizionata ed entusiastica del 99,9% dei lettori del vostro blog.
E' con umile spirito di servizio che Vi offro dunque questo utile riassunto del P.U.C. ad uso e consumo dei bloggers.
I Led Zeppellin e i Pink Floyd sono mitici.
I Doors e i Rolling Stones sono leggendari.
Bob Dylan e Bruce Springsteen sono indiscutibili.
AC/DC e Deep Purple sono energetici e divertenti.
Eddie BanHalen e Jimi Hendrix hanno rivoluzionato la chitarra.
Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi e Pelù fanno schifo.
Lady Gaga fa gagare.
Gli italiani non sanno fare il rock, costituzionalmente.
I Boston, fanno schifo. Ma se piacciono a un vostro amico di blog, allora sono bravi.
I Kiss, fanno schifo. Ma se vi piacevano quando avevate 12 anni, allora sono bravi.
Tutto l'AOR/Hard/Heavy Metal, più è pacchiano e più è bello (soprattutto se vi piaceva quando avevate 12 anni).
Tutto quello che vi piaceva a 12 anni, è bello. Ma "oggettivamente" eh, e guai a chi pensa il contrario.
Se c'è il Jazz, c'è la classe.
Se vi piace e anche se non c'è il Jazz, è pop di classe.
Se c'è il Blues, ci sono le radici.
Se c'è il R'n'B, allora si può ballare.
It's only rock'n'roll but I like it.
La musica moderna fa schifo.
La musica elettronica fa schifo.
La musica dance fa schifo.
Se qualche musica moderna/elettronica/dance piace a voi, allora è bella.
I dischi in vinile suonano meglio dei cd.
I cd suonano meglio degli mp3.
I flac, non è bello sapere cosa sono.
E comunque, come la musica dal vivo non c'è niente.
Una canzone è bella se funziona con voce e chitarra.
La matematica è fredda e non ha nulla a che vedere con la musica.
La musica è emozione, non parlatemi di tecnica e tecnologia.
I sintetizzatori sono beceri.
Gli anni '60 sono mitici.
Gli anni '70 sono mitici.
Gli anni '80 hanno prodotto solo musica di plastica.
Gli altri anni non se ne parla proprio.
Gli arrangiamenti di archi rovinano le canzoni.
Gli arrangiamenti di ottoni rovinano le canzoni.
Gli arrangiamenti rovinano le canzoni.
Gli arrangiamenti di archi e ottoni di Burt Bacharach sono la quintessenza della "classe".
Se ci sono le chitarre è rock.
Se ci sono le chitarrone è hard rock.
Se ci sono le chitarrone turbo è heavy metal.
Il jazz rock è complicato da suonare, bisogna essere musicisti coi controcoglioni.
Il progressive è complicato da suonare, bisogna essere musicisti coi controcoglioni.
Il punk tre accordi e formi una band, non devi neanche sapere suonare.
Esempi:
I Doors e i Rolling Stones sono leggendari, invece gli italiani non sanno fare il rock, costituzionalmente.
Certo, se c'è il Blues, ci sono le radici, e infatti una canzone è bella se funziona con voce e chitarra.
Bob Dylan e Bruce Springsteen sono indiscutibili mentre Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi e Pelù fanno schifo.
Anzi, la musica moderna fa schifo: infatti, gli anni '60 sono mitici e gli anni '80 hanno prodotto solo musica di plastica.
I dischi in vinile suonano meglio dei cd: infatti, la matematica è fredda e non ha nulla a che vedere con la musica.
Perchè la musica è emozione, non parlatemi di tecnica e tecnologia: tutti sanno che gli arrangiamenti rovinano le canzoni
etc.
Usando quindi alcuni postulati (che non devono evidentemente neppure essere dimostrati) del P.U.C. uniti tra di loro dalle opportune congiunzioni e/o disgiunzioni subordinative o coordinative (quindi, dunque, nonostante, però, e, oppure, etc.) si possono scrivere millemila post che otterranno l'approvazione incondizionata ed entusiastica del 99,9% dei lettori del vostro blog.
E' con umile spirito di servizio che Vi offro dunque questo utile riassunto del P.U.C. ad uso e consumo dei bloggers.
I Led Zeppellin e i Pink Floyd sono mitici.
I Doors e i Rolling Stones sono leggendari.
Bob Dylan e Bruce Springsteen sono indiscutibili.
AC/DC e Deep Purple sono energetici e divertenti.
Eddie BanHalen e Jimi Hendrix hanno rivoluzionato la chitarra.
Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi e Pelù fanno schifo.
Lady Gaga fa gagare.
Gli italiani non sanno fare il rock, costituzionalmente.
I Boston, fanno schifo. Ma se piacciono a un vostro amico di blog, allora sono bravi.
I Kiss, fanno schifo. Ma se vi piacevano quando avevate 12 anni, allora sono bravi.
Tutto l'AOR/Hard/Heavy Metal, più è pacchiano e più è bello (soprattutto se vi piaceva quando avevate 12 anni).
Tutto quello che vi piaceva a 12 anni, è bello. Ma "oggettivamente" eh, e guai a chi pensa il contrario.
Se c'è il Jazz, c'è la classe.
Se vi piace e anche se non c'è il Jazz, è pop di classe.
Se c'è il Blues, ci sono le radici.
Se c'è il R'n'B, allora si può ballare.
It's only rock'n'roll but I like it.
La musica moderna fa schifo.
La musica elettronica fa schifo.
La musica dance fa schifo.
Se qualche musica moderna/elettronica/dance piace a voi, allora è bella.
I dischi in vinile suonano meglio dei cd.
I cd suonano meglio degli mp3.
I flac, non è bello sapere cosa sono.
E comunque, come la musica dal vivo non c'è niente.
Una canzone è bella se funziona con voce e chitarra.
La matematica è fredda e non ha nulla a che vedere con la musica.
La musica è emozione, non parlatemi di tecnica e tecnologia.
I sintetizzatori sono beceri.
Gli anni '60 sono mitici.
Gli anni '70 sono mitici.
Gli anni '80 hanno prodotto solo musica di plastica.
Gli altri anni non se ne parla proprio.
Gli arrangiamenti di archi rovinano le canzoni.
Gli arrangiamenti di ottoni rovinano le canzoni.
Gli arrangiamenti rovinano le canzoni.
Gli arrangiamenti di archi e ottoni di Burt Bacharach sono la quintessenza della "classe".
Se ci sono le chitarre è rock.
Se ci sono le chitarrone è hard rock.
Se ci sono le chitarrone turbo è heavy metal.
Il jazz rock è complicato da suonare, bisogna essere musicisti coi controcoglioni.
Il progressive è complicato da suonare, bisogna essere musicisti coi controcoglioni.
Il punk tre accordi e formi una band, non devi neanche sapere suonare.
Esempi:
I Doors e i Rolling Stones sono leggendari, invece gli italiani non sanno fare il rock, costituzionalmente.
Certo, se c'è il Blues, ci sono le radici, e infatti una canzone è bella se funziona con voce e chitarra.
Bob Dylan e Bruce Springsteen sono indiscutibili mentre Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi e Pelù fanno schifo.
Anzi, la musica moderna fa schifo: infatti, gli anni '60 sono mitici e gli anni '80 hanno prodotto solo musica di plastica.
I dischi in vinile suonano meglio dei cd: infatti, la matematica è fredda e non ha nulla a che vedere con la musica.
Perchè la musica è emozione, non parlatemi di tecnica e tecnologia: tutti sanno che gli arrangiamenti rovinano le canzoni
etc.
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Alessandro Limonta
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Storie
Kraftwerk - Autobahn (1974)
Leggendo una delle recenti traduzioni in italiano di Lester Bangs, mi sono imbattuto in una sagace intervista a Hutter & Schneider in cui il giornalista da un lato li prendeva sul serio con domande ben poste e perchè no, sensate, mentre nelle sue riflessioni personali li osservava quasi con scherno e diffidenza. Era comprensibile che lo spirito guascone e genuinamente spericolato di Bangs andasse a cozzare senza remore sul muro di rigore e inflessibilità dei teutonici, ma nonostante tutto, grazie anche ad una possibile sobrietà del momento, l'intervista fu appassionata ed interessantissima.
Ora, credo che diversi milioni di persone abbiano sentito il refrain principale di Autobahn, che aprì ai Kraftwerk le porte della popolarità persino oltre oceano. Vuoi frutto della novità che gli ancor giovani sintetizzatori portavano alla musica, vuoi risultato di un azzeccato ed accessibile motivo melodico, vuoi metafora della modernizzazione che gli anni '70 portavano in dote, forse la somma di tutti e tre. Fattosta che la stagione gloriosissima della musica tedesca di quegli anni si meritava un po' di visibilità, vista l'azione innovativa che diversi agitatori stavano diffondendo in rapida successione. Mentre Can, Neu!, Faust, Tangerine Dream, Popol Vuh ed altri rivoluzionavano e creavano avanguardie di diverse fatture, i Kraftwerk cercavano una loro identità, non senza fatica.
Una volta tanto sfato il mio mito personale che generalmente smonta i prodotti più commerciali nella fase di un artista. I dischi precedenti ad Autobahn non erano malvagi, ma risentivano di indecisione e scarsa omogeneità. La title-track, lunga quasi 23 minuti, giunse pertanto come un ancora di salvataggio, specialmente in senso artistico. Una progressione irresistibile di tastiere elettroniche, beat digitale e voci disincantate (non proprio eccelse ma perfette nel contesto) occupa i primi 4 minuti. Seguono poi in successione le diverse fasi della suite: una "naturistica" con chitarrine, violoncello, flautino, un'involuzione meccanica tetra e minacciosa, una mistica corale, una solenne con il celebre motorik sotto (non bisogna dimenticare che qualche anno prima i Neu! avevano fatto parte della formazione!), tutte contrassegnate dal comune denominatore del ritornello che fa capolino, sornione e smaliziato.
L'altra facciata del vinile vive di fasi alterne. Kometenmelodie 1 è una scura divagazione senza meta, mentre la 2 torna alla luminosità di Autobahn con un insistente incastro di tastierine. Mitternacht è la loro ambientazione cavernosa, fatta di scansioni percussive glaciali, tetri organi a canne e geyser intermittenti.
Un cinguettio elettronico (!) segna l'inizio dell'altro vertice del disco, la pastorale ed umanissima Morgenspaziergang. Si esce dalla centrale elettrica, si spengono le luci perchè è l'alba. Prima un flautino, poi un arpa, infine chitarrine e piano intonano un giro rilassante e contemplativo, fino al fading out che lascia sazi e contenti di questo disco multi-atmosferico.
Da allora Hutter & Schneider replicheranno più volte quel successo con altri hits del genere, ma i loro standard si abbasseranno progressivamente. Per cui, ritengo che Autobahn sia il loro miglior disco in quanto media equilibratissima fra scarse velleità avanguardistico/sperimentali e ottime potenzialità compositive / pop.
Ora, credo che diversi milioni di persone abbiano sentito il refrain principale di Autobahn, che aprì ai Kraftwerk le porte della popolarità persino oltre oceano. Vuoi frutto della novità che gli ancor giovani sintetizzatori portavano alla musica, vuoi risultato di un azzeccato ed accessibile motivo melodico, vuoi metafora della modernizzazione che gli anni '70 portavano in dote, forse la somma di tutti e tre. Fattosta che la stagione gloriosissima della musica tedesca di quegli anni si meritava un po' di visibilità, vista l'azione innovativa che diversi agitatori stavano diffondendo in rapida successione. Mentre Can, Neu!, Faust, Tangerine Dream, Popol Vuh ed altri rivoluzionavano e creavano avanguardie di diverse fatture, i Kraftwerk cercavano una loro identità, non senza fatica.
