Paura della musica
Nell'agosto del 1979 uscì un disco con una copertina formata per intero da una rete metallica su sfondo nero; in alto a sinistra la scritta Talking Heads - Fear of music: opera fondamentale che preparò il terreno al successivo Remain in Light. Fu questo per Byrne e compagni il vero album della svolta, quello che anticipò le sperimentazioni di My life in the bush of ghosts e gli scenari futuri della new wave più avanguardistica. Il sound dei primi due album delle teste parlanti comincia a mutare e soprattutto a maturare a livello espressivo; i meccanismi creativi della canzone vengono vivisezionati per dare vita forme sonore inedite; entra di prepotenza l'elettronica e si allargano gli orizzonti, ponendo i primi mattoni delle contaminazioni etniche e della world music (Zimbra). Il basso di Tina Weimouth si fa più caldo, pulsante, mentre la chitarra è ormai utilizzata principalmente come strumento ritmico.
Collaborano Fripp (chitarra in Zimbra) e ovviamente Brian Eno con un ruolo sempre più determinante. E' un disco multiforme e proiettato nel futuro, un sorta di anatomia della società post-moderna, dove David Byrne ci accompagna in un viaggio intellettual-musicale nelle nostre nevrosi: a volte alienato (Drugs) a volte frenetico (Cities, Life during war time) oppure ossessivo (Mind); e nell'unica ballata del disco (Heaven) canta: Il Paradiso è il posto dove non succede mai niente. La paura della musica non è mai stata così piacevole e terribile.
Quali gruppi oggi sono ancora portatori di questo spirito visionario alla ricerca di nuovi confini e orizzonti per la loro musica?
Collaborano Fripp (chitarra in Zimbra) e ovviamente Brian Eno con un ruolo sempre più determinante. E' un disco multiforme e proiettato nel futuro, un sorta di anatomia della società post-moderna, dove David Byrne ci accompagna in un viaggio intellettual-musicale nelle nostre nevrosi: a volte alienato (Drugs) a volte frenetico (Cities, Life during war time) oppure ossessivo (Mind); e nell'unica ballata del disco (Heaven) canta: Il Paradiso è il posto dove non succede mai niente. La paura della musica non è mai stata così piacevole e terribile.
Quali gruppi oggi sono ancora portatori di questo spirito visionario alla ricerca di nuovi confini e orizzonti per la loro musica?
Gadji beri bimbra clandridi
Lauli lonni cadori gadjam
A bim beri glassala glandride
E glassala tuffm i zimbra
Bim blassa galassasa zimbrabim
Blassa gallassasa zimbrabim
Storia di un loop
Questa è la storia[1] di un loop. Ma un loop vero, di quelli fatti con forbici, nastro magnetico e nastro adesivo, fatto girare attorno a supporti di fortuna sparsi per lo studio di registrazione e registrato su un multitraccia così da creare una "base" della durata necessaria.
Ed è la storia di un loop realizzato per un album molto poco rock: i Bee Gees stavano preparando quello che sarebbe poi diventato "Saturday Night Fever", e "Stayin' Alive" non aveva il giusto feel ritmico: mancava di solidità, di regolarità.
Strano a dirsi, ma quello fu un disco registrato in relativa economia, in uno studio della periferia di Parigi[2], come colonna sonora di un film a basso costo.
Con il batterista rientrato in Inghilterra per un lutto familiare, e dopo aver provato ad usare la traccia ritmica fornita dalla rudimentale drum-machine di un organo Hammond (le batterie elettroniche programmabili erano al di là da venire), serviva un modo per non interrompere il lavoro.
Il gruppo e i tecnici erano invece molto soddisfatti della resa sonora di "Saturday Night Fever", così a qualcuno venne in mente di prendere un paio di battute della traccia ritmica di quel pezzo, registrarle un centinaio di volte di fila e usare il tutto come nuova base ritmica per "Stayin' Alive".
Durante la ricerca delle due battute perfette, si decise di realizzare invece un loop: la batteria di "Saturday Night Fever" era registrata su quattro tracce, e venne quindi deciso di usare una macchina a quattro tracce presente nello studio per duplicare la registrazione originale ed avere pronto un nastro da tagliare per ottenere il loop di due battute.
L'anello di nastro ottenuto era lungo 20 piedi (circa 7 metri) e venne suonato facendolo girare su supporti appiccicati con il nastro adesivo alle aste dei microfoni, tutto intorno alla control.room dello studio.
Il risultato era un loop perfettamente "metronomico" ("steady"), ovvero quello che poi sarà il difetto imputato a tutte le drum machine: la perfezione del tempo, senza alcuna variazione dall'inizio alla fine...
Il risultato fu così soddisfacente che il loop ebbe una sua piccola "carriera" musicale: fu riusato sia per "More Than a Woman" dello stesso disco che per "Woman in Love" di Barbra Streisand (il tempo era aggiustato ricorrendo al controllo vari-speed del 4 tracce che suonava il loop, cioè la stessa tecnica usata dai Beatles per far coincidere tempo e tonalità dei due nastri che compongono la versione finale di "Strawberry Fields Forever"[3])
Nei credits di "Staurday Night Fever" la parte di batteria di "Stayin' Alive" venne accreditata per scherzo a "Bernard Lupè": dopo la pubblicazione, ai produttori giunsero innumerevoli richieste per quel batterista così regolare, "Steady ad a rock".
Oggi realizzare un loop con un computer è tecnicamente[4] una cosa banale: piazzi un paio di markers, senti se il risultato ti soddisfa, se no sposti i markers (a passi anche di singolo sample) fino a quando tutto non è a posto.
Se sbagli qualcosa, cancelli i markers e ricominci, tanto la registrazione originale è sempre lì, intatta.
La cosa per me incredibile è pensare che si riuscissero a fare le stesse cose con il nastro adesivo e le forbici!
Note e links:
[1] Storia famosa, la trovate con molti più dettagli sulla realizzazione di tutto l'album in questione ad esempio nella rubrica "Classic Track" di Sound on Sound, on-line magazine dedicato alle tecniche di registrazione.
[2] Per ragioni essenzialmente fiscali, come avevano fatto anche i Rolling Stones per "Exhile...".
Lo studio era il "Chateau d'Herouville", già usato da Elton John e tutt'altro che all'avanguardia: i primi di giorni di lavoro furono dedicati alla messa a terra di tutto l'impianto, che generava una collezione di ronzii assortiti...
[3] Storia famosissima, ma se qualcuno non la conoscesse vi si può dedicare una successivo post.
[4] Tecnicamente, perchè "artisticamente" invece la difficoltà è sempre la stessa: tutti i migliori strumenti del mondo da soli non fanno niente. Al limite, ti fanno fare meno fatica a fare qualcosa. Ma sei sempre tu che decidi che cosa vuoi fare.
Ed è la storia di un loop realizzato per un album molto poco rock: i Bee Gees stavano preparando quello che sarebbe poi diventato "Saturday Night Fever", e "Stayin' Alive" non aveva il giusto feel ritmico: mancava di solidità, di regolarità.
Strano a dirsi, ma quello fu un disco registrato in relativa economia, in uno studio della periferia di Parigi[2], come colonna sonora di un film a basso costo.
Con il batterista rientrato in Inghilterra per un lutto familiare, e dopo aver provato ad usare la traccia ritmica fornita dalla rudimentale drum-machine di un organo Hammond (le batterie elettroniche programmabili erano al di là da venire), serviva un modo per non interrompere il lavoro.
Il gruppo e i tecnici erano invece molto soddisfatti della resa sonora di "Saturday Night Fever", così a qualcuno venne in mente di prendere un paio di battute della traccia ritmica di quel pezzo, registrarle un centinaio di volte di fila e usare il tutto come nuova base ritmica per "Stayin' Alive".
Durante la ricerca delle due battute perfette, si decise di realizzare invece un loop: la batteria di "Saturday Night Fever" era registrata su quattro tracce, e venne quindi deciso di usare una macchina a quattro tracce presente nello studio per duplicare la registrazione originale ed avere pronto un nastro da tagliare per ottenere il loop di due battute.
L'anello di nastro ottenuto era lungo 20 piedi (circa 7 metri) e venne suonato facendolo girare su supporti appiccicati con il nastro adesivo alle aste dei microfoni, tutto intorno alla control.room dello studio.
Il risultato era un loop perfettamente "metronomico" ("steady"), ovvero quello che poi sarà il difetto imputato a tutte le drum machine: la perfezione del tempo, senza alcuna variazione dall'inizio alla fine...
Il risultato fu così soddisfacente che il loop ebbe una sua piccola "carriera" musicale: fu riusato sia per "More Than a Woman" dello stesso disco che per "Woman in Love" di Barbra Streisand (il tempo era aggiustato ricorrendo al controllo vari-speed del 4 tracce che suonava il loop, cioè la stessa tecnica usata dai Beatles per far coincidere tempo e tonalità dei due nastri che compongono la versione finale di "Strawberry Fields Forever"[3])
Nei credits di "Staurday Night Fever" la parte di batteria di "Stayin' Alive" venne accreditata per scherzo a "Bernard Lupè": dopo la pubblicazione, ai produttori giunsero innumerevoli richieste per quel batterista così regolare, "Steady ad a rock".
Oggi realizzare un loop con un computer è tecnicamente[4] una cosa banale: piazzi un paio di markers, senti se il risultato ti soddisfa, se no sposti i markers (a passi anche di singolo sample) fino a quando tutto non è a posto.
Se sbagli qualcosa, cancelli i markers e ricominci, tanto la registrazione originale è sempre lì, intatta.
La cosa per me incredibile è pensare che si riuscissero a fare le stesse cose con il nastro adesivo e le forbici!
Note e links:
[1] Storia famosa, la trovate con molti più dettagli sulla realizzazione di tutto l'album in questione ad esempio nella rubrica "Classic Track" di Sound on Sound, on-line magazine dedicato alle tecniche di registrazione.
[2] Per ragioni essenzialmente fiscali, come avevano fatto anche i Rolling Stones per "Exhile...".
Lo studio era il "Chateau d'Herouville", già usato da Elton John e tutt'altro che all'avanguardia: i primi di giorni di lavoro furono dedicati alla messa a terra di tutto l'impianto, che generava una collezione di ronzii assortiti...
[3] Storia famosissima, ma se qualcuno non la conoscesse vi si può dedicare una successivo post.
[4] Tecnicamente, perchè "artisticamente" invece la difficoltà è sempre la stessa: tutti i migliori strumenti del mondo da soli non fanno niente. Al limite, ti fanno fare meno fatica a fare qualcosa. Ma sei sempre tu che decidi che cosa vuoi fare.
Einsturzende Neubauten - Stella Maris
Disco del '96, "Ende Neu" contiene alcune ipotesi di nuove direzioni musicali per il gruppo di Blixa Bargeld[1], tra cui alcuni tentativi di dance-synth-pop che lasciano il tempo che trovano, ma soprattutto contiene "Stella Maris".
Che è uno di quei pezzi che, semplicemente, sono perfetti.
EN vuol dire Berlino, vuol dire canzoni in tedesco: e l'effetto-Sturmtruppen, per noi italiani, è lì ad un passo, come anche l'effetto Vianello in calzamaglia che fa il cabaret (Kabarett?), chi ricorda "...und der Haifisch, der hat Zaehne..."?[2]
E "Stella Maris" è pure una ballata, cantata in coppia con Meret Becker[3], secondo le più classiche convenzioni dei duetti tra voce maschile e femminile.