Una volta tanto sfato il mio mito personale che generalmente smonta i prodotti più commerciali nella fase di un artista. I dischi precedenti ad Autobahn non erano malvagi, ma risentivano di indecisione e scarsa omogeneità. La title-track, lunga quasi 23 minuti, giunse pertanto come un ancora di salvataggio, specialmente in senso artistico. Una progressione irresistibile di tastiere elettroniche, beat digitale e voci disincantate (non proprio eccelse ma perfette nel contesto) occupa i primi 4 minuti. Seguono poi in successione le diverse fasi della suite: una "naturistica" con chitarrine, violoncello, flautino, un'involuzione meccanica tetra e minacciosa, una mistica corale, una solenne con il celebre motorik sotto (non bisogna dimenticare che qualche anno prima i Neu! avevano fatto parte della formazione!), tutte contrassegnate dal comune denominatore del ritornello che fa capolino, sornione e smaliziato.
L'altra facciata del vinile vive di fasi alterne. Kometenmelodie 1 è una scura divagazione senza meta, mentre la 2 torna alla luminosità di Autobahn con un insistente incastro di tastierine. Mitternacht è la loro ambientazione cavernosa, fatta di scansioni percussive glaciali, tetri organi a canne e geyser intermittenti.
Un cinguettio elettronico (!) segna l'inizio dell'altro vertice del disco, la pastorale ed umanissima Morgenspaziergang. Si esce dalla centrale elettrica, si spengono le luci perchè è l'alba. Prima un flautino, poi un arpa, infine chitarrine e piano intonano un giro rilassante e contemplativo, fino al fading out che lascia sazi e contenti di questo disco multi-atmosferico.
Da allora Hutter & Schneider replicheranno più volte quel successo con altri hits del genere, ma i loro standard si abbasseranno progressivamente. Per cui, ritengo che Autobahn sia il loro miglior disco in quanto media equilibratissima fra scarse velleità avanguardistico/sperimentali e ottime potenzialità compositive / pop.
Sea Song - Robert Wyatt
Robert Wyatt, batterista cantante leader e fondatore dei Soft machine, storico gruppo del jazz-rock-progressive inglese, abbandona la sua innovativa creatura dopo appena 3 album. Pubblica un album solista "The end of an ear" considerato dalla critica un capolavoro del progressive e poi fonda un altro gruppo i "Matching mole" (gioco di parole sulla traduzione in francese di soft machine "molle machine"). Nel 1973 durante un party molto movimentato precipita dal 3° piano di un appartamento, sopravvive, ma riporta una paralisi permanente agli arti inferiori.
Questo incidente lo segnerà nella vita e nel prosieguo della sua carriera di musicista.
Da questo momento lascerà ovviamente la batteria di cui era considerato un maestro, per dedicarsi al canto ed alla composizione. I suoi strumenti d'elezione diventeranno la voce e le tastiere.
Nel 1974 pubblica un album che si intitola "Rock bottom", un manifesto della rinascita, dell'uscita dalla malattia, metaforicamente anche dalla menomazione, un ripensamento e riposizionamento artistico ed esistenziale.
Questo disco rappresenta e richiede anche all'ascoltatore un cambio di prospettiva radicale. Lo esige e lo merita.
Ho cominciato a scrivere volendo parlare di una canzone "Sea song" e mi rendo che è arduo perchè, facendo parte di un concept album ambizioso e difficile, è come prendere una frase di un grande scrittore e decontestualizzarla dal suo contesto.
Sea song è la canzone che apre il disco. E' strana, ha una melodia sghemba, che all'inizio, ai primi ascolti, ricordo che non riuscii a cogliere nella sua profonda bellezza.
Ci vuole umiltà per capirla ed apprezzarla, bisogna un po' abbandonare i propri schemi, rimettersi in discussione. Wyatt usa la metafora del mare, dell'acqua, per raccontare il suo viaggio esistenziale alla ricerca delle radici sue, della musica, e della vita.
Già l'acqua dalla quale nasciamo individualmente nel ventre materno, nasciamo come specie, come vita sulla terra. Questo album, e la canzone che ne prendo a simbolo, è il racconto di tutto questo. L'acqua come luogo dove i movimenti ed i suoni sono diversi da quelli della terra ferma, l'acqua come luogo dove cercare il significato vero, ultimo delle cose superando per sempre la gabbia-dialettica significato-significante.
Morte e resurrezione, capire che l'importante è essere ciò che si è realmente e non ciò che ci è permesso d'essere. Recuperare la propria poliedricità, siamo umani e siamo composti da livelli multipli eppure spesso, se non quando ci troviamo davanti alla menomazione, alla malattia, sembra che ci accontentiamo di vivere come uomini ad una dimensione. Wyatt declina la propria disavventura umana, la sua realtà di invalido, rapportandola alla vita di tutti, la sua uscita dal tunnel diventa traccia per tutti di crescita esistenziale. Parallelamente spoglia la musica dai conformismi, dalle convenzioni dagli abbellimenti che spesso sono solo vuoto formalismo e va a recuperare le coordinate essenziali della melodia, la semplicità dello strumento voce; gli stessi testi vengono progressivamente destrutturati, le parole perdono il loro significante per recuperare il significato primigenio del suono, senza tempo, senza spazio, senza barriere linguistiche.
Questo incidente lo segnerà nella vita e nel prosieguo della sua carriera di musicista.
Da questo momento lascerà ovviamente la batteria di cui era considerato un maestro, per dedicarsi al canto ed alla composizione. I suoi strumenti d'elezione diventeranno la voce e le tastiere.
Nel 1974 pubblica un album che si intitola "Rock bottom", un manifesto della rinascita, dell'uscita dalla malattia, metaforicamente anche dalla menomazione, un ripensamento e riposizionamento artistico ed esistenziale.
Questo disco rappresenta e richiede anche all'ascoltatore un cambio di prospettiva radicale. Lo esige e lo merita.
Ho cominciato a scrivere volendo parlare di una canzone "Sea song" e mi rendo che è arduo perchè, facendo parte di un concept album ambizioso e difficile, è come prendere una frase di un grande scrittore e decontestualizzarla dal suo contesto.
Sea song è la canzone che apre il disco. E' strana, ha una melodia sghemba, che all'inizio, ai primi ascolti, ricordo che non riuscii a cogliere nella sua profonda bellezza.
Ci vuole umiltà per capirla ed apprezzarla, bisogna un po' abbandonare i propri schemi, rimettersi in discussione. Wyatt usa la metafora del mare, dell'acqua, per raccontare il suo viaggio esistenziale alla ricerca delle radici sue, della musica, e della vita.
Già l'acqua dalla quale nasciamo individualmente nel ventre materno, nasciamo come specie, come vita sulla terra. Questo album, e la canzone che ne prendo a simbolo, è il racconto di tutto questo. L'acqua come luogo dove i movimenti ed i suoni sono diversi da quelli della terra ferma, l'acqua come luogo dove cercare il significato vero, ultimo delle cose superando per sempre la gabbia-dialettica significato-significante.
Morte e resurrezione, capire che l'importante è essere ciò che si è realmente e non ciò che ci è permesso d'essere. Recuperare la propria poliedricità, siamo umani e siamo composti da livelli multipli eppure spesso, se non quando ci troviamo davanti alla menomazione, alla malattia, sembra che ci accontentiamo di vivere come uomini ad una dimensione. Wyatt declina la propria disavventura umana, la sua realtà di invalido, rapportandola alla vita di tutti, la sua uscita dal tunnel diventa traccia per tutti di crescita esistenziale. Parallelamente spoglia la musica dai conformismi, dalle convenzioni dagli abbellimenti che spesso sono solo vuoto formalismo e va a recuperare le coordinate essenziali della melodia, la semplicità dello strumento voce; gli stessi testi vengono progressivamente destrutturati, le parole perdono il loro significante per recuperare il significato primigenio del suono, senza tempo, senza spazio, senza barriere linguistiche.
Franco Fabbri e Stefano Giaccone
Franco Fabbri è il mio nuovo mito: in ogni suo scritto l'indice di cipp[1] è altissimo, probabilmente vicino all'uno.
Dopo aver finito "Album bianco" ho cominciato a leggere "L'ascolto tabù".
A pagina 184/185 trovo[2] (e trascrivo):
Stefano Giaccone è uno di quelli che mi piacciono di più. Un mio autorevole collega, quando gliene avevo parlato, mi aveva risposto ironicamente (ma non troppo): "Se non l'ho mai sentito nominare io, chi vuoi che l'abbia sentito nominare?"
Così ho fatto sentire ai giovani del centro sociale "Punto di Fine", di Stefano Giaccone, convinto di illustrare nel modo migliore possibile la capacità del Festival di Mantova di scoprire talenti. Il fatto è che tutti, lì, conoscevano benissimo Stefano Giaccone, e quando ho detto che aveva fatto parte del gruppo dei Franti, come Lalli (altra invitata a Mantova) ho visto tante teste fare cenno di sì: ma certo, Franti, come no? Il mio autorevole collega non conosceva nè Lalli (il cui album, prima dell'estate, è stato recensito entusiasticamente) nè i Franti.
Succede quindi, e ci vuole poco a immaginarlo, che la popolarità si ramifichi in contesti e pubblici diversi, e che un criterio unico sia difficile da formulare.
Tanto più in tempi come questi, in cui le vendite di dischi sono ridotte al minimo, anche per gli artisti apparentemente più famosi, cosicchè può facilmente accadere che album semiclandestini di piccole etichette abbiano una circolazione superiore a certi album pubblicizzati dalle majors.
Franco Fabbri che parla di Stefano Giaccone, Lalli e Franti: cosa si può trovare di meglio in poco più di una pagina di un libro?
Note e links:
[1] "Cose intelligenti per paragrafo": un indice di cipp di 0,5 vuol dire una cosa intelligente ogni due paragrafi, ed è già notevolmente alto.
Lo scrittore/giornalista/blogger medio, me compreso ovviamente, viaggia intorno allo 0,01 (una cosa intelligente ogni 100 paragrafi), quando non riesce magicamente a raggiungere indici negativi, la cui interpretazione rifugge all'umana logica.
[2] E' un articolo che parla della prima edizione del Mantova Musica Festival (2004) e della presentazione fatta durante una conferenza tenuta in un non meglio specificato Centro Sociale.
[3] Di Stefano Giaccone e dell'universo che fa capo ai Franti ho già scritto diverse volte su Place to Be.
La maggior parte delle loro cose le potete trovare su stella*nera, ne ha già accennato Enrico nei post su Marco Pandin.
Dopo aver finito "Album bianco" ho cominciato a leggere "L'ascolto tabù".
A pagina 184/185 trovo[2] (e trascrivo):
Stefano Giaccone è uno di quelli che mi piacciono di più. Un mio autorevole collega, quando gliene avevo parlato, mi aveva risposto ironicamente (ma non troppo): "Se non l'ho mai sentito nominare io, chi vuoi che l'abbia sentito nominare?"
Così ho fatto sentire ai giovani del centro sociale "Punto di Fine", di Stefano Giaccone, convinto di illustrare nel modo migliore possibile la capacità del Festival di Mantova di scoprire talenti. Il fatto è che tutti, lì, conoscevano benissimo Stefano Giaccone, e quando ho detto che aveva fatto parte del gruppo dei Franti, come Lalli (altra invitata a Mantova) ho visto tante teste fare cenno di sì: ma certo, Franti, come no? Il mio autorevole collega non conosceva nè Lalli (il cui album, prima dell'estate, è stato recensito entusiasticamente) nè i Franti.
Succede quindi, e ci vuole poco a immaginarlo, che la popolarità si ramifichi in contesti e pubblici diversi, e che un criterio unico sia difficile da formulare.
Tanto più in tempi come questi, in cui le vendite di dischi sono ridotte al minimo, anche per gli artisti apparentemente più famosi, cosicchè può facilmente accadere che album semiclandestini di piccole etichette abbiano una circolazione superiore a certi album pubblicizzati dalle majors.
Franco Fabbri che parla di Stefano Giaccone, Lalli e Franti: cosa si può trovare di meglio in poco più di una pagina di un libro?
Note e links:
[1] "Cose intelligenti per paragrafo": un indice di cipp di 0,5 vuol dire una cosa intelligente ogni due paragrafi, ed è già notevolmente alto.
Lo scrittore/giornalista/blogger medio, me compreso ovviamente, viaggia intorno allo 0,01 (una cosa intelligente ogni 100 paragrafi), quando non riesce magicamente a raggiungere indici negativi, la cui interpretazione rifugge all'umana logica.
[2] E' un articolo che parla della prima edizione del Mantova Musica Festival (2004) e della presentazione fatta durante una conferenza tenuta in un non meglio specificato Centro Sociale.
[3] Di Stefano Giaccone e dell'universo che fa capo ai Franti ho già scritto diverse volte su Place to Be.
La maggior parte delle loro cose le potete trovare su stella*nera, ne ha già accennato Enrico nei post su Marco Pandin.
Genesis 1970 - 1975 (Remasters 2008)
Dopo tante incertezze e tanto rimandare mi sono deciso a scrivere una recensione tecnica di un disco.
Già perchè oltre ad essere un musicofilo sono pure un audiofilo.
Sino ad oggi mi aveva trattenuto una forma di pudore dal “divulgare” la composizione del mio impianto stereo. Poi ho pensato, tutto sommato ha i suoi anni, tutti i componenti o quasi sono fuori produzione e poi che le persone pensino pure male.
Oggetto della prova sarà un album del cofanetto in vinile dei Genesis “1970 – 1975” che comprende, da titolo, i cinque album di studio usciti tra il 1970 ed il 1975: Trespass; Nursery Crime; Foxtrot; Selling England By The Pound; The Lamb Lies Down On Broadway.
Si tratta di una ristampa molto curata con vinili da 200 gr. rimasterizzati in “half speed masterng”. Straordinaria anche la qualità delle copertine in un cartoncino particolarmente pesante e stampato con tutti i crismi.
Ho scelto un album solo per la prova e si tratta di Selling England By The Pound.
Farò un ascolto comparato con una normale versione in vinile e con la versione in cd.
L'impianto d'ascolto è così composto: fonte analogica giradischi Project Perspective con controtelaio flottante sospeso su tre molle, testina MM Goldring 1042, pre phono Musical Fidelity XLP; fonte digitale cdp Meridian 506, vecchiotto ma decisamente ancora ben suonante; cavi di segnale Nordost e Monster Cable; amplificazione integrata Krell Kav 300i; cavi di potenza Nordost Flatline in single wiring; diffusori KEF Reference Model Two da pavimento con tweeter UNI – Q.
Già perchè oltre ad essere un musicofilo sono pure un audiofilo.
Sino ad oggi mi aveva trattenuto una forma di pudore dal “divulgare” la composizione del mio impianto stereo. Poi ho pensato, tutto sommato ha i suoi anni, tutti i componenti o quasi sono fuori produzione e poi che le persone pensino pure male.
Oggetto della prova sarà un album del cofanetto in vinile dei Genesis “1970 – 1975” che comprende, da titolo, i cinque album di studio usciti tra il 1970 ed il 1975: Trespass; Nursery Crime; Foxtrot; Selling England By The Pound; The Lamb Lies Down On Broadway.
Si tratta di una ristampa molto curata con vinili da 200 gr. rimasterizzati in “half speed masterng”. Straordinaria anche la qualità delle copertine in un cartoncino particolarmente pesante e stampato con tutti i crismi.
Ho scelto un album solo per la prova e si tratta di Selling England By The Pound.
Farò un ascolto comparato con una normale versione in vinile e con la versione in cd.
L'impianto d'ascolto è così composto: fonte analogica giradischi Project Perspective con controtelaio flottante sospeso su tre molle, testina MM Goldring 1042, pre phono Musical Fidelity XLP; fonte digitale cdp Meridian 506, vecchiotto ma decisamente ancora ben suonante; cavi di segnale Nordost e Monster Cable; amplificazione integrata Krell Kav 300i; cavi di potenza Nordost Flatline in single wiring; diffusori KEF Reference Model Two da pavimento con tweeter UNI – Q.
Vinile contro vinile.
Sin dal primo momento che Peter Gabriel intona quel “Can you tell me where my country lies?”, dalla prima canzone del lato A “Dancing Withe The Moonlit Knight”, ci si rende conto che il confronto non è nemmeno proponibile.
A livello timbrico la voce nella versione “audiophile” ha una profondità che riempe la stanza d'ascolto, calore, spessore, ricchezza timbrica, ricostruzione del frontstage, profondità di campo. Un altro pianeta. Gli strumenti, sulle piccole percussioni, sulle corde delle chitarre, le pelli della qui magnifica batteria di Collins, tutto suona limpido, traparente, dinamico sempre perfettamente a fuoco anche nei pieno strumentali.
Il divario si conferma anche con la seconda canzone “I Know What Like (in your wardrobe)” e diventa abissale con l'intro di pianoforte di “Firth of Fifth”.
Le differenze su tutti parametri sono così nette che non ha senso insistere ulteriormente nella prova.
Passiamo allora al confronto tra analogico - digitale.
Mentre nel caso della prima prova mi aspettavo le differenze poi puntualmente riscontrate non altrettanto nel caso del confronto lp/cd.
Il cd è una buona versione, rimasterizzata in modo intelligente, senza effetti zinzin -zumzum, eppure , eppure ora è divenuta quasi inascoltabile, la terrò solo per questioni affettive e perchè il cd ha dalla sua di essere più comodo per l'ascolto di quanto non lo sia un disco di vinile. Pure il mio amato Meridian suona più che bene e sa tirar fuori dai dischetti argentati la parte “analogica” ed almeno per quel che riguarda ritmo d'esecuzione, dinamiche e musicalità in generale sa difendersi più che bene. Ma qui non è un problema di fonte, o non solo, si tratta proprio della qualità del supporto.
Vale la pena di chiudere la prova con delle considerazioni finali sulla qualità audio di questa ristampa audiophile di Selling England By The Pound. I tecnici inglesi hanno fatto veramente un grande lavoro. Quest'edizione è tecnicamente curatissima e produce miglioramenti audio stupefacenti, rinunciando nel contempo alla facile spettacolarizzazione di un qualche singolo parametro. La ricerca dell'equilibrio e della musicalità è stato l'obiettivo ricercato e brillantemente ottenuto. All'interno di questo equilibrio non è stato trascurato nulla, timbrica, ricostruzione scenica, contrasti e microcontrasti dinamici, alla base di tutto un grande amore per la musica ancor prima che per la tecnica.
Per gli amanti dei Genesis e del bel suono: IRRINUNCIABILE.
Dopo tanto parlar bene dell'album e del cofanetto (ad un primo ascolto anche gli altri album sono eccelsi) bisogna anche menzionare un paio di difetti: il primo e più grave consiste nel non aver incluso anche gli altri due album ufficiali del periodo Gabriel e cioè Genesis From Revelation e soprattutto il bellissimo Genesis Live, l'unico Live ufficiale dei Genesis con Peter Gabriel, e poi il non aver previsto un book annesso al cofanetto che considerato il costo dello stesso era d'obbligo.
Sin dal primo momento che Peter Gabriel intona quel “Can you tell me where my country lies?”, dalla prima canzone del lato A “Dancing Withe The Moonlit Knight”, ci si rende conto che il confronto non è nemmeno proponibile.
A livello timbrico la voce nella versione “audiophile” ha una profondità che riempe la stanza d'ascolto, calore, spessore, ricchezza timbrica, ricostruzione del frontstage, profondità di campo. Un altro pianeta. Gli strumenti, sulle piccole percussioni, sulle corde delle chitarre, le pelli della qui magnifica batteria di Collins, tutto suona limpido, traparente, dinamico sempre perfettamente a fuoco anche nei pieno strumentali.
Il divario si conferma anche con la seconda canzone “I Know What Like (in your wardrobe)” e diventa abissale con l'intro di pianoforte di “Firth of Fifth”.
Le differenze su tutti parametri sono così nette che non ha senso insistere ulteriormente nella prova.
Passiamo allora al confronto tra analogico - digitale.
Mentre nel caso della prima prova mi aspettavo le differenze poi puntualmente riscontrate non altrettanto nel caso del confronto lp/cd.
Il cd è una buona versione, rimasterizzata in modo intelligente, senza effetti zinzin -zumzum, eppure , eppure ora è divenuta quasi inascoltabile, la terrò solo per questioni affettive e perchè il cd ha dalla sua di essere più comodo per l'ascolto di quanto non lo sia un disco di vinile. Pure il mio amato Meridian suona più che bene e sa tirar fuori dai dischetti argentati la parte “analogica” ed almeno per quel che riguarda ritmo d'esecuzione, dinamiche e musicalità in generale sa difendersi più che bene. Ma qui non è un problema di fonte, o non solo, si tratta proprio della qualità del supporto.
Vale la pena di chiudere la prova con delle considerazioni finali sulla qualità audio di questa ristampa audiophile di Selling England By The Pound. I tecnici inglesi hanno fatto veramente un grande lavoro. Quest'edizione è tecnicamente curatissima e produce miglioramenti audio stupefacenti, rinunciando nel contempo alla facile spettacolarizzazione di un qualche singolo parametro. La ricerca dell'equilibrio e della musicalità è stato l'obiettivo ricercato e brillantemente ottenuto. All'interno di questo equilibrio non è stato trascurato nulla, timbrica, ricostruzione scenica, contrasti e microcontrasti dinamici, alla base di tutto un grande amore per la musica ancor prima che per la tecnica.
Per gli amanti dei Genesis e del bel suono: IRRINUNCIABILE.
Dopo tanto parlar bene dell'album e del cofanetto (ad un primo ascolto anche gli altri album sono eccelsi) bisogna anche menzionare un paio di difetti: il primo e più grave consiste nel non aver incluso anche gli altri due album ufficiali del periodo Gabriel e cioè Genesis From Revelation e soprattutto il bellissimo Genesis Live, l'unico Live ufficiale dei Genesis con Peter Gabriel, e poi il non aver previsto un book annesso al cofanetto che considerato il costo dello stesso era d'obbligo.
Brown Rice
Sono strani i percorsi che ci portano ad amare dischi assai distanti dal genere di ascolti a cui siamo più abituati. Da giovanissimo la conoscenza e la frequentazione di persone più grandi mi è servita proprio a questo: aprire nuove porte e placare la mia fame di conoscenza musicale e non solo.
Questo album era una delle colonne sonore delle serate da mio cugino, che a vent'anni viveva già da solo. La sua casa si trasformò ben presto in un porto di mare e io ero come un mozzo che ascoltava affascinato storie dei freaks marinai e viaggi in Oriente. Anni di passaggio e trasformazione; anni che avrebbero segnato le vite di tutti noi e scatenato in molti la voglia di viaggiare e fuggire dalla vita di provincia. L'India restava ancora una meta ambita dai più grandi, compreso mio cugino, che se ne partì quando gli anni '70 erano ai titoli di coda. Ritornò sei mesi dopo con i tabla sotto braccio, ma un'epoca era ormai finita e in sua assenza si era consumato l'ammutinamento: nel giro di un inverno, sul piatto della Ca' de Camel (così battezzata per il murales della facciata) cominciarono a girare Devo, Clash e Talking Heads.
Certi suoni però non si dimenticano e col tempo riaffiorano alla mente, stimolando la curiosità e la voglia di approfondire. Così qualche anno fa mi sono procurato questo disco per tornare ad immergermi con stupore nelle sue note fluide.
Certi suoni però non si dimenticano e col tempo riaffiorano alla mente, stimolando la curiosità e la voglia di approfondire. Così qualche anno fa mi sono procurato questo disco per tornare ad immergermi con stupore nelle sue note fluide.
Don Cherry (1936-1945) è stato un personaggio incredibile. Grande trombettista ed esploratore globale, amava viaggiare, ascoltare e sperimentare sempre nuovi strumenti, specie quelli non occidentali. Il suo nome è stato legato per molti anni al free jazz come membro del quartetto di Ornette Coleman, ma è stato anche uno dei primi musicisti ad avvicinarsi alla musica etnica, utilizzandola con naturalezza molto prima che diventasse una moda.
Brown Rice (1975) è un viaggio formato da quattro composizioni; una combinazione di elementi mediorientali, africani e americani, anticipatrice della world music e frutto di una libertà compositiva irripetibile. La copertina qui a fianco è quella originale dell'album, che è stato ristampato in cd qualche anno fa con una foto del musicista con la tromba in mano.