Riassumendo: ballata, in tedesco, suonata dagli EN. Il risultato dovrebbe essere una cosa inascoltabile.
E invece: è un pezzo bellissimo, a partire dal testo, che avevo sempre ignorato e ho invece scoperto leggendo un'intervista alla ragazza che ha tradotto in italiano, sul suo sito, tutti i testi degli EN. Imparando il tedesco apposta per.[4][5]
Oltretutto, dopo averne "scoperto" il significato, i suoni acquistano una forza evocativa che in un'altra lingua sarebbe stata minore.
Il pezzo è, fondamentalmente, una ninna-nanna.
La chitarra suona un drone di tre note, arpeggiando un accordo di C per tutto il pezzo e il basso suona una sola nota, con effetto slide ascendente.
C'è una batteria minimale, in secondo piano, con il solo suono di rullante probabilmente fatto con una non meglio definita percussione metallica.
Sotto il cantato, una sezione di archi: stando alle note del disco, un violoncello, tre viole e sei violini, che costruiscono il pezzo: la strofa gira attorno al drone della chitarra, mettendo in fila C C7 C/D Csus4, cioè spostamenti minimi di note all'interno di un accordo di C, mentre il "ritornello" ("Du traumst mich ich dich...) aggiunge un Bb e un Asus4, lasciando il tutto nell'ambito delle variazioni minime: nel finale c'è una parte di archi in pizzicato che raddoppia il drone della chitarra.
Niente assoli, niente effettacci, niente rumore.
Solo le voci che si rincorrono, si aggrappano una all'altra, fino alla tensione del crescendo finale. Un pezzo che a me sembra ancora attualissimo.
Note e links:
[1] E' l'anno in cui i Bad Seeds pubblicano "Murder Ballads", che qualcosa deve avere avuto a che fare con la nascita questo pezzo.
[2] Che poi era "Die Moritat von Mackie Messer", tratta dall'Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) di Weill/Brecht.
[3] Che, grazie al web, ho appena scoperto essere una cantante ed attrice piuttosto famosa in Germania, all'epoca moglie di Alex Hacke, chitarrista degli EN. Sembra abbia pure inciso un paio di album insieme all'ex-marito e ad altri EN.
[4] E magari Enrico "Sull'Amaca" qui potrebbe dire qualcosa di più...
[5] E naturalmente della traduzione sto parlando, in italiano o in inglese: mai saputo o studiato una parola di tedesco. Su Youtube c'è il video, Blixa con un inguardabile cappello da predicatore quacchero o qualcosa del genere, con le parole in inglese.
Che è uno di quei pezzi che, semplicemente, sono perfetti.
EN vuol dire Berlino, vuol dire canzoni in tedesco: e l'effetto-Sturmtruppen, per noi italiani, è lì ad un passo, come anche l'effetto Vianello in calzamaglia che fa il cabaret (Kabarett?), chi ricorda "...und der Haifisch, der hat Zaehne..."?[2]
E "Stella Maris" è pure una ballata, cantata in coppia con Meret Becker[3], secondo le più classiche convenzioni dei duetti tra voce maschile e femminile.
Riassumendo: ballata, in tedesco, suonata dagli EN. Il risultato dovrebbe essere una cosa inascoltabile.
E invece: è un pezzo bellissimo, a partire dal testo, che avevo sempre ignorato e ho invece scoperto leggendo un'intervista alla ragazza che ha tradotto in italiano, sul suo sito, tutti i testi degli EN. Imparando il tedesco apposta per.[4][5]
Oltretutto, dopo averne "scoperto" il significato, i suoni acquistano una forza evocativa che in un'altra lingua sarebbe stata minore.
Il pezzo è, fondamentalmente, una ninna-nanna.
La chitarra suona un drone di tre note, arpeggiando un accordo di C per tutto il pezzo e il basso suona una sola nota, con effetto slide ascendente.
C'è una batteria minimale, in secondo piano, con il solo suono di rullante probabilmente fatto con una non meglio definita percussione metallica.
Sotto il cantato, una sezione di archi: stando alle note del disco, un violoncello, tre viole e sei violini, che costruiscono il pezzo: la strofa gira attorno al drone della chitarra, mettendo in fila C C7 C/D Csus4, cioè spostamenti minimi di note all'interno di un accordo di C, mentre il "ritornello" ("Du traumst mich ich dich...) aggiunge un Bb e un Asus4, lasciando il tutto nell'ambito delle variazioni minime: nel finale c'è una parte di archi in pizzicato che raddoppia il drone della chitarra.
Niente assoli, niente effettacci, niente rumore.
Solo le voci che si rincorrono, si aggrappano una all'altra, fino alla tensione del crescendo finale. Un pezzo che a me sembra ancora attualissimo.
Note e links:
[1] E' l'anno in cui i Bad Seeds pubblicano "Murder Ballads", che qualcosa deve avere avuto a che fare con la nascita questo pezzo.
[2] Che poi era "Die Moritat von Mackie Messer", tratta dall'Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) di Weill/Brecht.
[3] Che, grazie al web, ho appena scoperto essere una cantante ed attrice piuttosto famosa in Germania, all'epoca moglie di Alex Hacke, chitarrista degli EN. Sembra abbia pure inciso un paio di album insieme all'ex-marito e ad altri EN.
[4] E magari Enrico "Sull'Amaca" qui potrebbe dire qualcosa di più...
[5] E naturalmente della traduzione sto parlando, in italiano o in inglese: mai saputo o studiato una parola di tedesco. Su Youtube c'è il video, Blixa con un inguardabile cappello da predicatore quacchero o qualcosa del genere, con le parole in inglese.
Il giorno più noioso del secolo
Il giorno più noioso del Novecento, secondo i calcoli algoritmici di un computerone in mano a scienziati di Cambridge, UK, ha deciso: quel giorno è stato domenica 11 aprile 1954. Quella domenica, pare, in tutto il mondo non successe praticamente nulla. A parte le elezioni in Belgio, la morte di un calciatore di football inglese, Jack Shufflebothan, e la nascita del futuro rettore della facoltà di ingegneria di Birkent in Turchia. True Knowledge, il vero sapere, l’algoritmo in questione, ha passato in rassegna 300 milioni di eventi per giungere a stabilire ciò. A parte che dubito che il computerone possa aver saputo quanto, magari, gli abitanti di un villaggio sulla costa meridionale del Messico quella domenica pomeriggio se la siano spassata divertendosi un sacco, o quanto gli abitanti della foresta del Burundi possano non essersi annoiati cercando di sopravvivere alla fame, è una data significativa. 11 aprile 1954.
Quella domenica 11 aprile 1954, un simpatico cantante grassottello con un impossibile ciuffo imbrillantinato sula fronte, stava per recarsi a New York City. Probabilmente per lui, come per mezzo universo, quella domenica fu noiosissima. Non sarebbe stato così il giorno successivo. Lui e la sua band avevano lasciato da poco l’etichetta per cui incidevano, la Essex Records, e con cui avevano raggiunto un paio di successi in classifica il più notevole dei quali una ripresa di Shake Rattle and Roll che erano riusciti a portare al numero uno della chart R&B. Ma avevano firmato per una ben più prestigiosa etichetta, la Decca Records. Lunedì 12 aprile 1954 avevano appuntamento ai Pythian Temple Studios della Grande Mela per una seduta di registrazione. La seduta quasi andò a quel paese perché il battello che li trasportava da Philadelphia rimase bloccato per qualche motivo. Comunque ce la fecero. D’altro canto gli appuntamenti con il destino non si sfuggono. Che destino sarebbe se no? Li aspettava il produttore Milt Gabler che in passato aveva lavorato anche con Billie Holiday. Lavorarono tutto il giorno, secondo il suo suggerimento, a un brano intitolato Thirteen Women (and Only One Man in Town), un titolo decisamente molto rock’n’rol. Ma il rock’n’roll non esisteva ancora. Per poche ore.
Il cantante cicciotello e dall’impossibile ciuffo sulla fronte faceva di nome Bill Haley. La sua band, The Comets. Da qualche parte a Memphis un bel ragazzone di nome Elvis stava guidando il camion per cui faceva l’autista, facendo sogni di... no, il rock’n’roll non c’era ancora. Ma sognava forte il ragazzo. In quello studio di New York invece, dopo una estenuante giornata di inutili registrazioni, Bill e i suoi ragazzi, decidono di provare un altro pezzo. E’ una canzone che è stata già incisa un paio di anni prima, un blues scritto da Max C. Freedman and James E. Myers. In studio c’è anche un chitarrista, un italo americano dall’assurdo nome di Danny Cedrone che aveva già registrato in passato con Bill Haley. Il pezzo che decidono di fare si intitola Rock Around the Clock. Ne fanno due registrazioni, poi il tecnico in studio le monterà assieme. L’assolo di chitarra che ne tira fuori Cedrone passerà alla storia come uno dei più significativi assolo di chitarra rock di tutti i tempi. Purtroppo per lui, non farà in tempo a gustarne la gloria: il 17 giugno di quell’anno cade da una scalinata e muore sul colpo. Ci sarà molto più da divertirsi però nel prossimo futuro. Rock Around the Clock viene pubblicata come B side di Thirteen Women (and Only One Man in Town) poche settimane dopo. Viene bellamente ignorata dal pubblico e si rivela un flop. Fino a circa un anno dopo, quando inserita nella colonna sonora del film Blackboard Jungle, epsloderà a livello mondiale. Ma soprattutto farà esplodere qualcos’altro: la grande festa del rock’n’roll. Che noiosa proprio non si potrà mai definire. Magari di basso livello a volte, ma mai noiosa, almeno quanto una domenica 11 aprile 1954. Sebbene nel luglio di quello stesso anno il ragazzone di Memphis che faceva l’autista di camion indovinava anche lui la canzone “evento” che avrebbe aiutato ad accendere la miccia del più grande party del secolo scorso – che a buon conto sembra ancora non essere finito – Rock Around the Clock sarebbe passata alla storia come l’inno ufficiale dei giovani ribelli degli anni 50, e la canzone che più di ogni altra, anche più di quelle del ragazzone di Memphis, avrebbe portato il rock’n’roll nella cultura popolare mondiale.
Eh sì, quell’11 aprile 1954 era proprio una noia. Ci voleva qualcuno che il giorno dopo cambiasse il corso degli eventi. D’altro canto, come dice lo scrittore americano Greil Marcus, “il rock’n’roll è quella cosa misteriosa che sembra venuta dal nulla e che ha cambiato il corso degli eventi”. Coincidenze? No. A meno che non siate così superficiali da non credere a quel ragazzo di colore che un giorno a un incrocio si vendetta l’anima al diavolo per suonare il blues. Perché il diavolo esiste. E anche il rock’n’roll. Around the clock.
Rolling Vietnam
Rolling Vietnam, radio-grafia di una guerra
Di Nicola Gervasini
(Pacini Editore, 184 pgg., 15 euro)
Evviva. Finalmente in Italia si muove qualcosa almeno nel modo di fare libri rock. Questo Rolling Vietnam di Nicola Gervasini, giornalista e appassionato di musica, è l’esempio. Basta con le bio-agio-mono-spacca-grafie che impestano da decenni le librerie. Innanzi tutto, come potrà mai un italiano fare un libro serio su un artista anglo-americano? Ovvio (lo so perché ne ho fatti anche io), copiando qua e là da libri già pubblicati all’estero. Oppure i cento-mila-milioni meglio dischi del rock, o i concerti. Ma non c’è nulla di originale che chiunque conosca un po’ l’inglese non abbia già letto e riletto.