Brown Rice ci introduce a questo disco magico con una nenia notturna, ripetitiva e ipnotica, sorretta da una fantastica linea di basso funk distorto con l'uso del wah-wah sulla quale Don Cherry sussurra parole magiche, come in una specie di rituale.
Malkauns apre con un prolungato assolo di basso dal sapore esotico dato anche dalla presenza del tamboura, uno dei più antichi strumenti dell'India, le cui corde creano quel continuo sottofondo tipico delle musica indiana. Dopo più di quattro minuti entra la tromba di Don Cherry accompagnata dalla batteria in un assolo che mette in luce tutta la sua bravura.
Chenrezic, il terzo brano, ci trasporta in un'atmosfera inizialmente dal sapore africano in cui il trombettista recita una specie di mantra spirituale. Poi entra il piano che introduce lo splendido dialogo tra tromba e sax.
Degi-degi, chiude l'album con un sapore fortemente afro-funk. E' il brano che preferisco. Inizia con un giro serrato di basso sul quale Cherry ritorna al suo sussurro rima-canto che si alterna a maestosi giri di tromba, mentre il resto della band si lancia in un groove ipnotico e poliritmico. Meravigliosa conclusione di un disco magico che ho riscoperto.
Don Cherry - tromba, electric piano, voce
Frank Lowe - sax tenore
Ricky Cherry - electric piano
Charlie Haden - acoustic bass
Hakim Jamil - acoustic bass
Moki - tamboura
Billy Higgins - batteria
Bunchie Fox - electric bongos
Verna Gillis - voce
Scoprire il mondo con i Rubettes
Davide ha già dodici anni, compiuti ieri, il 4 di Agosto. Abbiamo mangiato la torta gelato sulla spiaggia per
festeggiare il suo compleanno.
Io li compirò tra qualche mese dodici anni, tra Natale e Capodanno, ma ne dimostro ancora non più di dieci e non mi importa molto di sembrare più grande.
Davide è il mio migliore amico e passiamo le vacanze insieme da almeno tre anni. Nel frastuono del baretto dove giochiamo rumorosamente a calcino (calcio balilla) come se fosse in palio la Coppa dei Campioni il juke-box (esisteva, io l'ho visto) rimbomba a volume altissimo:
Aaaaaaaahhhh........aiaiaiaiaiaà........aiaiaiaiaià
uauauaà........uacciueri...............uacciueri ueriuà
.....cciueri........attacco prodigioso (campane comprese) che introduce Sugar Baby Love dei (delle? degli?) Rubettes, il più grande successo dell'estate che io e Davide stiamo trascorrendo beati e spensierati dietro i nostri dodici (quasi dodici) anni.
Non sappiamo neanche di chi è, che cosa sia il Glam Rock, che cosa sia la versione pataccara del Glam Rock, ma in fondo checcefrega.
Abbiamo dodici anni (quasi dodici) e giochiamo a pallone di giorno, a calcino la sera. Questo ci basta.
Mentre sto rimontando il pesante passivo ricorrendo al vietatissimo movimento di frullino, Davide si distrae.
Goooool! Faccio io.
E lui resta un po lì in surplace, basito e svanito.
(aaaaaa.....aiaiaiaiaia........)
Curiosamente seguo il suo sguardo per capire dove si stia posando: ohibò una ragazzina biondina con un vestitino azzurro lucido, scarpette ballerina argentate, trucco e rossettino rosa tipo barbie.
Che lo riguarda.
(uacci ueri ueri)
Davide, 'zzo fai? Gioca!
Aspetta un attimo, fa lui lasciando andare le manopole al loro destino rotante.
Ovviamente (ueri ueri uà) non finimmo mai quella partita.
Lui e lei si avvicinarono e si misero a parlare (di che?). C'era nei loro occhi una luce misteriosa che non
avevo mai visto prima.
(sugar baby love...sugar baby love....)
L'autunno successivo a scuola finalmente capii qualcosa di più dello strano evento, quando anch'io mi sentii per la prima volta rincoglionito dietro due grandi occhi blu. E presi quattro all'interrogazione. Senza i Rubettes e senza canzonette.
I primi dolori originati dalle donne: una partita di calcino mai finita, la gelosia per la disattenzione del mio migliore amico, un brutto voto sul registro.
Ancora adesso che sono "leggermente" più grande, quando entro in un posto e vedo qualche ragazzino che gioca a calcino, i Rubettes mi ritornano nelle orecchie come i peperoni nello stomaco, con tutta la loro banalissima sconcertante e tremenda verità:
"Pipol teik mai advais:
if iu lov sambadi dont fink tuais. Lov iu bebi lov, sciugar bebi lov, lov' er eniuai, lov' er evridai".
The Best of the Rest - 2010
Mai come in questo 2010 la musica ha significato per me un gesto di misericordia. Oh mercy e anche un fistful of mercy. Non posso dire che la musica mi abbia salvato la vita, in questo 2010, ma c'è andata vicino. E se ciò è stato possibile, devo ringraziare due angioletti custodi che mi hanno sovvenzionato, avvisato, regalato dosi di musica essenziali, nelle persone di Ch. e The Mighty Diana.
Non so se debba uscire ancora qualche disco clamoroso in questo ultimo scorcio di 2010, ma ecco qua una lista, non in ordine di preferenza, ma di memoria. A cui allego le due canzoni che mi sono piaciute di più quest'anno e anche i concerti memorabili del 2010, che sono stati veramente concerti memorabili, tra i più belli della mia (lunga) vita.
DISCHI:
John Grant, Queen of Denmark
The National - High Violet
Natalie Merchant - Leave Your Sleep
The Secret Sisters, The secret Sisters
The Tallest Man on Earth - The Wild Hunt
Robert Plant - Band of Joy
Emma Tricca, Minor White
Josh Ritter - So Runs The World Away
Midlake - The Courage Of Others
Fistful of Mercy, As I call you down
Elton John-Leon Russell, The Union
Neil Young, Le noise
Mavis Staples, You’re not alone
Band of Horses, Infinite arms
Jakob Dylan, Women and country
Ry Cooder and Chieftains, San Patricio
ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER, True Love Cast Out All Evil
Ristampe:
Bob Dylan, The Original Mono Recordings, John Martyn, Live at Leeds
Concerti:
Kris Kristofferson, Vigevano; Tallest Man on Earth, Londra; John Grant + Midlake, Londra; Fistful of Mercy, Milano; Josh Ritter + Swell Season, Milano
Canzone dell’anno:
Annabelle Lee, Josh Ritter; I and Love and You, Avett Brothers; Rulers, Ruling all Things, Midlake
Gaznevada - Sick Soundtrack
Ero al primo anno di università a Bologna e uscendo una sera dal mio appartamento di via Sant'Isaia per un giro in centro, scoprii quasi per caso il Punkreas, un locale ricavato nella cantina di un ex circolo anarchico. Entrai e in apparenza pareva una delle tante tipiche osterie di Bologna, ma mi sbagliavo. In pochi minuti il locale underground cominciò a riempirsi di ragazzi e ragazze che dall'aspetto non parevano i tipici studenti frequentatori di osterie. Quella sera si esibivano i Gaznevada, gruppo bolognese a me sconosciuto, probabilmente in una delle prime uscite di una certa importanza. Suonarono alcuni brani dei Ramones ma anche pezzi loro e malgrado emergessero alcuni limiti tecnici, si intuiva che stava nascendo qualcosa di nuovo. Suoni e idee partoriti dalla Bologna del '77 di Radio Alice, del movimento e della cultura alternativa, ora già post-punk e avviata verso territori comunicativi inesplorati che avrebbero portato alla luce artisti geniali come Andrea Pazienza e Scozzari e che aveva già fatto emergere un gruppo cult demenziale come gli Skiantos.
L'anno dopo comprai il loro primo 33 giri Sick Soundtrack (sottotitolo: The invincible guardians of world’s freedom) e constatai con entusiasmo che gli "sbarbi" erano parecchio migliorati sotto tutti i punti di vista. Abbandonati subito gli esordi in stile Ramones, i Gaznevada erano stati capaci di creare qualcosa di assolutamente originale per il panorama ammuffito della musica italiana di quegli anni: una nuova prospettiva musicale... erano i figli del post punk americano e furono bravissimi, autentici surfisti dell'immaginario a prendere l'onda buona della new wave adattandola alla fantasia nostrana che rifletteva nell'universo rock la parte creativa del movimento bolognese del '77. Sick Soundtrack, primo LP dei Gaznevada, era un ingorgo stupefacente di intuizioni fra Devo e Contortions ('Going Underground'), Talking Heads (Oil Tubes), no wave newyorkese, psichedelia ... (Flavio Brighenti).
Purtroppo nel giro di pochi anni furono risucchiati e integrati dal business musicale. Dopo l'uscita del singolo I.C. love affair, che nel 1982 era ballato in tutte le piste, comparvero alcune volte in tv, intristiti nello stile italian dance-music tipicamente trash di quegli anni.
Vita breve e autodistruzione di una delle band di punta della new wave italiana.
Vita breve e autodistruzione di una delle band di punta della new wave italiana.
Lo strano caso dei dischi in vinile e dei delay digitali
Credo che esista una vasta non-conoscenza di argomenti tecnici legati alla musica anche tra chi si dice "appassionato", sia per quello che riguarda gli aspetti musicali in senso stretto (composizione, arrangiamento) che per quello che riguarda gli aspetti tecnici legati alla realizzazione dei supporti fonografici (registrazione e produzione fisica).
Secondo me, sono cose che aiutano a capire meglio la musica. Probabilmente lo penso solo perchè sono sbruffone e pedante, ma con la mia tipica spocchia ne parlo lo stesso.
Quindi, come si produce un disco?
In sintesi:
1 - Si registrano i diversi strumenti su un registratore multitraccia (multitrack recording)
2 - Si mixa la registrazione su due tracce (mixdown o stereo mixdown)
3 - Si masterizza il mixdown (master)
Il "master" può essere differente tra la produzione di un cd o di un vinile.
Partendo dal master, per produrre un cd:
4 - Si prepara un "Glass master" (immagine positiva)
5 - Dal Glass master si ricavano diverse matrici di stampa, in metallo (immagine negativa)
6 - Dalle matrici si ricavano, per mezzo di una pressa, i cd (immagine positiva)
Per produrre un vinile:
4 - Dal master si ricava la "lacca" (lacquer) tramite un apposito "giradischi" (lathe cutting) (immagine positiva)
5 - Dalla lacca si ricava la "matrice" (master matrix) (immagine negativa)
6 - Dalla matrice si ricavano le "madri" (mothers) (immagine positiva)
7 - Dalle madri si ricavano le "stampatrici" (stampers) (immagine negativa)
8 - Dalle stampatrici, per mezzo di una pressa, si ricavano i dischi in vinile
Per una web release
4 - Si mette online una copia del master, codificata in mp3 o flac (o uno dei diversi formati audio possibili)
Naturalmente, ogni passaggio da 1) a 4) può essere fatto in forma analogica o digitale.
Più probabilmente, mista.
L'argomento di cui vorrei discutere oggi è quello che succede nella fase che porta da 3) a 4)
Abbiamo il nostro master (su nastro o su file), equalizzato e ben livellato, con i pezzi in sequenza pronti per essere messi su un "disco".
Diciamo che per ragioni nostre vogliamo realizzare un disco in vinile.
Ci rechiamo in uno studio in grado di trasferire il nostro master su una lacca.
Al giorno d'oggi, il master è caricato su una DAW[1], elaborato all'interno del dominio digitale e splittato in due segnali identici: uno che va al computer che calcola la distanza tra due solchi successivi, e l'altro, ritardato del tempo necessario ad una rotazione del piatto, al cutter della lacca.
Le risoluzioni usate dalla DAW sono generalmente 24 bit a 44,1 Khz.
Cioè, neppure quelle risoluzioni "estreme" (e completamente inutili) che i costruttori di apparecchiature audio "spingono" (32 bit a 192 Khz) per poter vendere qualcosa di nuovo...
Cioè 2, praticamente tutti i "vinili" prodotti adesso sono generati a partire da un segnale digitale.
Ma la cosa più bella è che fino agli anni '70 per il cut delle lacche si utilizzavano macchine costosissime a doppia testina (tipicamente Studer) che generavano due segnali identici, uno per la lacca ed uno per il controller che decide lo spazio tra i solchi.
Per far funzionare il tutto, i due segnali dovevano essere perfettamente identici: e quindi era necessario avere, oltre al registratore, due set identici per il percorso del segnale: ovvero compressori, limitatori ed equalizzatori doppi, e un banco mixer con un doppio percorso per il segnale: in sintesi, costava una paccata assurda di soldi, e gli studi di cut erano pochissimi.
A inizio anni '70 iniziò la commercializzazione dei primi delay digitali: il primo in assoluto fu, nel 1971, il Lexicon Delta T-101 (banda passante di 10 Khz e s/n ratio di 60 db, ovvero, in termini odierni, una ciofeca, ma per l'epoca una rivoluzione).
In capo a pochi anni i delay digitali erano diventati abbastanza economici da poter essere usati in alternativa ai registratori a doppia testina: l'uscita dal mixer veniva splittata in 2, il segnale diretto ("analogico") veniva mandato al controller dello spazio tra i solchi, e il segnale in uscita dal delay ("digitale") veniva mandato al cut della lacca.
Ovvero, la lacca veniva incisa a partire da un segnale digitale, generato da un delay con caratteristiche tecniche largamente inferiori a quelle di una qualsiasi scheda audio integrata di un computer economico di oggi.
Da metà degli anni '70 in poi, il 99% dei dischi in vinile è stato realizzato così: partendo dal segnale digitale di un delay probabilmente a 14 bit, con ADC e DAC[2] di qualità comparabile.
Tutti dischi etichettati come "AAA" quando si usava riportare sul media il percorso di generazione del segnale.
Una registrazione completamente analogica, al giorno d'oggi, è praticamente impossibile: a un certo punto del percorso, il segnale passerà da qualche apparecchiatura digitale.
Voi comunque, continuate pure a parlare di superiorità di quello che volete e a illudervi che i dischi in vinile suonino meglio dei cd e degli mp3: il vantaggio della patafisica è che le spiegazioni non devono avere niente a che fare con la realtà...
Note e links:
[1] Digital Audio Workstation, cioè un computer con un software apposito o un apparecchio hardware dedicato.
una volta si definivano semplicemente "sequencer", adesso fanno molto di più ma sono fondamentalmente ancora la stessa cosa: registratori, più o meno sofisticati, di segnali midi o audio.
[2] Analog to Digital Converter e Digital to Analog Converter, cioè i due componenti che trasformano un segnale da analogico a digitale e da digitale ad analogico.
[3] Quelle scritte qui sopra sono naturalmente amenità e solita solfa di annessi e connessi.
La parte dei delay digitali usati per le lacche la trovate ad esempio descritta in questa intervista a Bob Weston, ex-componente degli Shellac di Steve Albini.
La parte sui primi digital delay e sulle loro specifiche tecniche è tratta da questo articolo sul Lexicon Delta T-101.
Secondo me, sono cose che aiutano a capire meglio la musica. Probabilmente lo penso solo perchè sono sbruffone e pedante, ma con la mia tipica spocchia ne parlo lo stesso.
Quindi, come si produce un disco?
In sintesi:
1 - Si registrano i diversi strumenti su un registratore multitraccia (multitrack recording)
2 - Si mixa la registrazione su due tracce (mixdown o stereo mixdown)
3 - Si masterizza il mixdown (master)
Il "master" può essere differente tra la produzione di un cd o di un vinile.
Partendo dal master, per produrre un cd:
4 - Si prepara un "Glass master" (immagine positiva)
5 - Dal Glass master si ricavano diverse matrici di stampa, in metallo (immagine negativa)
6 - Dalle matrici si ricavano, per mezzo di una pressa, i cd (immagine positiva)
Per produrre un vinile:
4 - Dal master si ricava la "lacca" (lacquer) tramite un apposito "giradischi" (lathe cutting) (immagine positiva)
5 - Dalla lacca si ricava la "matrice" (master matrix) (immagine negativa)
6 - Dalla matrice si ricavano le "madri" (mothers) (immagine positiva)
7 - Dalle madri si ricavano le "stampatrici" (stampers) (immagine negativa)
8 - Dalle stampatrici, per mezzo di una pressa, si ricavano i dischi in vinile
Per una web release
4 - Si mette online una copia del master, codificata in mp3 o flac (o uno dei diversi formati audio possibili)
Naturalmente, ogni passaggio da 1) a 4) può essere fatto in forma analogica o digitale.
Più probabilmente, mista.
L'argomento di cui vorrei discutere oggi è quello che succede nella fase che porta da 3) a 4)
Abbiamo il nostro master (su nastro o su file), equalizzato e ben livellato, con i pezzi in sequenza pronti per essere messi su un "disco".
Diciamo che per ragioni nostre vogliamo realizzare un disco in vinile.
Ci rechiamo in uno studio in grado di trasferire il nostro master su una lacca.
Al giorno d'oggi, il master è caricato su una DAW[1], elaborato all'interno del dominio digitale e splittato in due segnali identici: uno che va al computer che calcola la distanza tra due solchi successivi, e l'altro, ritardato del tempo necessario ad una rotazione del piatto, al cutter della lacca.
Le risoluzioni usate dalla DAW sono generalmente 24 bit a 44,1 Khz.
Cioè, neppure quelle risoluzioni "estreme" (e completamente inutili) che i costruttori di apparecchiature audio "spingono" (32 bit a 192 Khz) per poter vendere qualcosa di nuovo...
Cioè 2, praticamente tutti i "vinili" prodotti adesso sono generati a partire da un segnale digitale.
Ma la cosa più bella è che fino agli anni '70 per il cut delle lacche si utilizzavano macchine costosissime a doppia testina (tipicamente Studer) che generavano due segnali identici, uno per la lacca ed uno per il controller che decide lo spazio tra i solchi.
Per far funzionare il tutto, i due segnali dovevano essere perfettamente identici: e quindi era necessario avere, oltre al registratore, due set identici per il percorso del segnale: ovvero compressori, limitatori ed equalizzatori doppi, e un banco mixer con un doppio percorso per il segnale: in sintesi, costava una paccata assurda di soldi, e gli studi di cut erano pochissimi.
A inizio anni '70 iniziò la commercializzazione dei primi delay digitali: il primo in assoluto fu, nel 1971, il Lexicon Delta T-101 (banda passante di 10 Khz e s/n ratio di 60 db, ovvero, in termini odierni, una ciofeca, ma per l'epoca una rivoluzione).
In capo a pochi anni i delay digitali erano diventati abbastanza economici da poter essere usati in alternativa ai registratori a doppia testina: l'uscita dal mixer veniva splittata in 2, il segnale diretto ("analogico") veniva mandato al controller dello spazio tra i solchi, e il segnale in uscita dal delay ("digitale") veniva mandato al cut della lacca.
Ovvero, la lacca veniva incisa a partire da un segnale digitale, generato da un delay con caratteristiche tecniche largamente inferiori a quelle di una qualsiasi scheda audio integrata di un computer economico di oggi.
Da metà degli anni '70 in poi, il 99% dei dischi in vinile è stato realizzato così: partendo dal segnale digitale di un delay probabilmente a 14 bit, con ADC e DAC[2] di qualità comparabile.
Tutti dischi etichettati come "AAA" quando si usava riportare sul media il percorso di generazione del segnale.
Una registrazione completamente analogica, al giorno d'oggi, è praticamente impossibile: a un certo punto del percorso, il segnale passerà da qualche apparecchiatura digitale.
Voi comunque, continuate pure a parlare di superiorità di quello che volete e a illudervi che i dischi in vinile suonino meglio dei cd e degli mp3: il vantaggio della patafisica è che le spiegazioni non devono avere niente a che fare con la realtà...
Note e links:
[1] Digital Audio Workstation, cioè un computer con un software apposito o un apparecchio hardware dedicato.
una volta si definivano semplicemente "sequencer", adesso fanno molto di più ma sono fondamentalmente ancora la stessa cosa: registratori, più o meno sofisticati, di segnali midi o audio.
[2] Analog to Digital Converter e Digital to Analog Converter, cioè i due componenti che trasformano un segnale da analogico a digitale e da digitale ad analogico.
[3] Quelle scritte qui sopra sono naturalmente amenità e solita solfa di annessi e connessi.
La parte dei delay digitali usati per le lacche la trovate ad esempio descritta in questa intervista a Bob Weston, ex-componente degli Shellac di Steve Albini.
La parte sui primi digital delay e sulle loro specifiche tecniche è tratta da questo articolo sul Lexicon Delta T-101.
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Alessandro Limonta
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Tecnica
I pastori dell'Arcadia e la musica moderna
Ci sono alcune malattie che la scienza medica ufficiale non ha ancora studiato approfonditamente, ma delle quali mi sembra corretto occuparsi in quanto riguardano molto da vicino gli "appassionati di musica", in particolare quelli adulti di sesso maschile.
Facciamone una veloce panoramica.
1. Sindrome mistica da consumismo affettivo-retroattivo
Colpisce di solito intorno ai 50 anni, quando cominci a parlare di quanto sei affezionato e quanti ricordi ti legano ai contenitori e non più ai contenuti.
Unita ai sintomi della successiva sindrome di cui al punto 3), ti porta a dare valori assolutamente spropositati al barattolo che contiene la marmellata, inventando giustificazioni risibili (colori, odori, sapori - appartenenti al barattolo...)
Si applica in particolare ai supporti di diffusione legati al mondo dell'arte (musica, letteratura, arti visive, etc.): prende la forma di rimpianto per il vinile, per il libro di carta, per la videocassetta, per il cinema fumoso e via di seguito, confondendo allegramente i mezzi che hai conosciuto da giovane con il messaggio da loro veicolato.
2. Sindrome da collezionismo ossessivo-compulsivo
Questa sindrome, tipicamente maschile, è una malattia con un decorso eccezionalmente lungo: si manifesta fin da subito dopo l'infanzia, e non gode mai di remissione.
Porta a voler possedere ogni cosa riguardi uno specifico argomento: dalle figurine dei Gormiti ai giornalini di Topolino, dai tappi delle bottiglie di birra alle registrazioni dei concerti dei Boss (e sono perfettamente d'accordo che l'ultima mania sia incomparabilmente meno sana delle precedenti...)
Peggiora sensibilmente verso i 50 anni per l'influenza perniciosa della sindrome già descritta al punto 1), che porta a voler avere ogni registrazione esistente, per dire, degli Animals.
Ma nella prima versione originale inglese, possibilmente dischi con numero di matrice appartenente allo stamper originale, con copertina intonsa ed idealmente mai suonati.
Se ancora avvolti dal cellophane originale diventano feticci da ammirare (non da ascoltare, ovvio).
Se invece, come quasi sempre accade, già ascoltati, gli inevitabili fruscii, click e salti del vinile vengono apprezzati in quanto testimoni del "carattere" e della "autenticità" (?) del supporto stesso.
Quando accoppiata con una maggiore disponibilità economica tipica della condizione adulta, genera mostri come i famigerati "acquirenti di cofanetti celebrativi de-luxe edition", una evoluzione (?) della specie Homo Sapiens-Sapiens (e qui, accipicchia, come non riandare con la mente alle teorie de-evolutive propugnate dai Devo?)
3. Sindrome da "non ci sono più i xxx di una volta/ai miei tempi sì che"
Questa è indubbiamente la peggiore. Subdola e maligna, si impadronisce di - più o meno - chiunque, intorno al giro di boa dei 50 anni.
Combinata con le due precedenti, ti porta non solo a sopravvalutare acriticamente qualsiasi cosa sia legata alla tua gioventù (diciamo 15-25 anni), ma anche a disprezzare parallelamente qualsiasi cosa sia invece, anche solo vagamente, "giovane", "nuova" o "moderna".