Certo, anche un italiano che parli della guerra in Vietnam appare bizzarro. Personalmente sono così vecchio da ricordare un tg dei primi anni 70 con un servizio dal Vietnam, in cui – ricordo benissimo – si vedeva questo elicottero con a bordo soldati armati di mitra e il giornalista che diceva come “quelli del Nord” avesero appena lanciato una pericolosa offensiva che stava portando guai seri a “quelli del sud”. Siccome da piccolo uno dei miei giochi preferiti era fare “nordisti contro sudisti” (guerra di Secessione americana, secolo XIX) e io ero un nordista fiero e orgoglioso, ricordo che tifai per “quelli del nord”, tranne realizzare qualche anno dopo e più grandicello dopo aver visto i boat people e i campi di rieducazione (lager) che forse quella vittoria non era poi stata quella gran figata di cui cantava anche Eugenio Finardi. Tantè.
Il libro di Nicola Gervasini è un gran bel libro perché piuttosto che analisi socio politico musicale, è una sorta di romanzo rock. Ecco come vanno scritti i libri musicali. Romanzi. Perché non c’è miglior romanzo (dunque anche un po’ ficiton come ogni romanzo) che la musica rock. E Gervasini lo fa benissimo, tenendo un ottimo ritmo, raccontando la storia di un certo David che un giorno trova nella soffitta un vinile degli Almanac Singers – oddio chi erano costoro? – e da lì parta un recupero della memoria, non solo del protagonista, ma di una nazione, l’America. C’è di mezzo il padre di David, scomparso da poco, c’è la guerra in Vietnam e c’è tantissima musica rock, che fu la colonna sonora di quegli anni tragici e appassionanti.
Ecco perché una radio-grafia. Perché leggere questo libro fa venire voglia di correre a mettere su quei dischi che hanno raccontato quegli anni. Come ascoltare una radio. E Gervasini traccia senza perdere un pezzo (lo sapevate che Daniel di Elton John parla di un reduce del Vietnam?), una citazione, un passaggio storico-musicle. Un libro che è un juke box, un jukebox che è un romanzo. Good job.(Il libro è impreziosito da una introduzione del cantautore americano Willie Nile e una dell'italiano Massimo Priviero).
Dopo la fanzine Rockgarage Marco Pandin continua con la Catfood Press
Marco Pandin dopo aver chiuso il ciclo di Rockgarage (fanzine ed allegati sonori), ha proseguito creando una nuova etichetta indipendente, la Catfood Press. L’idea era di continuare a stampare nuovo materiale però distribuendolo diversamente, senza intermediari. Ho fatto quattro chiacchiere con Marco sulla Catfood Press, che ha rappresentato un importante passo per arrivare all’attuale etichetta Stella*Nera.
Domanda: Marco, dopo la chiusura della fanzine e della etichetta discografica Rockgarage, non sei riuscito a stare fermo, vero?
Risposta: Non è andata proprio così, non si è trattato di un semplice voltare pagina, o di un improvviso cambiamento di scena e di progetti. Per spiegare meglio la situazione va fatta una premessa, certo un po’ troppo lunga ma necessaria. Nel giro di un paio d’anni Rockgarage aveva cambiato dimensioni, da una fanzine a mentalità e diffusione locale sembrava diventare un affare nazionale, o perlomeno ci si stava arrivando. Andavo spesso a Roma per lavoro e lì ho incontrato più volte Marcello Baraghini, che già ci aveva offerto la copertura legale di Stampa Alternativa: si pensava di dare a Rockgarage una periodicità regolare e con il suo sostegno tecnico sarebbe stato possibile. L’idea era di fare press’a poco come qualche anno dopo avrebbe fatto Giacomo Spazio con Vinile, un contenitore con dentro un disco 7” e un numero di pagine standard, il tutto fatto circolare a basso prezzo. A partire dal terzo numero, quindi dal 1983, abbiamo affidato una parte della tiratura di Rockgarage alla distribuzione commerciale. Lo stesso passo è stato fatto coi dischi: avevamo partecipato nel 1984 al primo meeting delle etichette indipendenti a Firenze e stabilito contatti con un sacco di gente, la voce girava, sono comparse su giornali e altre fanzine le prime recensioni e segnalazioni. Ritrovarsi segnalati su Sound Choice o Maximum Rock’n’Roll significava avere posta in arrivo da gestire per settimane e quindi contatti e spedizioni e scambi che andavano avanti per mesi. C’è una cosa da sottolineare: vorrei ricordare che eravamo un gruppo improvvisato di ventenni, dilettanti, dopolavoristi. Il successo di Rockgarage era senz’altro un’esperienza positiva, ma gestirlo era sempre più difficile e impegnativo. Io, che pure ne ero radicalmente coinvolto da prima del primo numero e del primo disco, Rockgarage non l’ho mai vissuto come “un lavoro” o “un obbligo”, era solo una parte della mia vita, non il nodo in cui si concentrava tutta la mia vita. Era una buona idea, questo sì, ma ne avevo anche altre in testa, e anche altri pensieri tipo la scarsa salute dei miei genitori, avevo altri problemi, per dire, casa e lavoro e sopravvivenza spicciola, altri interessi. Arrivavano lettere e richieste ogni giorno e quindi c’erano pacchi da fare e da spedire ogni giorno, e nelle buste delle lettere c’erano spesso anche dei soldi o dei francobolli, arrivavano vaglia, insomma c’era quel minimo di contabilità da tenere e col volontariato e l’improvvisazione e il dilettantismo si arrivava fino a un certo punto ma poi basta. Ci voleva insomma una quantità di tempo e di attenzione sempre maggiore, tempo ed attenzione che nessuno di noi aveva, io meno che meno, così abbiamo trovato chi poteva mettere a disposizione un po’ del suo tempo e della sua attenzione per noi, in cambio di soldi ovviamente. Il nostro principale punto di riferimento per la distribuzione era un ragazzo di Venezia che si era inventato praticamente dal niente un lavoro, uno con cui s’era fatta una certa amicizia e che era entrato nel nostro giro, e noi un po’ nei suoi. La scena indipendente di allora era costituita in grande parte da gente così, ragazzi più o meno come noi per cui c’era una certa tendenza alla fiducia reciproca ed alla collaborazione perché ci si riconosceva ciascuno nell’altro, eravamo ciascuno a suo modo impegnati a costruire un mondo. Erano ragazzi come noi quelli che suonavano nei gruppi e stampavano le fanzine, ed erano anche ragazzi come noi che aprivano dei piccoli negozi di dischi e dei piccoli locali: negozi come il Backdoor di Torino, locali come il Banale di Padova e il Victor Charlie di Pisa, sono tutte cose che sono state messe in piedi e fatte funzionare da gente che negli anni Ottanta aveva vent’anni. Purtroppo la fiducia è stata spesso mal riposta: noi siamo stati particolarmente sfigati, diciamocelo pure, ma non siamo stati certo un caso isolato, Rockgarage è stata solo una delle tante iniziative costrette a chiudere perché ci si ritrovava improvvisamente senza soldi e soprattutto senza che ce ne fosse un motivo, perché il materiale andava sì richiesto dai vari distributori e negozi e poi diffuso e venduto, però non veniva praticamente mai pagato. A dirne una Vittore Baroni e Piermario Ciani, sebbene Trax fosse un progetto molto meno traballante e disorganizzato di Rockgarage, hanno avuto esattamente gli stessi nostri problemi nel recuperare i crediti. Il non pagare era una pratica diffusa e comune sia ai negozi e distributori tradizionali che ai cosiddetti “alternativi”. I primi prendevano il grosso del materiale in nero, tipo cinquanta-cento-duecento copie, e solo cinque-dieci-venti fatturate, qualcuno magari ti dava un’elemosina di anticipo e se sollecitavi il saldo spesso ricevevi solo risate, tante volte a malapena riuscivi a presentarti che il telefono te lo sbattevano in faccia. Mica potevi prendere il treno e andare a Firenze o a Zurigo o a Tokyo e piazzarti lì davanti al negozio e piantare un casino: in fin dei conti le ricevute quando c’erano erano banali pezzi di carta con un timbro e una firma del cazzo sopra, e sarebbe stato controproducente sostenere i costi di una causa legale per recuperare quella miseria che risultava regolarmente fatturata. Con gli “alternativi” era meno complicato, si facevano degli scambi: certe cose importate erano solo in vendita, e questo è comprensibile, ma se concordavi uno scambio per dire con la Diavlery di Bologna poteva succedere, e infatti succedeva, che ti arrivava solo una parte del materiale perché nel frattempo le loro scorte si erano esaurite, e poi andava tutto a dissolversi in una nebbia di dimenticanze e pressapochismo. Quelli del Virus di Milano erano senz’altro più coerenti: non hanno mai rispettato gli accordi, prendevano il materiale ma poi non ti davano un cazzo, a me non è mai arrivato un pacchetto che sia stato uno. All’estero mica era diverso: anche negozi e distributori affermati come Blacklist Mailorder in California, che avevano preso contatto con me inviando un biglietto di referenze su carta intestata di Alternative Tentacles firmato da Jello Biafra, e addirittura i compagni insospettabili di No Man’s Land, Rec Rec, Eastern Works e Ayaa Disques (rispettivamente le basi tedesca, svizzera, giapponese e francese della Recommended inglese, non so se mi spiego) hanno richiesto e preso centinaia di copie di dischi e cd senza pagare un soldo né offrire neanche qualche fondo di magazzino in scambio. Pensa che dalle cassette dei Crass, pubblicate e ci tengo a sottolinearlo con regolare autorizzazione da Catfood Press, quelli di Blacklist hanno ricavato e stampato prima in vinile e poi in cd un bootleg. Tuttora lo si trova in vendita su siti anarchici e antagonisti tipo amazon.com, so che ne hanno vendute un bel po’ ma so anche che alla Dial House non hanno mai mandato un cazzo. Tornando alla tua domanda, nella mia linea del tempo la fanzine e l’etichetta Rockgarage, Catfood Press e poi P.E.A.C.E. e le attività con la A/Rivista Anarchica e stella*nera si sovrappongono, coesistono, sono una la prosecuzione, la mutazione, la degenerazione dell’altra. Un giorno io e i miei compagni di Rockgarage ci siamo ritrovati improvvisamente senza soldi, ma non è stata quella la catastrofe, non credo che a farci smettere sia stato il vuoto improvviso in cassa: il problema è stata la tristezza, l’amarezza per essere stati derubati di tutto. E’ stata senza dubbio un’occasione per crescere, per smetterla una buona volta con i cazzeggi e guardare in faccia la realtà, cominciare a fare sul serio con la vita. Ho continuato a scrivere e a interessarmi di musica perché mi è sempre piaciuto farlo, non è che non ero capace di stare fermo e allora dopo Rockgarage mi sono inventato un qualche altro giocattolo. In tutta onestà mi sembra di aver fatto praticamente sempre la stessa cosa, magari adattandomi meglio all’ambiente, cercando di ripararmi meglio dal maltempo.
D: La prima pubblicazione della Catfood Press fu il libro dedicato ai Crass e al movimento anarcopunk inglese.