Le due ultime parole acquistano immediatamente un valore assolutamente negativo, e quasi senza provare vergogna ti viene la tentazione di accusare i "ragazzi d'oggi" di avere tagli di capelli orribili e di vestirsi male ("barbùni e cavelùni").
Cominci a dare valore a qualsiasi cosa ti ricordi i tempi in cui eri giovane davvero: ormai non puoi più illuderti di esserlo ancora, e allora partono rimpianti, nostalgie ed invidie (se sei intellettualmente onesto, ovvio; se no puoi continuare a far finta di essere ancora un "ragazzo")
Il valore intrinseco della "cosa" (che può essere un 45 giri di Patrick Juvet o gli LP dei Led Zeppelin, il Fantic Caballero 50 Regolarità Casa 6 marce, il telefilm "Furia", etc.) non ha evidentemente nessuna importanza: era tutto meglio.
Perchè anche le cose "brutte" non erano brutte davvero: erano magari "tenere" e "kitsch" e via scusando.
Mentre quelle brutte e basta, le hai semplicemente dimenticate (o non conosciute, quando il rimpianto si sposta addirittura a tempi che non hai vissuto direttamente).
Corollario irrinunciabile: le cose "moderne" fanno schifo.
Nel migliore dei casi, spazzatura.
Ho letto, in questi mesi di frequentazione dei blog, diverse argomentazioni sui "giovani" e sulla "musica moderna" che mi hanno causato forti bruciori di stomaco.
Ho letto che il movimento "mod" (i "modernisti"! Quelli che si opponevano alla tradizione e davano valore ad ogni cosa nuova!) adesso trova il futuro nel passato, recuperando e guardandosi indietro, con un elegante ribaltone di 180 gradi rispetto alle idee originali.
I mod di oggi sono vecchi consolidati che apprezzano solo quello che era nuovo 50 anni fa.
Ho letto cose assurde su vinili, cd e mp3, ma anche su libri e libri elettronici.
Discussioni sulla superiorità tecnica del vinile rispetto al cd (vedi sopra).
Discussioni che sostengono l'assoluta superiorità della carta sul formato elettronico, tenute in formato elettronico sul web!...
Ho letto accorate lamentele sui "giovani d'oggi" che non sono mica come eravamo noi alla loro età, eh no! Noi si che etc.
Ho letto le stesse cose dette perfino da Pier Paolo Pasolini (!) che si lamentava della pochezza dei "giovani d'oggi". Che, visto quando si lamentava, sarebbero i 50/55-enni di adesso, quelli che "noi si...".
E ogni volta mi vengono in mente due cose:
1. L'aforisma di Bernardo di Chartres "siamo nani sulle spalle di giganti", che è del XII secolo.
Se già loro si ritenevano nani, noi oggi cosa siamo?
2. Chi ha fatto il classico (o lo scientifico) dovrebbe essere venuto in contatto con "Le Bucoliche" di Publio Virgilio Marone (quello dell'Eneide), scritte nel 38 a.c.
Vi si parla dei buoni vecchi tempi, dei pastori dell'Arcadia, dell'età dell'oro, di quanto tutto era meglio "prima"... e sul modello degli "Idilli" di Teocrito (270 a.c.) che a sua volta si era ispirato etc. etc.
Dopo tutti questi anni, siamo ancora lì.
Arriviamo a 50 anni e scopriamo che le cose migliori in assoluto, in tutti i campi, sono già state fatte.
Invariabilmente, più o meno 25/30 anni prima. Dopo, solo rimasticature e decadenza.
Quindi le cose migliori della musica rock sono state fatte, a seconda dell'età dell'interlocutore, negli anni '50 da Presley e co., oppure dai Beatles e dai Rolling Stones nel 1965, dai Genesis nel 1972 o da David Bowie nel 1973, dai Clash nel 1977 o dai Joy Division nel 1980, e via di seguito. L'importante è aggiungere sempre che, dopo, è tutta spazzatura.
E siccome "noi" che abbiamo più o meno 50 anni adesso siamo "quelli del rock", che in teoria erano contro la banalità e l'establishment, mi viene una grandissima tristezza a vederci trasformati nell'equivalente brontolone dei "matusa" di quando eravamo giovani noi, che a loro volta etc.
In sintesi, le tre sindromi si possono riassumere in una sola parola: rincoglionimento.
Dio volendo, spero di risparmiarmelo (e non vale scrivere nei commenti che non ho motivo di preoccuparmi perchè ci sono già...)
Facciamone una veloce panoramica.
1. Sindrome mistica da consumismo affettivo-retroattivo
Colpisce di solito intorno ai 50 anni, quando cominci a parlare di quanto sei affezionato e quanti ricordi ti legano ai contenitori e non più ai contenuti.
Unita ai sintomi della successiva sindrome di cui al punto 3), ti porta a dare valori assolutamente spropositati al barattolo che contiene la marmellata, inventando giustificazioni risibili (colori, odori, sapori - appartenenti al barattolo...)
Si applica in particolare ai supporti di diffusione legati al mondo dell'arte (musica, letteratura, arti visive, etc.): prende la forma di rimpianto per il vinile, per il libro di carta, per la videocassetta, per il cinema fumoso e via di seguito, confondendo allegramente i mezzi che hai conosciuto da giovane con il messaggio da loro veicolato.
2. Sindrome da collezionismo ossessivo-compulsivo
Questa sindrome, tipicamente maschile, è una malattia con un decorso eccezionalmente lungo: si manifesta fin da subito dopo l'infanzia, e non gode mai di remissione.
Porta a voler possedere ogni cosa riguardi uno specifico argomento: dalle figurine dei Gormiti ai giornalini di Topolino, dai tappi delle bottiglie di birra alle registrazioni dei concerti dei Boss (e sono perfettamente d'accordo che l'ultima mania sia incomparabilmente meno sana delle precedenti...)
Peggiora sensibilmente verso i 50 anni per l'influenza perniciosa della sindrome già descritta al punto 1), che porta a voler avere ogni registrazione esistente, per dire, degli Animals.
Ma nella prima versione originale inglese, possibilmente dischi con numero di matrice appartenente allo stamper originale, con copertina intonsa ed idealmente mai suonati.
Se ancora avvolti dal cellophane originale diventano feticci da ammirare (non da ascoltare, ovvio).
Se invece, come quasi sempre accade, già ascoltati, gli inevitabili fruscii, click e salti del vinile vengono apprezzati in quanto testimoni del "carattere" e della "autenticità" (?) del supporto stesso.
Quando accoppiata con una maggiore disponibilità economica tipica della condizione adulta, genera mostri come i famigerati "acquirenti di cofanetti celebrativi de-luxe edition", una evoluzione (?) della specie Homo Sapiens-Sapiens (e qui, accipicchia, come non riandare con la mente alle teorie de-evolutive propugnate dai Devo?)
3. Sindrome da "non ci sono più i xxx di una volta/ai miei tempi sì che"
Questa è indubbiamente la peggiore. Subdola e maligna, si impadronisce di - più o meno - chiunque, intorno al giro di boa dei 50 anni.
Combinata con le due precedenti, ti porta non solo a sopravvalutare acriticamente qualsiasi cosa sia legata alla tua gioventù (diciamo 15-25 anni), ma anche a disprezzare parallelamente qualsiasi cosa sia invece, anche solo vagamente, "giovane", "nuova" o "moderna".
Le due ultime parole acquistano immediatamente un valore assolutamente negativo, e quasi senza provare vergogna ti viene la tentazione di accusare i "ragazzi d'oggi" di avere tagli di capelli orribili e di vestirsi male ("barbùni e cavelùni").
Cominci a dare valore a qualsiasi cosa ti ricordi i tempi in cui eri giovane davvero: ormai non puoi più illuderti di esserlo ancora, e allora partono rimpianti, nostalgie ed invidie (se sei intellettualmente onesto, ovvio; se no puoi continuare a far finta di essere ancora un "ragazzo")
Il valore intrinseco della "cosa" (che può essere un 45 giri di Patrick Juvet o gli LP dei Led Zeppelin, il Fantic Caballero 50 Regolarità Casa 6 marce, il telefilm "Furia", etc.) non ha evidentemente nessuna importanza: era tutto meglio.
Perchè anche le cose "brutte" non erano brutte davvero: erano magari "tenere" e "kitsch" e via scusando.
Mentre quelle brutte e basta, le hai semplicemente dimenticate (o non conosciute, quando il rimpianto si sposta addirittura a tempi che non hai vissuto direttamente).
Corollario irrinunciabile: le cose "moderne" fanno schifo.
Nel migliore dei casi, spazzatura.
Ho letto, in questi mesi di frequentazione dei blog, diverse argomentazioni sui "giovani" e sulla "musica moderna" che mi hanno causato forti bruciori di stomaco.
Ho letto che il movimento "mod" (i "modernisti"! Quelli che si opponevano alla tradizione e davano valore ad ogni cosa nuova!) adesso trova il futuro nel passato, recuperando e guardandosi indietro, con un elegante ribaltone di 180 gradi rispetto alle idee originali.
I mod di oggi sono vecchi consolidati che apprezzano solo quello che era nuovo 50 anni fa.
Ho letto cose assurde su vinili, cd e mp3, ma anche su libri e libri elettronici.
Discussioni sulla superiorità tecnica del vinile rispetto al cd (vedi sopra).
Discussioni che sostengono l'assoluta superiorità della carta sul formato elettronico, tenute in formato elettronico sul web!...
Ho letto accorate lamentele sui "giovani d'oggi" che non sono mica come eravamo noi alla loro età, eh no! Noi si che etc.
Ho letto le stesse cose dette perfino da Pier Paolo Pasolini (!) che si lamentava della pochezza dei "giovani d'oggi". Che, visto quando si lamentava, sarebbero i 50/55-enni di adesso, quelli che "noi si...".
E ogni volta mi vengono in mente due cose:
1. L'aforisma di Bernardo di Chartres "siamo nani sulle spalle di giganti", che è del XII secolo.
Se già loro si ritenevano nani, noi oggi cosa siamo?
2. Chi ha fatto il classico (o lo scientifico) dovrebbe essere venuto in contatto con "Le Bucoliche" di Publio Virgilio Marone (quello dell'Eneide), scritte nel 38 a.c.
Vi si parla dei buoni vecchi tempi, dei pastori dell'Arcadia, dell'età dell'oro, di quanto tutto era meglio "prima"... e sul modello degli "Idilli" di Teocrito (270 a.c.) che a sua volta si era ispirato etc. etc.
Dopo tutti questi anni, siamo ancora lì.
Arriviamo a 50 anni e scopriamo che le cose migliori in assoluto, in tutti i campi, sono già state fatte.
Invariabilmente, più o meno 25/30 anni prima. Dopo, solo rimasticature e decadenza.
Quindi le cose migliori della musica rock sono state fatte, a seconda dell'età dell'interlocutore, negli anni '50 da Presley e co., oppure dai Beatles e dai Rolling Stones nel 1965, dai Genesis nel 1972 o da David Bowie nel 1973, dai Clash nel 1977 o dai Joy Division nel 1980, e via di seguito. L'importante è aggiungere sempre che, dopo, è tutta spazzatura.
E siccome "noi" che abbiamo più o meno 50 anni adesso siamo "quelli del rock", che in teoria erano contro la banalità e l'establishment, mi viene una grandissima tristezza a vederci trasformati nell'equivalente brontolone dei "matusa" di quando eravamo giovani noi, che a loro volta etc.
In sintesi, le tre sindromi si possono riassumere in una sola parola: rincoglionimento.
Dio volendo, spero di risparmiarmelo (e non vale scrivere nei commenti che non ho motivo di preoccuparmi perchè ci sono già...)
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Alessandro Limonta
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Storie
Talking Heads a Bologna. 30 anni fa...
Accetto con molto piacere l'invito di Alle e butto giù due cose senza pretese, per ricordare il trentennale del più straordinario concerto a cui abbia assistito, anche perchè Alle mi ha fatto notare che, non facendolo, ucciderei un cucciolo, per cui... in ogni caso... IL BOSS mi ha sfinito... e così ne salvo un paio, quantomeno.