R: Ho messo insieme un’intervista e le traduzioni dei loro testi, fatte da me e da altri amici e compagni, più un indirizzario di fanzine, gruppi, etichette, associazioni e centri culturali inglesi frutto di contatti presi personalmente e tramite Rockgarage ed A/Rivista Anarchica. Ho raccolto il tutto in un centinaio di pagine fotocomposte da me nei ritagli di tempo libero e che ho fatto stampare alla tipografia Utopia, dove stampavamo Rockgarage. A ogni copia ho allegato un flexi che qualche tempo prima veniva diffuso con la fanzine “Toxic graffiti” curata da Andy Palmer, uno dei chitarristi dei Crass. In quell’anno, nel 1984, ho iniziato a collaborare regolarmente con la A/Rivista Anarchica. Per via di quel che ci siamo detti finora ero davvero in serie difficoltà economiche e non potevo mandargli dei soldi come avrei voluto, così un giorno ho pensato che sarebbe stato bello sostenerla tramite quelle produzioni discografiche ed editoriali che sapevo fare e che mi piaceva fare. Direi che è nato tutto da qui, e che la cosa sta andando avanti da allora, con alti e bassi, anzi devo dire con alti e basta, e pure con delle grosse soddisfazioni.
D: Leggendo i titoli delle uscite della Catfood Press noto che i contenuti sono più politici e anarchici, vero?
R: Con gli anarchici mi sono sempre trovato bene, per me è una buona compagnia. Avevo cominciato a frequentarne quando a sedici-diciott’anni bazzicavo a Radio Mestre 103, era tutta gente più vecchia di me ma che mi trattava con rispetto anche se ero solo uno sbarbatello, pensa che con qualcuno ci si vede e ci si sente ancora adesso. Poi mi fermavo spesso e volentieri alla libreria Utopia di Venezia quando andavo all’università. Insomma mi s’era innescata una miccia da qualche parte dentro al cuore e mi sentivo attratto da quei giri e da quelle frequentazioni. La cosa è poi continuata, ho partecipato alle riunioni della redazione della A/Rivista e conosciuto tanti compagni. Sono sempre stato accolto a braccia aperte quando mi presentavo in una libreria o in un qualche centro o collettivo anarchico all’estero con una copia di A e gli mostravo il mio nome scritto lì sopra. Tante delle persone con cui mi sento più legato ed a mio agio le ho conosciute ed incontrate in giri anarchici.
D: Come selezionavi il materiale da pubblicare?
R: Ho concentrato l’attenzione su quello che mi stava succedendo allora, sulle mie frequentazioni inglesi, i miei nuovi amici: nel 1982 ho conosciuto John Loder e dal 1983 sono stato più volte dai Crass a Dial House, poi loro tramite ho potuto incontrare personalmente anche altri musicisti e gruppi che mi piacevano come Adrian Sherwood, Flux of Pink Indians, Omega Tribe e Poison Girls etc. Riuscivo ad andare a Londra anche tre o quattro volte in un anno spendendo pochissimo con l’aiuto di un’amica che lavorava in un’agenzia di viaggi: spesso le riusciva di imbucarmi in una comitiva, a volte saltava fuori un biglietto a scrocco ma dovevo partire tipo la sera stessa e tornare due-tre giorni dopo. Dormire a Londra non è mai stato un problema: case occupate, una branda in ostello, il divano di qualcuno conosciuto per caso. In breve sono riuscito a recuperare molto materiale, dischi e cassette soprattutto, ma anche fanzine, libretti e volantini, tutte cose che qui non giravano granché. Ho cominciato a raccogliere le traduzioni dei testi dei Crass perché mi interessavano personalmente, poi mi sono reso conto che era una storia troppo grossa per tenerla per me, bisognava condividerla, bisognava far sapere che a mille chilometri di distanza c’era della gente che stava facendo certe cose che per me erano importanti, ero convinto sarebbe stato possibile adattarne l’ispirazione alla nostra diversa sensibilità e magari fare non dico altrettanto ma almeno provarci. Dei Flux ho tradotto uno scritto diffuso ai loro concerti del 1984, qualche tempo prima avevo conosciuto Annie Anxiety così ho tradotto alcune cose scritte da lei, poi nell’ottobre 1984 l’ho accompagnata durante un breve giro in Italia durante i giorni del convegno internazionale anarchico a Venezia. Di Pete Wright ho tradotto un articolo pubblicato dal quindicinale pacifista Peace News. Un paio di altre cassette erano in lavorazione, erano registrazioni di Current 93 e Nurse With Wound che mi aveva mandato David Tibet, ma avevo ricevuto solo autorizzazioni piuttosto vaghe così ho lasciato stare. Nel corso del 1986 ho lavorato a “F/Ear this!”, che ho pubblicato l’anno successivo e che è stata l’ultima cosa in cui è stata coinvolta Catfood Press.
D: In quali altri aspetti si differenzia la Catfood da Rockgarage?
R: Catfood Press non era un’etichetta indipendente, nel senso che non si è occupata di musica e di dischi quanto piuttosto di ragionamenti. Per me c’era essenzialmente l’esigenza di trovare un modo per far circolare delle idee, per forza di cose veicolate tramite un supporto cartaceo o discografico, senza passare obbligatoriamente per i centri di distribuzione, né quelli commerciali né quelli alternativi. Mica c’era internet, allora: si andava avanti a fotocopie, posta, cose così. Rispetto a Rockgarage le tirature erano più basse: trecento copie la cassetta dei Death in June, complessivamente seicento copie il concerto per Peace News, i libretti con le traduzioni di Flux, Annie e Pete sono circolati in tirature di due-trecento copie ciascuno. Ho osato alzare il tiro con “F/Ear this!”, milleduecento copie in vinile e non so se trecento o cinquecento cassette, dovrei andare a vedere le vecchie carte.
D: Avevi collaboratori o hai preferito non coinvolgere nessuno?
R: Vittore Baroni mi ha aiutato enormemente con la realizzazione di “F/Ear this!” curando il libretto che è stato allegato all’edizione su vinile, anche il nome della raccolta l’ha pensato lui. Non ho fatto io alcune delle traduzioni dei testi dei Crass pubblicate nel libro, per il resto direi che ho fatto tutto da solo, dalle registrazioni dei concerti all’impaginazione, alla stampa, alla confezione. E buona parte delle spedizioni.
D: Parliamo della distribuzione dei materiali Catfood, hai fatto come per Rockgarage o…
R: Purtroppo non sono riuscito a mandare avanti da solo anche la distribuzione e sono stato proprio un coglione, ho continuato per troppo tempo ancora a fidarmi dei giri “alternativi”. Tra i punks e gli indipendenti di Milano, Venezia, Torino e Bologna sono state diffuse più di ottocento copie del libro dei Crass, due terzi della tiratura quindi, ma non è ritornata una lira. Anzi no, non è corretto: solo dopo un bel po’ di mesi mi è arrivato da Bologna come scambio un pacco semidistrutto con dentro delle copie ondulate insuonabili e invendibili di un picture disc dei CCCP. I libretti con le traduzioni dei Flux, di Annie e di Pete li ho fatti girare da solo. Ho cercato di arrangiarmi da solo anche con la diffusione delle cassette del concerto benefit per Peace News, purtroppo mi sono state fregate quasi tutte quelle dei Death in June. Pensa che ne è stata fatta anche un’edizione taroccata (la cassetta originale era accompagnata da un libretto e un badge) e poi anche un bootleg su cd, Douglas Pearce temeva che fossi coinvolto, figuriamoci. Per ritornare brevemente al discorso di prima sui rapporti non sempre corretti con i distributori, i flexi da allegare al libro erano stati inviati dai Crass ai Raf Punk assieme ad altro materiale che avevano ordinato, e Giampi ha preteso da me 120mila lire giustificandole come costo vivo del materiale, soldi che io gli ho dato subito e senza fiatare. Poco tempo dopo, parlando con i Crass, sono rimasti tutti molto sorpresi di questo fatto perché i flexi erano un regalo, mica erano da pagare. Mettiamola così, diciamo che è stato un altro contributo per la causa. Non so se si capisce il sarcasmo, forse dovrei metterci degli emoticon per stemperare la delusione e rendere tutto più simpatico. Difficile dimenticare quel tizio di Sottosopra di Grosseto che dopo un paio di lettere e varie telefonate ha ordinato roba per quasi mezzo milione inviando per fax alla A/Rivista Anarchica la ricevuta di un versamento che è poi risultato non essere mai stato effettuato. Ho tenuto per ricordo un bel pacco di fotocopie di ricevute, resoconti, lettere senza risposta e fax spediti a vuoto: non c’è mai stato nessuno dall’altra parte, neanche quando qui si è trattato di affrontare emergenze per cure mediche e funerali.
D: Cosa facevi per far conoscere le uscite della Catfood Press?
R: Avevo accumulato un bel giro di posta girando a Londra e in Francia, c’era l’indirizzario di Rockgarage, stavo prendendo molti nuovi contatti grazie alla A/Rivista Anarchica. Ho usato il passaparola, innanzitutto: fotocopiavo dei bigliettini che mettevo nella posta in uscita. Poi era importante arrivare ad occupare un po’ di spazio su certa stampa musicale: una segnalazione su Rockerilla o sul Mucchio ha sempre garantito un bel numero di richieste.
D: Nel catalogo spicca la band dark o gothic inglese dei Death In June, come ci sono entrati?
R: Sono venuti a suonare a Venezia, volevo incontrarli e l’ho fatto: era l’unica maniera per sapere le cose direttamente dalla fonte. Alla metà degli anni Ottanta non era come adesso, che ti piazzi davanti a una tastiera e un monitor e in pochi minuti raccogli informazioni da mezzo mondo. Le cose si venivano a sapere in ritardo, specie se non viaggiavano tramite i telegiornali o la stampa ufficiale. Pensa al punk qui in Italia, noi ragazzi alla fine degli anni Settanta stavamo ancora vivendo la nostra parte di Sessantotto, io ascoltavo Henry Cow e Stormy Six, in radio e nelle strade giravano gli Area ed Eugenio Finardi, si discuteva di aborto, proletari in divisa e obiezione di coscienza, altro che Sex Pistols e spillette. A Milano, forse, Torino, Roma, nelle città grandi. Ma qua in provincia nel Nordest non arrivava niente. La nostra era una cultura giovanile lenta, organizzata accumulando libri e dischi presi in prestito e mai restituiti, fotocopie, ritagli di giornali, lettere, telefonate, cassette copiate, incontri. Al tempo giravano voci incontrollate, si diceva che i Death in June fossero degli attivisti o quantomeno dei simpatizzanti di estrema destra, gente da evitare, anzi da schiacciare, da annientare. La stampa musicale inglese aveva stroncato il loro album “Nada!”, dentro c’erano canzoni oscure, difficili e misteriose, diverse dall’immediatezza punk caciarona che andava di moda. Le informazioni che avevo io erano invece ben diverse, dalle fanzine si sapeva che Douglas Pearce e Tony Wakeford anni prima erano nei Crisis, un gruppo punk che bazzicava piuttosto i giri di Rock Against Racism e dell’Anti Nazi League, tramite amici e compagni inglesi sapevo anche che i Death in June avevano presentato quel loro album così controverso al 100 Club di Londra in una serata organizzata da David Tibet con Current 93, Annie Anxiety e D&V. Insomma, all’infiltrazione dei fascisti nel punk anarchico non ci credevo mica tanto, la stampa ha ogni tanto bisogno di streghe da bruciare per distrarre la gente dalla noia. Penso che Rockerilla, che al tempo ha dedicato alle dichiarazioni di Douglas Pearce uno spazio consistente, sebbene leggermente sforbiciato, abbia aiutato a portare un po’ di luce in quelle tenebre di disinformazione.
D: La Catfood Press conclude la sua vita con la compilation “F/Ear this!” che purtroppo non ho mai visto e ascoltato. Me ne vuoi parlare?