Allora, perchè celebrare il trentennale di quel concerto? Per il semplice motivo che i Talking Heads, e David Byrne in particolare, son coloro che han fatto cambiare il mio modo di vedere e concepire la musica.
Correva il 1980 ed io ero un giovincello che da un paio d'anni si era tuffato in quella che era una vera e propria rivoluzione musicale... il punk prima, la new wave dopo, con la loro dirompente voglia di novità, di distacco dal passato, un mondo musicale incancrenito da disco music e supergruppi vari.
Conoscevo già, ovviamente, i T.H., ma il mio approccio era, come dire, di natura più "intellettuale" (in senso lato)... ascoltavo gruppi come Joy Division, Cure, Pil... il tutto alquanto seriosamente.
Con la stessa logica, quindi, mi recai a Bologna, per assister al loro concerto, e inizialmente mi trovai ad ascoltare un concerto normale, bello, ma senza particolari sorprese. Oddio,una piccola sorpresa c'era stata fin da subito... primo pezzo psycho killer, e oltre ai 4 (Byrne, Weimouth, Harrison, Frantz), spiccava un quinto elemento, un chitarrista che già sapevo pazzesco per averlo sentito con Zappa prima e Bowie poi... parlo naturalmente di Adrian Belew, che iniziò a sconvolgerci fin da subito... poi fu il turno di "Warning Sign", di "Cities", di "Drugs"... tutto bello, ma direi nella norma... uno alla volta, però, cominciarono ad aggiungersi nuovi musicisti... un tastierista (Bernie Worrell, già Funkadelic... Buster Jones, favoloso bassista, Steve Scales, percussionista... Doett Mcdonald, corista)
A questo punto il suono improvvisamente cambiò, sulle note di "I Zimbra", trasformando quello che era stato fino a quel concerto un normale concerto nel più incredibile miscuglio fra funky e musica ballabile che avessi mai sentito.
Tutto il pubblico avvertì il cambiamento, tutti inziarono a guardarsi, cercando di capire cosa stesse succedendo... nel giro di pochi minuti i 10.000 del palazzo cominciarono a ballare e saltare... in mezzo a quel caos c'ero pure io, ovvio... mai divertito tanto a un concerto in vita mia.
Le canzoni di "Remain in Light" scorsero una dopo l'altra, fino al bis di "The Great Curve", con un Belew addirittura pazzesco... a fine concerto mi ritrovai esausto e, come dicevo, mi resi conto che la mia idea della musica era sostanzialmente cambiata... non solo cervello, ma anche gambe e stomaco... in realtà, si trattava di musica assolutamente intellettuale, la miglior miscela fra musica bianca e nera mai sentita, ma tant'è... in ogni caso... la cosa migliore credo sia postare anche un brano... qui non siamo a Bologna, ma a Roma il giorno dopo, per cui cambia poco...
Allora, perchè celebrare il trentennale di quel concerto? Per il semplice motivo che i Talking Heads, e David Byrne in particolare, son coloro che han fatto cambiare il mio modo di vedere e concepire la musica.
Correva il 1980 ed io ero un giovincello che da un paio d'anni si era tuffato in quella che era una vera e propria rivoluzione musicale... il punk prima, la new wave dopo, con la loro dirompente voglia di novità, di distacco dal passato, un mondo musicale incancrenito da disco music e supergruppi vari.
Conoscevo già, ovviamente, i T.H., ma il mio approccio era, come dire, di natura più "intellettuale" (in senso lato)... ascoltavo gruppi come Joy Division, Cure, Pil... il tutto alquanto seriosamente.
Con la stessa logica, quindi, mi recai a Bologna, per assister al loro concerto, e inizialmente mi trovai ad ascoltare un concerto normale, bello, ma senza particolari sorprese. Oddio,una piccola sorpresa c'era stata fin da subito... primo pezzo psycho killer, e oltre ai 4 (Byrne, Weimouth, Harrison, Frantz), spiccava un quinto elemento, un chitarrista che già sapevo pazzesco per averlo sentito con Zappa prima e Bowie poi... parlo naturalmente di Adrian Belew, che iniziò a sconvolgerci fin da subito... poi fu il turno di "Warning Sign", di "Cities", di "Drugs"... tutto bello, ma direi nella norma... uno alla volta, però, cominciarono ad aggiungersi nuovi musicisti... un tastierista (Bernie Worrell, già Funkadelic... Buster Jones, favoloso bassista, Steve Scales, percussionista... Doett Mcdonald, corista)
A questo punto il suono improvvisamente cambiò, sulle note di "I Zimbra", trasformando quello che era stato fino a quel concerto un normale concerto nel più incredibile miscuglio fra funky e musica ballabile che avessi mai sentito.
Tutto il pubblico avvertì il cambiamento, tutti inziarono a guardarsi, cercando di capire cosa stesse succedendo... nel giro di pochi minuti i 10.000 del palazzo cominciarono a ballare e saltare... in mezzo a quel caos c'ero pure io, ovvio... mai divertito tanto a un concerto in vita mia.
Le canzoni di "Remain in Light" scorsero una dopo l'altra, fino al bis di "The Great Curve", con un Belew addirittura pazzesco... a fine concerto mi ritrovai esausto e, come dicevo, mi resi conto che la mia idea della musica era sostanzialmente cambiata... non solo cervello, ma anche gambe e stomaco... in realtà, si trattava di musica assolutamente intellettuale, la miglior miscela fra musica bianca e nera mai sentita, ma tant'è... in ogni caso... la cosa migliore credo sia postare anche un brano... qui non siamo a Bologna, ma a Roma il giorno dopo, per cui cambia poco...
Various - Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
Si può acquistare un album composto da quasi sconosciuti ? O fidandosi di un’intuzione? Si, questo è stato proprio il caso di “Total Lee!“. Da tempo avevo letto della passione di Nick Cave per un certo cantautore americano di nome Lee Hazlewood. Mi piaceva la cover di “Sand” registrata dagli Einstürzende Neubauten e inclusa nell’album “Halber mensch“, null’altro sapevo di questo musicista dell’Oklahoma e quindi la cosa era rimasta lì, sepolta nella memoria.
Qualche estate fa trovo un’intervista al personaggio su una rivista di musica e l’annuncio di due cd: un album tributo e la pubblicazione di canzoni inedite dai suoi archivi di carriera ultra decennale. La curiosità d’ ascoltare le canzoni del signor Lee Hazlewood, alcuni nomi coinvolti nel progetto, altri completamente a me sconosciuti e la coincidenza di essere strutturato come un album tributo di cui mi ero innamorato in passato … là comprato! Nel frattempo ho trovato qualche notizia su questo autore di culto e così ho approfondito la sua conoscenza. Hazlewood è nato nel 1929, ha fatto il dj per l’esercito durante la guerra di Corea e una volta rimpatriato, fu tra i primi a trasmettere i dischi di Elvis Presley. Proseguirà la sua attività nel settore della musica fondando una etichetta discografica, iniziando lui stesso a scrivere canzoni e diventando produttore. Finalmente nel 1963 riesce a pubblicare a suo nome il primo album. Il tanto atteso successo arriverà quando rilancerà la figlia di Frank Sinatra, Nancy. Scriverà e canterà per lei quattro pezzi indimenticabili: “These boots are made for walking“, “Sand“, “Some velvet morning” e “Summer wine“, quest’ultimi tre sono presenti in “Total Lee!“.
Dopo questo importante successo Lee tornerà ad essere un artista di culto, non passando mai di moda fra gli intenditori della musica. Durante gli anni settanta trascorrerà la vita fra la Svezia, l’Europa e gli USA. Poi la sua fama e la stima sono ricresciute fra gli anni ottanta e i novanta, grazie ad alcuni protagonisti del nuovo rock: Jesus and Mary Chain e i già citati Einstürzende Neubauten e Nick Cave. Lee Hazlewood ha scritto più di trecento canzoni, interpretate da Elvis Presley, Frank Sinatra, Dean Martin e tanti altri. Molti lo considerano uno dei più importanti autori di pop music. Le sue canzoni sono riconoscibili per la voce baritonale, per le melodie orchestrate, mischiate con la pop music, il country e intrecciate con qualche vena oscura. Uno stile affascinante, che sicuramente è rimasto impresso a molti dei musicisti coinvolti nel tributo “Total Lee!”. Devo essere sincero che parte degli artisti coinvolti non li conosco, ma le loro canzoni suonano davvero ammalianti, o meglio le canzoni di Lee Hazlewood! Leggendo il libretto allegato, lo stesso Hazlewood riconobbe il pregio di aver scelto anche brani non famosi, segno di un profondo rispetto e conoscenza dell’autore.
Various, Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
City Slang, 2002
Qualche estate fa trovo un’intervista al personaggio su una rivista di musica e l’annuncio di due cd: un album tributo e la pubblicazione di canzoni inedite dai suoi archivi di carriera ultra decennale. La curiosità d’ ascoltare le canzoni del signor Lee Hazlewood, alcuni nomi coinvolti nel progetto, altri completamente a me sconosciuti e la coincidenza di essere strutturato come un album tributo di cui mi ero innamorato in passato … là comprato! Nel frattempo ho trovato qualche notizia su questo autore di culto e così ho approfondito la sua conoscenza. Hazlewood è nato nel 1929, ha fatto il dj per l’esercito durante la guerra di Corea e una volta rimpatriato, fu tra i primi a trasmettere i dischi di Elvis Presley. Proseguirà la sua attività nel settore della musica fondando una etichetta discografica, iniziando lui stesso a scrivere canzoni e diventando produttore. Finalmente nel 1963 riesce a pubblicare a suo nome il primo album. Il tanto atteso successo arriverà quando rilancerà la figlia di Frank Sinatra, Nancy. Scriverà e canterà per lei quattro pezzi indimenticabili: “These boots are made for walking“, “Sand“, “Some velvet morning” e “Summer wine“, quest’ultimi tre sono presenti in “Total Lee!“.
Dopo questo importante successo Lee tornerà ad essere un artista di culto, non passando mai di moda fra gli intenditori della musica. Durante gli anni settanta trascorrerà la vita fra la Svezia, l’Europa e gli USA. Poi la sua fama e la stima sono ricresciute fra gli anni ottanta e i novanta, grazie ad alcuni protagonisti del nuovo rock: Jesus and Mary Chain e i già citati Einstürzende Neubauten e Nick Cave. Lee Hazlewood ha scritto più di trecento canzoni, interpretate da Elvis Presley, Frank Sinatra, Dean Martin e tanti altri. Molti lo considerano uno dei più importanti autori di pop music. Le sue canzoni sono riconoscibili per la voce baritonale, per le melodie orchestrate, mischiate con la pop music, il country e intrecciate con qualche vena oscura. Uno stile affascinante, che sicuramente è rimasto impresso a molti dei musicisti coinvolti nel tributo “Total Lee!”. Devo essere sincero che parte degli artisti coinvolti non li conosco, ma le loro canzoni suonano davvero ammalianti, o meglio le canzoni di Lee Hazlewood! Leggendo il libretto allegato, lo stesso Hazlewood riconobbe il pregio di aver scelto anche brani non famosi, segno di un profondo rispetto e conoscenza dell’autore.
Various, Total Lee! The Songs Of Lee Hazlewood
City Slang, 2002
K-X-P
Le porte del cosmo che stanno su in Germania continuano a distanza di decenni ad emanare il loro influsso sonoro. Questa volta il verbo kraut è stato raccolto e attualizzato in Finlandia da Timo Kaukolampi con il suo gruppo K-X-P. L'elettronica di Neu! e Faust rappresenta una delle loro fonti principali d'ispirazione; musica senza chitarre con un nucleo formato da patterns basso-batteria sui quali si innestano i sintetizzatori per creare un sound cosmico e pulsante che è stato definito paranoid dark disco oppure anche spaced-out krautrock meets drummy-disco-dance-party (combinazione cervellotica ma divertente, coniata dalla rivista musicale online XLR&R).