R: L’ idea era raccogliere in giro contributi di vario genere, musiche, canzoni, testi, disegni tutti ricollegati o ricollegabili a un tema comune, la “paura”. Il 1984 era appena passato ma si discuteva comunque di centrali atomiche e guerra nucleare, il “non futuro” punk era diventato un buco nero di disoccupazione e sfruttamento. Si viveva nell’onda lunga dell’asse Reagan-Thatcher e del possibile conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest in Europa, il muro di Berlino era saldamente in piedi e la Yugoslavia e la Cecoslovacchia e l’URSS pure, c’era appena stato l’incidente di Chernobyl, cose così, non è che nel 1986-1987 si vivesse così tranquilli, tra new wave e sorrisi di socializzazione. Non è come raccontano alla televisione nei programmi di revival: il dilagare di gruppi pop col sintetizzatore non ha reso gli anni Ottanta meno difficili. Nel pensare “F/Ear this!” c’era insomma la voglia di raccogliere e raccontare questo malessere e questa disperazione con un linguaggio diverso, in una parola si è cercato di non passare per la strada più facile, attraverso i soliti slogan punk tipo fotti-il-sistema che comunque non sentivamo come nostri. S’è fatta girare la voce e dopo un po’ sono arrivati contributi da mezzo mondo: poesie, disegni, ore e ore di registrazioni. Proprio come si sperava le forme espressive sono le più varie, spaziano dall’improvvisazione al rumorismo, si sono sperimentate contaminazioni e ibridi sonori, sono arrivate tantissime cose scritte, poesie, testi, disegni, collage. Hanno partecipato tanti musicisti sconosciuti ma inaspettatamente anche qualche nome noto come gli inglesi Nurse With Wound ed i tedeschi Embryo. Non mi aspettavo una risposta di queste dimensioni e per forza di cose ho dovuto mettere dei limiti, tipo stabilire una certa durata massima e una data di scadenza del progetto, ma tanti contributi hanno continuato ad arrivare per mesi e mesi, anche quando il disco era già stato pubblicato. Il grosso dei contributi è purtroppo rimasto tagliato fuori.
D: Hai in mente di ripubblicare questo materiale?
R: Buona parte delle traduzioni dei testi dei Crass, ben sistemate e corrette, sono disponibili sulle pagine web di stella*nera. C’è anche il testo di “A tissue of issues” di Pete Wright, tra qualche tempo rivedrò e renderò disponibili anche alcune traduzioni di Annie Anxiety. Con il supporto tecnico di Marco Giaccaria, che con Marco Milanesio in questi anni mi ha aiutato a salvare alcune delle vecchie bobine e cassette dei Franti e non solo destinate alla corrosione, sono riuscito a recuperare buona parte delle registrazioni raccolte per questo progetto. Penso di riuscire a pubblicare “F/Ear this!” su cd entro qualche mese, anche con dei testi, immagini e registrazioni che non avevano trovato posto nell’ edizione di allora. Lo stesso, dopo un periodo diciamo così di congelamento dovuto a problemi interni tra gli ex-Crass, sto per pubblicare il benefit per Peace News: le registrazioni sono state restaurate e digitalizzate da Paul Harding, uno dei tecnici dei Southern Studios. Verranno allegate ad un libretto che contiene un mio scritto, ritagli di interviste anche recenti, qualche foto del concerto e le traduzioni dei testi.
Riferimenti:
http://www.anarca-bolo.ch/Stellanera%20website/main.htm
2. Annie Anxiety “Poesie e canzoni d’amore e rivoluzione” (libretto A4 fotocopiato, 1984)
3. Crass, Flux of Pink Indians, Annie Anxiety, D & V “Benefit concert for Peace News” (tre cassette C60 e due libretti A6 fotocopiati, registrate a Maggio del 1984 e pubblicate a Gennaio 1985)
4. Flux of Pink Indians “Thatcher wants us all to crawl on our fucking knees” (libretto A4
fotocopiato, 1985)
6. Death in June “The white hands of death” (cassetta C60 e libretto A6 fotocopiato + badge, 1985)
7. Pete Wright “A tissue of issues” (libretto A4 fotocopiato, 1985)
8. T-shirt serigrafata dei Flux Of Pink Indians cat/005, con aiuto di Giacomo Spazio (50 esemplari di colore bianco e 100 di colore grigio, 1985)
9. Various “f/ear this!” (2 lp e libretto o 2 cassette, 1987)
L' album dedicato alla Catfood Press:
Domanda: Marco, dopo la chiusura della fanzine e della etichetta discografica Rockgarage, non sei riuscito a stare fermo, vero?
Risposta: Non è andata proprio così, non si è trattato di un semplice voltare pagina, o di un improvviso cambiamento di scena e di progetti. Per spiegare meglio la situazione va fatta una premessa, certo un po’ troppo lunga ma necessaria. Nel giro di un paio d’anni Rockgarage aveva cambiato dimensioni, da una fanzine a mentalità e diffusione locale sembrava diventare un affare nazionale, o perlomeno ci si stava arrivando. Andavo spesso a Roma per lavoro e lì ho incontrato più volte Marcello Baraghini, che già ci aveva offerto la copertura legale di Stampa Alternativa: si pensava di dare a Rockgarage una periodicità regolare e con il suo sostegno tecnico sarebbe stato possibile. L’idea era di fare press’a poco come qualche anno dopo avrebbe fatto Giacomo Spazio con Vinile, un contenitore con dentro un disco 7” e un numero di pagine standard, il tutto fatto circolare a basso prezzo. A partire dal terzo numero, quindi dal 1983, abbiamo affidato una parte della tiratura di Rockgarage alla distribuzione commerciale. Lo stesso passo è stato fatto coi dischi: avevamo partecipato nel 1984 al primo meeting delle etichette indipendenti a Firenze e stabilito contatti con un sacco di gente, la voce girava, sono comparse su giornali e altre fanzine le prime recensioni e segnalazioni. Ritrovarsi segnalati su Sound Choice o Maximum Rock’n’Roll significava avere posta in arrivo da gestire per settimane e quindi contatti e spedizioni e scambi che andavano avanti per mesi. C’è una cosa da sottolineare: vorrei ricordare che eravamo un gruppo improvvisato di ventenni, dilettanti, dopolavoristi. Il successo di Rockgarage era senz’altro un’esperienza positiva, ma gestirlo era sempre più difficile e impegnativo. Io, che pure ne ero radicalmente coinvolto da prima del primo numero e del primo disco, Rockgarage non l’ho mai vissuto come “un lavoro” o “un obbligo”, era solo una parte della mia vita, non il nodo in cui si concentrava tutta la mia vita. Era una buona idea, questo sì, ma ne avevo anche altre in testa, e anche altri pensieri tipo la scarsa salute dei miei genitori, avevo altri problemi, per dire, casa e lavoro e sopravvivenza spicciola, altri interessi. Arrivavano lettere e richieste ogni giorno e quindi c’erano pacchi da fare e da spedire ogni giorno, e nelle buste delle lettere c’erano spesso anche dei soldi o dei francobolli, arrivavano vaglia, insomma c’era quel minimo di contabilità da tenere e col volontariato e l’improvvisazione e il dilettantismo si arrivava fino a un certo punto ma poi basta. Ci voleva insomma una quantità di tempo e di attenzione sempre maggiore, tempo ed attenzione che nessuno di noi aveva, io meno che meno, così abbiamo trovato chi poteva mettere a disposizione un po’ del suo tempo e della sua attenzione per noi, in cambio di soldi ovviamente. Il nostro principale punto di riferimento per la distribuzione era un ragazzo di Venezia che si era inventato praticamente dal niente un lavoro, uno con cui s’era fatta una certa amicizia e che era entrato nel nostro giro, e noi un po’ nei suoi. La scena indipendente di allora era costituita in grande parte da gente così, ragazzi più o meno come noi per cui c’era una certa tendenza alla fiducia reciproca ed alla collaborazione perché ci si riconosceva ciascuno nell’altro, eravamo ciascuno a suo modo impegnati a costruire un mondo. Erano ragazzi come noi quelli che suonavano nei gruppi e stampavano le fanzine, ed erano anche ragazzi come noi che aprivano dei piccoli negozi di dischi e dei piccoli locali: negozi come il Backdoor di Torino, locali come il Banale di Padova e il Victor Charlie di Pisa, sono tutte cose che sono state messe in piedi e fatte funzionare da gente che negli anni Ottanta aveva vent’anni. Purtroppo la fiducia è stata spesso mal riposta: noi siamo stati particolarmente sfigati, diciamocelo pure, ma non siamo stati certo un caso isolato, Rockgarage è stata solo una delle tante iniziative costrette a chiudere perché ci si ritrovava improvvisamente senza soldi e soprattutto senza che ce ne fosse un motivo, perché il materiale andava sì richiesto dai vari distributori e negozi e poi diffuso e venduto, però non veniva praticamente mai pagato. A dirne una Vittore Baroni e Piermario Ciani, sebbene Trax fosse un progetto molto meno traballante e disorganizzato di Rockgarage, hanno avuto esattamente gli stessi nostri problemi nel recuperare i crediti. Il non pagare era una pratica diffusa e comune sia ai negozi e distributori tradizionali che ai cosiddetti “alternativi”. I primi prendevano il grosso del materiale in nero, tipo cinquanta-cento-duecento copie, e solo cinque-dieci-venti fatturate, qualcuno magari ti dava un’elemosina di anticipo e se sollecitavi il saldo spesso ricevevi solo risate, tante volte a malapena riuscivi a presentarti che il telefono te lo sbattevano in faccia. Mica potevi prendere il treno e andare a Firenze o a Zurigo o a Tokyo e piazzarti lì davanti al negozio e piantare un casino: in fin dei conti le ricevute quando c’erano erano banali pezzi di carta con un timbro e una firma del cazzo sopra, e sarebbe stato controproducente sostenere i costi di una causa legale per recuperare quella miseria che risultava regolarmente fatturata. Con gli “alternativi” era meno complicato, si facevano degli scambi: certe cose importate erano solo in vendita, e questo è comprensibile, ma se concordavi uno scambio per dire con la Diavlery di Bologna poteva succedere, e infatti succedeva, che ti arrivava solo una parte del materiale perché nel frattempo le loro scorte si erano esaurite, e poi andava tutto a dissolversi in una nebbia di dimenticanze e pressapochismo. Quelli del Virus di Milano erano senz’altro più coerenti: non hanno mai rispettato gli accordi, prendevano il materiale ma poi non ti davano un cazzo, a me non è mai arrivato un pacchetto che sia stato uno. All’estero mica era diverso: anche negozi e distributori affermati come Blacklist Mailorder in California, che avevano preso contatto con me inviando un biglietto di referenze su carta intestata di Alternative Tentacles firmato da Jello Biafra, e addirittura i compagni insospettabili di No Man’s Land, Rec Rec, Eastern Works e Ayaa Disques (rispettivamente le basi tedesca, svizzera, giapponese e francese della Recommended inglese, non so se mi spiego) hanno richiesto e preso centinaia di copie di dischi e cd senza pagare un soldo né offrire neanche qualche fondo di magazzino in scambio. Pensa che dalle cassette dei Crass, pubblicate e ci tengo a sottolinearlo con regolare autorizzazione da Catfood Press, quelli di Blacklist hanno ricavato e stampato prima in vinile e poi in cd un bootleg. Tuttora lo si trova in vendita su siti anarchici e antagonisti tipo amazon.com, so che ne hanno vendute un bel po’ ma so anche che alla Dial House non hanno mai mandato un cazzo. Tornando alla tua domanda, nella mia linea del tempo la fanzine e l’etichetta Rockgarage, Catfood Press e poi P.E.A.C.E. e le attività con la A/Rivista Anarchica e stella*nera si sovrappongono, coesistono, sono una la prosecuzione, la mutazione, la degenerazione dell’altra. Un giorno io e i miei compagni di Rockgarage ci siamo ritrovati improvvisamente senza soldi, ma non è stata quella la catastrofe, non credo che a farci smettere sia stato il vuoto improvviso in cassa: il problema è stata la tristezza, l’amarezza per essere stati derubati di tutto. E’ stata senza dubbio un’occasione per crescere, per smetterla una buona volta con i cazzeggi e guardare in faccia la realtà, cominciare a fare sul serio con la vita. Ho continuato a scrivere e a interessarmi di musica perché mi è sempre piaciuto farlo, non è che non ero capace di stare fermo e allora dopo Rockgarage mi sono inventato un qualche altro giocattolo. In tutta onestà mi sembra di aver fatto praticamente sempre la stessa cosa, magari adattandomi meglio all’ambiente, cercando di ripararmi meglio dal maltempo.
D: La prima pubblicazione della Catfood Press fu il libro dedicato ai Crass e al movimento anarcopunk inglese.
R: Ho messo insieme un’intervista e le traduzioni dei loro testi, fatte da me e da altri amici e compagni, più un indirizzario di fanzine, gruppi, etichette, associazioni e centri culturali inglesi frutto di contatti presi personalmente e tramite Rockgarage ed A/Rivista Anarchica. Ho raccolto il tutto in un centinaio di pagine fotocomposte da me nei ritagli di tempo libero e che ho fatto stampare alla tipografia Utopia, dove stampavamo Rockgarage. A ogni copia ho allegato un flexi che qualche tempo prima veniva diffuso con la fanzine “Toxic graffiti” curata da Andy Palmer, uno dei chitarristi dei Crass. In quell’anno, nel 1984, ho iniziato a collaborare regolarmente con la A/Rivista Anarchica. Per via di quel che ci siamo detti finora ero davvero in serie difficoltà economiche e non potevo mandargli dei soldi come avrei voluto, così un giorno ho pensato che sarebbe stato bello sostenerla tramite quelle produzioni discografiche ed editoriali che sapevo fare e che mi piaceva fare. Direi che è nato tutto da qui, e che la cosa sta andando avanti da allora, con alti e bassi, anzi devo dire con alti e basta, e pure con delle grosse soddisfazioni.
D: Leggendo i titoli delle uscite della Catfood Press noto che i contenuti sono più politici e anarchici, vero?
R: Con gli anarchici mi sono sempre trovato bene, per me è una buona compagnia. Avevo cominciato a frequentarne quando a sedici-diciott’anni bazzicavo a Radio Mestre 103, era tutta gente più vecchia di me ma che mi trattava con rispetto anche se ero solo uno sbarbatello, pensa che con qualcuno ci si vede e ci si sente ancora adesso. Poi mi fermavo spesso e volentieri alla libreria Utopia di Venezia quando andavo all’università. Insomma mi s’era innescata una miccia da qualche parte dentro al cuore e mi sentivo attratto da quei giri e da quelle frequentazioni. La cosa è poi continuata, ho partecipato alle riunioni della redazione della A/Rivista e conosciuto tanti compagni. Sono sempre stato accolto a braccia aperte quando mi presentavo in una libreria o in un qualche centro o collettivo anarchico all’estero con una copia di A e gli mostravo il mio nome scritto lì sopra. Tante delle persone con cui mi sento più legato ed a mio agio le ho conosciute ed incontrate in giri anarchici.
D: Come selezionavi il materiale da pubblicare?
R: Ho concentrato l’attenzione su quello che mi stava succedendo allora, sulle mie frequentazioni inglesi, i miei nuovi amici: nel 1982 ho conosciuto John Loder e dal 1983 sono stato più volte dai Crass a Dial House, poi loro tramite ho potuto incontrare personalmente anche altri musicisti e gruppi che mi piacevano come Adrian Sherwood, Flux of Pink Indians, Omega Tribe e Poison Girls etc. Riuscivo ad andare a Londra anche tre o quattro volte in un anno spendendo pochissimo con l’aiuto di un’amica che lavorava in un’agenzia di viaggi: spesso le riusciva di imbucarmi in una comitiva, a volte saltava fuori un biglietto a scrocco ma dovevo partire tipo la sera stessa e tornare due-tre giorni dopo. Dormire a Londra non è mai stato un problema: case occupate, una branda in ostello, il divano di qualcuno conosciuto per caso. In breve sono riuscito a recuperare molto materiale, dischi e cassette soprattutto, ma anche fanzine, libretti e volantini, tutte cose che qui non giravano granché. Ho cominciato a raccogliere le traduzioni dei testi dei Crass perché mi interessavano personalmente, poi mi sono reso conto che era una storia troppo grossa per tenerla per me, bisognava condividerla, bisognava far sapere che a mille chilometri di distanza c’era della gente che stava facendo certe cose che per me erano importanti, ero convinto sarebbe stato possibile adattarne l’ispirazione alla nostra diversa sensibilità e magari fare non dico altrettanto ma almeno provarci. Dei Flux ho tradotto uno scritto diffuso ai loro concerti del 1984, qualche tempo prima avevo conosciuto Annie Anxiety così ho tradotto alcune cose scritte da lei, poi nell’ottobre 1984 l’ho accompagnata durante un breve giro in Italia durante i giorni del convegno internazionale anarchico a Venezia. Di Pete Wright ho tradotto un articolo pubblicato dal quindicinale pacifista Peace News. Un paio di altre cassette erano in lavorazione, erano registrazioni di Current 93 e Nurse With Wound che mi aveva mandato David Tibet, ma avevo ricevuto solo autorizzazioni piuttosto vaghe così ho lasciato stare. Nel corso del 1986 ho lavorato a “F/Ear this!”, che ho pubblicato l’anno successivo e che è stata l’ultima cosa in cui è stata coinvolta Catfood Press.
D: In quali altri aspetti si differenzia la Catfood da Rockgarage?
R: Catfood Press non era un’etichetta indipendente, nel senso che non si è occupata di musica e di dischi quanto piuttosto di ragionamenti. Per me c’era essenzialmente l’esigenza di trovare un modo per far circolare delle idee, per forza di cose veicolate tramite un supporto cartaceo o discografico, senza passare obbligatoriamente per i centri di distribuzione, né quelli commerciali né quelli alternativi. Mica c’era internet, allora: si andava avanti a fotocopie, posta, cose così. Rispetto a Rockgarage le tirature erano più basse: trecento copie la cassetta dei Death in June, complessivamente seicento copie il concerto per Peace News, i libretti con le traduzioni di Flux, Annie e Pete sono circolati in tirature di due-trecento copie ciascuno. Ho osato alzare il tiro con “F/Ear this!”, milleduecento copie in vinile e non so se trecento o cinquecento cassette, dovrei andare a vedere le vecchie carte.
D: Avevi collaboratori o hai preferito non coinvolgere nessuno?
R: Vittore Baroni mi ha aiutato enormemente con la realizzazione di “F/Ear this!” curando il libretto che è stato allegato all’edizione su vinile, anche il nome della raccolta l’ha pensato lui. Non ho fatto io alcune delle traduzioni dei testi dei Crass pubblicate nel libro, per il resto direi che ho fatto tutto da solo, dalle registrazioni dei concerti all’impaginazione, alla stampa, alla confezione. E buona parte delle spedizioni.
D: Parliamo della distribuzione dei materiali Catfood, hai fatto come per Rockgarage o…
R: Purtroppo non sono riuscito a mandare avanti da solo anche la distribuzione e sono stato proprio un coglione, ho continuato per troppo tempo ancora a fidarmi dei giri “alternativi”. Tra i punks e gli indipendenti di Milano, Venezia, Torino e Bologna sono state diffuse più di ottocento copie del libro dei Crass, due terzi della tiratura quindi, ma non è ritornata una lira. Anzi no, non è corretto: solo dopo un bel po’ di mesi mi è arrivato da Bologna come scambio un pacco semidistrutto con dentro delle copie ondulate insuonabili e invendibili di un picture disc dei CCCP. I libretti con le traduzioni dei Flux, di Annie e di Pete li ho fatti girare da solo. Ho cercato di arrangiarmi da solo anche con la diffusione delle cassette del concerto benefit per Peace News, purtroppo mi sono state fregate quasi tutte quelle dei Death in June. Pensa che ne è stata fatta anche un’edizione taroccata (la cassetta originale era accompagnata da un libretto e un badge) e poi anche un bootleg su cd, Douglas Pearce temeva che fossi coinvolto, figuriamoci. Per ritornare brevemente al discorso di prima sui rapporti non sempre corretti con i distributori, i flexi da allegare al libro erano stati inviati dai Crass ai Raf Punk assieme ad altro materiale che avevano ordinato, e Giampi ha preteso da me 120mila lire giustificandole come costo vivo del materiale, soldi che io gli ho dato subito e senza fiatare. Poco tempo dopo, parlando con i Crass, sono rimasti tutti molto sorpresi di questo fatto perché i flexi erano un regalo, mica erano da pagare. Mettiamola così, diciamo che è stato un altro contributo per la causa. Non so se si capisce il sarcasmo, forse dovrei metterci degli emoticon per stemperare la delusione e rendere tutto più simpatico. Difficile dimenticare quel tizio di Sottosopra di Grosseto che dopo un paio di lettere e varie telefonate ha ordinato roba per quasi mezzo milione inviando per fax alla A/Rivista Anarchica la ricevuta di un versamento che è poi risultato non essere mai stato effettuato. Ho tenuto per ricordo un bel pacco di fotocopie di ricevute, resoconti, lettere senza risposta e fax spediti a vuoto: non c’è mai stato nessuno dall’altra parte, neanche quando qui si è trattato di affrontare emergenze per cure mediche e funerali.
D: Cosa facevi per far conoscere le uscite della Catfood Press?
R: Avevo accumulato un bel giro di posta girando a Londra e in Francia, c’era l’indirizzario di Rockgarage, stavo prendendo molti nuovi contatti grazie alla A/Rivista Anarchica. Ho usato il passaparola, innanzitutto: fotocopiavo dei bigliettini che mettevo nella posta in uscita. Poi era importante arrivare ad occupare un po’ di spazio su certa stampa musicale: una segnalazione su Rockerilla o sul Mucchio ha sempre garantito un bel numero di richieste.
D: Nel catalogo spicca la band dark o gothic inglese dei Death In June, come ci sono entrati?