Si comincia con l'ipnotica Elephant Man (un omaggio a Lynch?); synth maestoso e percussioni tribali in un trip che svela subito in quali territori sonori si andrà a navigare: dosi massicce di elettronica per un buon album (uscito ai primi d'ottobre) in grado di sintetizzare ritmiche moderne con le radici dell'elettronica tedesca degli anni '70. Sono solo due i brani cantati; uno è quello del video.
Tracklist
01. Elephant Man
02. Mehu Moments
03. 18 Hours (Of Love) video
04. Labirynth
05. Aibal Dub
06. Pockets
07. New World
08. Epilogue
The Beatles - Strawberry Fields Forever
Esistono numerosi racconti della registrazione di "Strawberry Fields Forever": la storia è piuttosto conosciuta, e le fonti sono facilmente reperibili e consultabili[1].
Ma visto che non necessariamente tutti la conoscono già, provo a raccontarla anch'io.
Conoscere la storia della registrazione di "SFF" è stata la molla che mi ha spinto ad approfondire almeno due argomenti:
- cosa vuol dire veramente "usare" uno studio di registrazione, quali sono le possibilità creative che la registrazione porta con sè, in quale modo sia possibile espandere le possibilità offerte dalla tradizione[2];
- i Beatles oltre il "scilovsiu iè iè iè", che avevo sempre loro associato: il loro modo di suonare e comporre già a metà degli anni '60 era di una modernità assoluta. E' incredibile la quantità di cose che hanno inventato (loro e i tecnici di Abbey Road) in quegli anni di assoluta libertà creativa conseguente al successo mondiale, che li aveva resi liberi di fare qualsiasi cosa avessero voluto[3].
La registrazione di "SFF" appartiene, storicamente e creativamente, a "Sgt. Pepper", dal quale fu estrapolata come singolo insieme con "Penny Lane"[4].
Quindi, registrazione fatta con riversamenti successivi ("bouncing") da un 4 tracce ad un altro, e contemporanea sovraincisione di altre parti strumentali durante il bouncing stesso.
La canzone che tutti conoscono è fatta da tre diverse sezioni, tagliate ed incollate insieme, in uno dei più incredibili editing mai fatti con forbici e nastro adesivo.
I Beatles avevano registrato una prima versione di "SFF" (take da 1 a 7), poi John Lennon aveva chiesto a George Martin di scrivere un arrangiamento per archi ed ottoni, e avevano in seguito registrato una seconda versione della canzone (take fino a 26)
Le tre sezioni sono le seguenti:
- dall'inizio a 0:55 è usata la take 7;
- da 0:55 a 1:00 è usata un'altra parte della take 7;
- da 1:00 alla fine è usata la take 26.
La take 7 è la prima versione della canzone, in A, più lenta (29 novembre 1966)
La take 26 è la seconda versione, in C, più veloce, con l'arrangiamento di ottoni ed archi (9 dicembre, e arrangiamento archi e ottoni 15 dicembre)
Nessuna delle due versioni convinceva Lennon, ma per un caso quasi incredibile, quando John chiese a George Martin di "appiccicare insieme" l'inizio della prima versione con il resto della seconda, si notò che accelerando leggermente la prima e rallentando la seconda si riusciva ad avere un tempo compatibile e a portare le due parti nella (quasi) stessa tonalità[5].
Allora: a 0:55 dall'inizio, nella take 7 John canta "Let me take you down, 'cause I'm" e qui c'è il taglio con la take 26, da cui vengono le seguenti "going to, Strawberry Fields".
Il punto esatto è stato scelto anche per il modo in cui Lennon canta il verso, con una leggera pausa prima di "going to" e gli strumenti che riprenodono a suonare durante le parole "cause I'm".
Le due parti, come già detto in tonalità e tempo differenti, sono unite in modo così magistrale che quasi nessuno capisce dov'è il taglio finchè non gli viene detto esplicitamente. Io, ad esempio, non l'avrei mai nemmeno sospettato.
Subito prima, c'è un altro taglio "minore", da 0:55 a 1:00, dovuto al fatto che nella take 7 dopo la prima strofa c'era direttamente la seconda, senza il ritornello.
Così si è preso l'attacco del ritornello da una parte successiva della take 7, per poter effettuare il taglio tra le due versioni "in mezzo" alla frase, piuttosto che alla fine della frase, rendendo il tutto meno evidente, meno ovvio.
Oggi alterare la tonalità di una canzone senza toccare il tempo o, al contrario, alterare il tempo senza toccare la tonalità è una cosa facilissima, allora era semplicemente impossibile: alterare una cosa voleva dire alterare anche l'altra.
Essere riusciti a mettere insieme due pezzi così diversi in una sola canzone come hanno fatto qui i tecnici[6] di Abbey Road è un specie di magia, ottenuta solo grazie a un mix incredibile di professionalità, abilità e fortuna nel realizzare tecnicamente quello che i Beatles immaginavano artisticamente.
Note e links:
[1] Le fonti usate per questo post sono fondamentalmente tre:
- L'articolo Strawberry Fields Forever di Joseph Brennan;
- Il libro "The Complete Beatles Recording Sessions: The Official Story of the Abbey Road Years" di Mark Lewisohn, disponibile anche in italiano come "Otto anni ad Abbey Road";
- La memoria di un articolo di Franco Fabbri sulla registrazione di "SFF", probabilmente nel libro "Il suono in cui viviamo" - che non trovo più, appena ho tempo controllo in biblioteca.
[2] Composizione, arrangiamento, esecuzione. Lo metto in nota così si vede di meno, se no i duri e puri di "una canzone è bella se funziona solo con voce e chitarra" ci rimangono male e mi dicono che sono antipatico...
[3] E ne hanno approfittato eccome, di questa libertà, inventando praticamente da soli l'evoluzione dal "rock'n'roll" al "rock". Anche questo potrebbe essere un buon argomento per un futuro post.
[4] A mio modo di vedere, il singolo definitivo. E, curiosamente, il primo da "Love me do" a non finire al primo posto in Inghilterra.
Entrambe le canzoni sono state in seguito recuperate sulla versione "lunga", per gli USA, di "Magical Mystery Tour".
[5] Quasi, eh: la seconda parte non è esattamente nella stessa tonalità della prima, ma abbastanza perchè il 99% delle persone non se ne accorgesse, e abbastanza da fare impazzire chi cercasse di suonare "sopra" il disco: la vera tonalità del brano è da qualche parte tra B e Bb.
[6] Ovvero: il produttore George Martin e i due sound engineer Geoff Emerick e Dave Harries.
Ma visto che non necessariamente tutti la conoscono già, provo a raccontarla anch'io.
Conoscere la storia della registrazione di "SFF" è stata la molla che mi ha spinto ad approfondire almeno due argomenti:
- cosa vuol dire veramente "usare" uno studio di registrazione, quali sono le possibilità creative che la registrazione porta con sè, in quale modo sia possibile espandere le possibilità offerte dalla tradizione[2];
- i Beatles oltre il "scilovsiu iè iè iè", che avevo sempre loro associato: il loro modo di suonare e comporre già a metà degli anni '60 era di una modernità assoluta. E' incredibile la quantità di cose che hanno inventato (loro e i tecnici di Abbey Road) in quegli anni di assoluta libertà creativa conseguente al successo mondiale, che li aveva resi liberi di fare qualsiasi cosa avessero voluto[3].
La registrazione di "SFF" appartiene, storicamente e creativamente, a "Sgt. Pepper", dal quale fu estrapolata come singolo insieme con "Penny Lane"[4].
Quindi, registrazione fatta con riversamenti successivi ("bouncing") da un 4 tracce ad un altro, e contemporanea sovraincisione di altre parti strumentali durante il bouncing stesso.
La canzone che tutti conoscono è fatta da tre diverse sezioni, tagliate ed incollate insieme, in uno dei più incredibili editing mai fatti con forbici e nastro adesivo.
I Beatles avevano registrato una prima versione di "SFF" (take da 1 a 7), poi John Lennon aveva chiesto a George Martin di scrivere un arrangiamento per archi ed ottoni, e avevano in seguito registrato una seconda versione della canzone (take fino a 26)
Le tre sezioni sono le seguenti:
- dall'inizio a 0:55 è usata la take 7;
- da 0:55 a 1:00 è usata un'altra parte della take 7;
- da 1:00 alla fine è usata la take 26.
La take 7 è la prima versione della canzone, in A, più lenta (29 novembre 1966)
La take 26 è la seconda versione, in C, più veloce, con l'arrangiamento di ottoni ed archi (9 dicembre, e arrangiamento archi e ottoni 15 dicembre)
Nessuna delle due versioni convinceva Lennon, ma per un caso quasi incredibile, quando John chiese a George Martin di "appiccicare insieme" l'inizio della prima versione con il resto della seconda, si notò che accelerando leggermente la prima e rallentando la seconda si riusciva ad avere un tempo compatibile e a portare le due parti nella (quasi) stessa tonalità[5].
Allora: a 0:55 dall'inizio, nella take 7 John canta "Let me take you down, 'cause I'm" e qui c'è il taglio con la take 26, da cui vengono le seguenti "going to, Strawberry Fields".
Il punto esatto è stato scelto anche per il modo in cui Lennon canta il verso, con una leggera pausa prima di "going to" e gli strumenti che riprenodono a suonare durante le parole "cause I'm".
Le due parti, come già detto in tonalità e tempo differenti, sono unite in modo così magistrale che quasi nessuno capisce dov'è il taglio finchè non gli viene detto esplicitamente. Io, ad esempio, non l'avrei mai nemmeno sospettato.
Subito prima, c'è un altro taglio "minore", da 0:55 a 1:00, dovuto al fatto che nella take 7 dopo la prima strofa c'era direttamente la seconda, senza il ritornello.
Così si è preso l'attacco del ritornello da una parte successiva della take 7, per poter effettuare il taglio tra le due versioni "in mezzo" alla frase, piuttosto che alla fine della frase, rendendo il tutto meno evidente, meno ovvio.
Oggi alterare la tonalità di una canzone senza toccare il tempo o, al contrario, alterare il tempo senza toccare la tonalità è una cosa facilissima, allora era semplicemente impossibile: alterare una cosa voleva dire alterare anche l'altra.
Essere riusciti a mettere insieme due pezzi così diversi in una sola canzone come hanno fatto qui i tecnici[6] di Abbey Road è un specie di magia, ottenuta solo grazie a un mix incredibile di professionalità, abilità e fortuna nel realizzare tecnicamente quello che i Beatles immaginavano artisticamente.
Note e links:
[1] Le fonti usate per questo post sono fondamentalmente tre:
- L'articolo Strawberry Fields Forever di Joseph Brennan;
- Il libro "The Complete Beatles Recording Sessions: The Official Story of the Abbey Road Years" di Mark Lewisohn, disponibile anche in italiano come "Otto anni ad Abbey Road";
- La memoria di un articolo di Franco Fabbri sulla registrazione di "SFF", probabilmente nel libro "Il suono in cui viviamo" - che non trovo più, appena ho tempo controllo in biblioteca.
[2] Composizione, arrangiamento, esecuzione. Lo metto in nota così si vede di meno, se no i duri e puri di "una canzone è bella se funziona solo con voce e chitarra" ci rimangono male e mi dicono che sono antipatico...
[3] E ne hanno approfittato eccome, di questa libertà, inventando praticamente da soli l'evoluzione dal "rock'n'roll" al "rock". Anche questo potrebbe essere un buon argomento per un futuro post.
[4] A mio modo di vedere, il singolo definitivo. E, curiosamente, il primo da "Love me do" a non finire al primo posto in Inghilterra.
Entrambe le canzoni sono state in seguito recuperate sulla versione "lunga", per gli USA, di "Magical Mystery Tour".
[5] Quasi, eh: la seconda parte non è esattamente nella stessa tonalità della prima, ma abbastanza perchè il 99% delle persone non se ne accorgesse, e abbastanza da fare impazzire chi cercasse di suonare "sopra" il disco: la vera tonalità del brano è da qualche parte tra B e Bb.
[6] Ovvero: il produttore George Martin e i due sound engineer Geoff Emerick e Dave Harries.