R: Sono venuti a suonare a Venezia, volevo incontrarli e l’ho fatto: era l’unica maniera per sapere le cose direttamente dalla fonte. Alla metà degli anni Ottanta non era come adesso, che ti piazzi davanti a una tastiera e un monitor e in pochi minuti raccogli informazioni da mezzo mondo. Le cose si venivano a sapere in ritardo, specie se non viaggiavano tramite i telegiornali o la stampa ufficiale. Pensa al punk qui in Italia, noi ragazzi alla fine degli anni Settanta stavamo ancora vivendo la nostra parte di Sessantotto, io ascoltavo Henry Cow e Stormy Six, in radio e nelle strade giravano gli Area ed Eugenio Finardi, si discuteva di aborto, proletari in divisa e obiezione di coscienza, altro che Sex Pistols e spillette. A Milano, forse, Torino, Roma, nelle città grandi. Ma qua in provincia nel Nordest non arrivava niente. La nostra era una cultura giovanile lenta, organizzata accumulando libri e dischi presi in prestito e mai restituiti, fotocopie, ritagli di giornali, lettere, telefonate, cassette copiate, incontri. Al tempo giravano voci incontrollate, si diceva che i Death in June fossero degli attivisti o quantomeno dei simpatizzanti di estrema destra, gente da evitare, anzi da schiacciare, da annientare. La stampa musicale inglese aveva stroncato il loro album “Nada!”, dentro c’erano canzoni oscure, difficili e misteriose, diverse dall’immediatezza punk caciarona che andava di moda. Le informazioni che avevo io erano invece ben diverse, dalle fanzine si sapeva che Douglas Pearce e Tony Wakeford anni prima erano nei Crisis, un gruppo punk che bazzicava piuttosto i giri di Rock Against Racism e dell’Anti Nazi League, tramite amici e compagni inglesi sapevo anche che i Death in June avevano presentato quel loro album così controverso al 100 Club di Londra in una serata organizzata da David Tibet con Current 93, Annie Anxiety e D&V. Insomma, all’infiltrazione dei fascisti nel punk anarchico non ci credevo mica tanto, la stampa ha ogni tanto bisogno di streghe da bruciare per distrarre la gente dalla noia. Penso che Rockerilla, che al tempo ha dedicato alle dichiarazioni di Douglas Pearce uno spazio consistente, sebbene leggermente sforbiciato, abbia aiutato a portare un po’ di luce in quelle tenebre di disinformazione.
D: La Catfood Press conclude la sua vita con la compilation “F/Ear this!” che purtroppo non ho mai visto e ascoltato. Me ne vuoi parlare?
R: L’ idea era raccogliere in giro contributi di vario genere, musiche, canzoni, testi, disegni tutti ricollegati o ricollegabili a un tema comune, la “paura”. Il 1984 era appena passato ma si discuteva comunque di centrali atomiche e guerra nucleare, il “non futuro” punk era diventato un buco nero di disoccupazione e sfruttamento. Si viveva nell’onda lunga dell’asse Reagan-Thatcher e del possibile conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest in Europa, il muro di Berlino era saldamente in piedi e la Yugoslavia e la Cecoslovacchia e l’URSS pure, c’era appena stato l’incidente di Chernobyl, cose così, non è che nel 1986-1987 si vivesse così tranquilli, tra new wave e sorrisi di socializzazione. Non è come raccontano alla televisione nei programmi di revival: il dilagare di gruppi pop col sintetizzatore non ha reso gli anni Ottanta meno difficili. Nel pensare “F/Ear this!” c’era insomma la voglia di raccogliere e raccontare questo malessere e questa disperazione con un linguaggio diverso, in una parola si è cercato di non passare per la strada più facile, attraverso i soliti slogan punk tipo fotti-il-sistema che comunque non sentivamo come nostri. S’è fatta girare la voce e dopo un po’ sono arrivati contributi da mezzo mondo: poesie, disegni, ore e ore di registrazioni. Proprio come si sperava le forme espressive sono le più varie, spaziano dall’improvvisazione al rumorismo, si sono sperimentate contaminazioni e ibridi sonori, sono arrivate tantissime cose scritte, poesie, testi, disegni, collage. Hanno partecipato tanti musicisti sconosciuti ma inaspettatamente anche qualche nome noto come gli inglesi Nurse With Wound ed i tedeschi Embryo. Non mi aspettavo una risposta di queste dimensioni e per forza di cose ho dovuto mettere dei limiti, tipo stabilire una certa durata massima e una data di scadenza del progetto, ma tanti contributi hanno continuato ad arrivare per mesi e mesi, anche quando il disco era già stato pubblicato. Il grosso dei contributi è purtroppo rimasto tagliato fuori.
D: Hai in mente di ripubblicare questo materiale?
R: Buona parte delle traduzioni dei testi dei Crass, ben sistemate e corrette, sono disponibili sulle pagine web di stella*nera. C’è anche il testo di “A tissue of issues” di Pete Wright, tra qualche tempo rivedrò e renderò disponibili anche alcune traduzioni di Annie Anxiety. Con il supporto tecnico di Marco Giaccaria, che con Marco Milanesio in questi anni mi ha aiutato a salvare alcune delle vecchie bobine e cassette dei Franti e non solo destinate alla corrosione, sono riuscito a recuperare buona parte delle registrazioni raccolte per questo progetto. Penso di riuscire a pubblicare “F/Ear this!” su cd entro qualche mese, anche con dei testi, immagini e registrazioni che non avevano trovato posto nell’ edizione di allora. Lo stesso, dopo un periodo diciamo così di congelamento dovuto a problemi interni tra gli ex-Crass, sto per pubblicare il benefit per Peace News: le registrazioni sono state restaurate e digitalizzate da Paul Harding, uno dei tecnici dei Southern Studios. Verranno allegate ad un libretto che contiene un mio scritto, ritagli di interviste anche recenti, qualche foto del concerto e le traduzioni dei testi.
Riferimenti:
http://www.anarca-bolo.ch/Stellanera%20website/main.htm
Discografia Catfood Press
1. Crass “Anok4u” (libro e flexi-disc 7″, 1984)2. Annie Anxiety “Poesie e canzoni d’amore e rivoluzione” (libretto A4 fotocopiato, 1984)
3. Crass, Flux of Pink Indians, Annie Anxiety, D & V “Benefit concert for Peace News” (tre cassette C60 e due libretti A6 fotocopiati, registrate a Maggio del 1984 e pubblicate a Gennaio 1985)
4. Flux of Pink Indians “Thatcher wants us all to crawl on our fucking knees” (libretto A4
fotocopiato, 1985)
6. Death in June “The white hands of death” (cassetta C60 e libretto A6 fotocopiato + badge, 1985)
7. Pete Wright “A tissue of issues” (libretto A4 fotocopiato, 1985)
8. T-shirt serigrafata dei Flux Of Pink Indians cat/005, con aiuto di Giacomo Spazio (50 esemplari di colore bianco e 100 di colore grigio, 1985)
9. Various “f/ear this!” (2 lp e libretto o 2 cassette, 1987)
L' album dedicato alla Catfood Press:
June Miller
Nome abbastanza brutto, purtroppo. Che si confonde con Virginiana Miller, gruppo pop trascurabilissimo - per fortuna non sono nè sorelle nè parenti...
I June Miller sono:
Un gruppo italiano.
E qui mi sono giocato una buona metà dei lettori dei questo blog.
Cantano in inglese.
E qui, arrivederci a metà dei sopravvissuti al punto precedente.
Hanno pubblicato un ep su vinile ed uno su cd. Sono esauriti, ma si possono scaricare le versioni in mp3, gratuite.
Con questa terza notizia dovremmo essere rimasti in due o tre.
Avrei potuto mettere qui qualche banalità della serie "meglio soli etc.", e invece ho rinunciato, troppo facile.
I June Miller sono liguri, non ho idea di quanti anni abbiano e neppure mi importa.
So però che hanno pubblicato dell'ottima musica, e hanno fatto due cose veramente belle:
1. Hanno messo on-line, su The Breakfast Jumpers[1], la versione in mp3 del primo ep. L'hanno chiamata "Simulacra Sunset Ep - De Luxe Edition", e insieme alle tracce dell'ep originale ce ne sono altre 9, tra pezzi "scartati" dall'ep, demo, remix e live. Il tutto gratuito e legale.
Poi si può scegliere di spendere una bella paccata di euro per l'ultimo cofanetto di chiunque volete voi. Indovinate un po' cosa ho scelto io...
2. Hanno pubblicato da poco un secondo ep, "With Downcast Eyes", già direttamente scaricabile dal sito di marsiglia records[2]. Ci sono due nuovi membri nel gruppo, una è Federica alla voce. E lei ha una voce commovente, da lacrime agli occhi per quanto è bella e per quanto la usa bene. Ascoltatela su "No One Comes, Someone Goes", oppure su "Liseli", o sulla bella cover di "Pet Life Saver" dei Giardini di Mirò (tratta da Altri Altrigiardini).
Quest'ultima definisce in modo sufficentemente preciso il suono dei June Miller: siamo dalle parti dei Giardini di Mirò, chitarra smandolinata più o meno: post-rock cantato. Ma fatto veramente bene. Consigliatissimi.
Note e links:
[1] The Breakfast Jumpers è un fantastico - ma davvero - blog che parla di musica. Italiana, moderna/indie/alternativa/sperimentale/pop/folk. Ma nuova. E spesso ottima. Io ci faccio un giro tutti i giorni da parecchio tempo.
[2] marsiglia records è una net label genovese, che ha pubblicato un buon numero di cose molto interessanti: Lo-Fi Sucks! e Port-Royal, tra gli altri. Molti dei lavori sono disponibili per il download, sotto licenza Creative Common. Un giro qui non è tempo perso...
I June Miller sono:
Un gruppo italiano.
E qui mi sono giocato una buona metà dei lettori dei questo blog.
Cantano in inglese.
E qui, arrivederci a metà dei sopravvissuti al punto precedente.
Hanno pubblicato un ep su vinile ed uno su cd. Sono esauriti, ma si possono scaricare le versioni in mp3, gratuite.
Con questa terza notizia dovremmo essere rimasti in due o tre.
Avrei potuto mettere qui qualche banalità della serie "meglio soli etc.", e invece ho rinunciato, troppo facile.
I June Miller sono liguri, non ho idea di quanti anni abbiano e neppure mi importa.
So però che hanno pubblicato dell'ottima musica, e hanno fatto due cose veramente belle:
1. Hanno messo on-line, su The Breakfast Jumpers[1], la versione in mp3 del primo ep. L'hanno chiamata "Simulacra Sunset Ep - De Luxe Edition", e insieme alle tracce dell'ep originale ce ne sono altre 9, tra pezzi "scartati" dall'ep, demo, remix e live. Il tutto gratuito e legale.
Poi si può scegliere di spendere una bella paccata di euro per l'ultimo cofanetto di chiunque volete voi. Indovinate un po' cosa ho scelto io...
2. Hanno pubblicato da poco un secondo ep, "With Downcast Eyes", già direttamente scaricabile dal sito di marsiglia records[2]. Ci sono due nuovi membri nel gruppo, una è Federica alla voce. E lei ha una voce commovente, da lacrime agli occhi per quanto è bella e per quanto la usa bene. Ascoltatela su "No One Comes, Someone Goes", oppure su "Liseli", o sulla bella cover di "Pet Life Saver" dei Giardini di Mirò (tratta da Altri Altrigiardini).
Quest'ultima definisce in modo sufficentemente preciso il suono dei June Miller: siamo dalle parti dei Giardini di Mirò, chitarra smandolinata più o meno: post-rock cantato. Ma fatto veramente bene. Consigliatissimi.
Note e links:
[1] The Breakfast Jumpers è un fantastico - ma davvero - blog che parla di musica. Italiana, moderna/indie/alternativa/sperimentale/pop/folk. Ma nuova. E spesso ottima. Io ci faccio un giro tutti i giorni da parecchio tempo.
[2] marsiglia records è una net label genovese, che ha pubblicato un buon numero di cose molto interessanti: Lo-Fi Sucks! e Port-Royal, tra gli altri. Molti dei lavori sono disponibili per il download, sotto licenza Creative Common. Un giro qui non è tempo perso...
Wilkinson e il concerto di Patti Smith
Wilkinson aveva un'età tra i 40 e i 50 anni, era basso di statura e corpulento, portava barba e capelli lunghi ma l'abbigliamento era sempre molto curato, con un tocco di classe dato dai cappelli a tesa larga che quasi sempre indossava. Una vera icona rock che tutti i giorni percorreva il marciapiede del corso principale facendo tappa metodicamente in tutti i bar a bere superalcolici, fottendosene di tutto e di tutti. Un po' ci metteva soggezione, ma era diventato l'idolo di noi giovinastri per i suoi show improvvisi ed esilaranti. Di giorno solitamente parlava poco, forse perché troppo impegnato nell'opera di autodistruzione etilica e se si rivolgeva a qualcuno, non lo faceva per dialogare, ma per esprimere un concetto o un ragionamento non sempre di facile interpretazione. Una frase ermetica diventata storica fu quella che pronunciò verso di me una volta che lo incrociai sulla porta del bar: - Ti ricordi quando eri di plastica?
Un po' più pesante fu l'invettiva che un pomeriggio urlò rivolto al prete, vedendolo passare: - Le suore le abbiamo già chxxxxxe tutte, adesso vogliamo incxxxxxe i preti. Eravamo seduti all'esterno del bar e l'imbarazzo fu totale, ma tutti lo conoscevano e lo tolleravano, tanti lo avevano in simpatia. Con il passare degli anni la sua camminata si fece sempre più lenta e strascicata, il respiro affannoso; l'alcol lo stava devastando e probabilmente fu proprio in quel periodo, quando fu obbligato a ridurne il consumo, che cominciò a soffrire di delirium tremens. Fu visto e sentito mentre urlava guardandosi attorno: - Wilkinson dove sei? Lo so che sei venuto a uccidermi. Chissà da quale incubo era uscito il suo uomo. Brutta bestia l'alcolismo.
Quando era ancora in forma ogni tanto lo si vedeva sfrecciare con il Cavalcone, il motore da cross che ben presto gli venne requisito. Finì nelle cronache locali perché un giorno, senza essere visto, salì su un furgone del latte, lo mise in moto e partì. Poco dopo fu avvistato e inseguito dalla polizia sulla strada per Bologna. Vistosi raggiunto, accostò il furgone, scese e tentò la fuga nei campi. I poliziotti, una volta che l'ebbero catturato e identificato, capirono subito che non era un furto "normale" e quando gli chiesero il motivo del suo gesto, rispose che l'aveva fatto perché doveva andare al concerto di Patti Smith. Il giorno dopo sulla cronaca del Resto del Carlino:
"RUBA FURGONE DEL LATTE PER ANDARE AL CONCERTO DI PATTI SMITH".
Chissà cosa gli era scattato. Probabilmente qualcuno gli aveva detto che ci sarebbe andato e in ogni caso, con la fame di concerti che c'era in quegli anni, fu un evento da non perdere. Quella magica sera a Bologna c'ero anch'io: fu il mio primo concerto; per Wilkinson fu solo un goffo tentativo di fuga dai suoi demoni, che però contribuì a rendercelo ancora più simpatico.
"RUBA FURGONE DEL LATTE PER ANDARE AL CONCERTO DI PATTI SMITH".
Chissà cosa gli era scattato. Probabilmente qualcuno gli aveva detto che ci sarebbe andato e in ogni caso, con la fame di concerti che c'era in quegli anni, fu un evento da non perdere. Quella magica sera a Bologna c'ero anch'io: fu il mio primo concerto; per Wilkinson fu solo un goffo tentativo di fuga dai suoi demoni, che però contribuì a rendercelo ancora più simpatico.
Ci eravamo affezionati e la sua presenza accompagnava i nostri pomeriggi di studenti svogliati e le calde notti estive, quando si tirava tardi davanti al bar già chiuso. Spesso si affacciava e, quando era in forma, cominciavano discussioni surreali sui massimi sistemi. Quasi mai veniva preso in giro, perché in fondo lo sentivamo come uno di noi, poco inclini ad integrarci nella monotona vita di provincia. Qualche stupido ogni tanto ci provava, ma Wilkinson aveva una specie di radar: con calma e compostezza, chiudeva gli scuroni e con un cordiale "buonanotte ragazzi" usciva di scena; un vero loser di classe. Una sera vedemmo del fumo uscire dalla finestra e poco dopo arrivarono i vigili del fuoco: Wilkinson aveva dato fuoco al letto. "E brusa ben parò" fu il suo secco commento.
Se ne andò per sempre versò la metà degli anni '80. Amici di un gruppo rock locale composero e gli dedicarono una canzone. Chissà quale splendida poesia in musica avrebbe saputo comporre Faber se lo avesse conosciuto.
Arab Strap - Dieci anni di turbolenze
Anzi, diec'anni di lacrime, come vergava l’antologia terminale che li conduceva a fine corsa nel 2006. E di meraviglie, aggiungerei, ovviamente a mio arbitrario parere. In un Blow Up recente, alle prese con le ristampe deluxe dei primi due album del duo scozzese, il recensore di turno li ha definiti brillantemente gruppo formula che quando finisce butta via lo stampo, ad oggettiva conferma del fatto che la loro peculiarità resterà per sempre inesorabilmente inimitabile.
Circostanze stellari. In quella terra di mezzo che è la provincia di Falkirk nel 1995 si incrociano i destini di due ragazzi poco più che ventenni, si narra interessati alla stessa ragazza e quindi non proprio in procinto di stringere amicizia. Aidan Moffat e Malcolm Middleton invece finiscono per trovare delle similitudini musicali ed iniziano ad unire le forze. O le debolezze, a seconda dei punti di vista; Arab Strap, a causa dell'esclusività, è sempre stata un’entità che si ama o si odia. Ai tempi in cui il gruppo era attivo usavo frequentare il forum ufficiale, i cui utenti denotavano una maniacalità a dir poco parossistica, fino al punto di scrivere in scozzese stretto, alla stregua dello stesso Moffat. La stampa italiana invece è sempre restata nel mezzo, tiepida, appena interessata, forse incapace di coglierne l’essenza pur gradendone l’originalità e la schiettezza.
Dicevo delle debolezze; tecnicamente cos’avevano i due da offrire? Poco o nulla. Moffat era tutto fuorché un vocalist, stonato, pigro e strascicato dagli ettolitri di birra ingeriti. Middleton era un chitarrista incapace di fare gli accordi barrè. Le premesse insomma non erano proprio esaltanti ma come spesso accade, chi possiede grande tecnica non ha creatività e viceversa. Se il secondo aveva un passato amatoriale a base di punk e metal, il primo era già in pista da un paio d’anni nei Bay, un altro duo in cui era batterista e comprimario del cantautore Jason Taylor. Nel loro carniere un paio di dischi oscuri di distribuzione pressoché locale, Alison Rae e Happy being different, contrassegnati da uno slow-core influenzato pesantemente da Codeine e Red House Painters. Nel booklet di Alison Rae Moffat appare in una forma fisica che non gli apparterrà più, magro, sbarbato e con un imbarazzante caschetto stile brit-pop-shoegaze, alle prese con le presunte avances di una donzella...
C’è bisogno di far carburare in fretta la scintilla che scatta col rosso Middleton. Inizialmente le attività dei due si sviluppano sugli arpeggi incerti di uno, sui ritmi pigri e sul recitato indolente dell’altro, in una specie di post-folk sbilenco aperto a distorsioni improvvise. Vengono assemblati due demos; il primo, ad ascoltarlo oggi, è tutto fuorché entusiasmante. Il secondo invece denota già una certa crescita e viene spedito alla Chemikal Underground, i proprietari fiutano bene e capiscono di avere a che fare con un oggetto misterioso, cosicché l’ingaggio è presto fatto. Nel settembre del 1996 quindi si materializza il primo singolo The first big weekend, che ottiene fin da subito una notevole attenzione a livello indipendente. Trattasi di un techno-folk alquanto spiazzante, in cui un azzeccato giro acustico di Middleton viene supportato da un beat digitale da rave-party. Così il racconto di un pomeriggio di estate in cui la nazionale di calcio scozzese viene sconfitta agli Europei di calcio diventa un pretesto per Moffat per iniziare a spartire col mondo il suo lirismo cinico, iperrealista e crudamente auto-confidenziale.
Tempo un mese ed è il momento del debutto lungo, con The week never starts round here, che vede i due ancora un po’ indecisi sullo stile da sviluppare, sebbene si noti già la peculiarità del progetto e l‘impossibilità di inquadrarlo in un genere preconfezionato. Nonostante i mezzi a disposizione siano aumentati, decidono comunque di restare intensamente lo-fi, senza quasi nessun contributo esterno. Coming down, il pezzo d’apertura, potrebbe far pensare a degli Slint in versione agreste e soporifera, con le chitarre e il basso di Middleton ad inseguire armonici scoperti, così come la lunga Deeper. Quando agiscono da trio a tutti gli effetti, confezionano scure divagazioni di spleen che ben poco hanno da spartire con il singolo che li aveva rivelati, come la stentorea Gourmet (cantata dal chitarrista), e la scampanellata di Kate Moss. Quando invece scarnificano gli arrangiamenti all’osso, si fa sentire l’influenza di Bill Callahan e Will Oldham, specie nel country di I work in a saloon, nella perdizione di Wasting, e nella rabbrividente Blood. Sembrano più scherzi che altro la lista di General plea to a girlfriend e il country-punk di Little girls, che finiscono più per denotare quell’incertezza sopra-citata che per contribuire alla resa finale. I pezzi che meritano il maggior risalto finiscono per essere The clearing, altro arpeggio minimalista questa volta sostenuto dai rimbombi di una batteria riverberata oltre misura, e l’accorato appello di Phone me tonight, per beatbox, violino gracchiante ed effetti. E’ proprio in questi ultimi due che la scrittura di Moffat accresce la propria rilevanza, con lo scoperchiamento di un mondo fatto di noia giovanile, birra, droghe, ragazze e i loro ragionamenti incomprensibili, di verità sbattute in faccia e di romanticismo mai banale.
Ingaggiano una sezione ritmica, il bassista Gary Miller e il bravissimo batterista David Gow, per suonare dal vivo. L’intento è quello di spiazzare, e dal vivo gli Arab Strap sembrano il contrario dei timidi introspettivi in studio. Nella ristampa deluxe di The week… viene inclusa la registrazione del primo concerto in assoluto in un club di Glasgow, che mostra un gruppo energico ed aggressivo. La loro tendenza a stravolgere le versioni di studio resterà una costante negli anni anche quando guadagneranno la discreta fama. Nel 1997 l’attività prosegue con 3 singoli: 1) The smell of outdoor cooking, pseudo-raga per acustica e organetto, abbinata al fragore noise di Themetune e la solitaria, nervosa middletoniana Blackstar. 2) The girls of summer, che diventerà una preferita live, nuova elucubrazione post-slintiana con progressione rumorosa, completato dalla festaiola Hey fever che segna una collaborazione con i Belle And Sebastian. 3) Il triplo remix di The clearing, con in evidenza la splendida versione cyber-dub di The Hungry Lions e quella trip-hop di Hanlow & Hilditch. Inoltre, in marzo hanno l’onore della prima chiamata di John Peel, alla cui session il quartetto live viene allargato a sestetto con i due tastieristi dei Belle And Sebastian. Eseguono una versione elettrico-frenetica di The smell of outdoor coking, le inedite Soaps e I Saw you, e l’hit single ribattezzato The first big peel thing per l’occasione, umanizzata dalla batteria di Gow e dalle coloriture di piano e organo.
Il tempo di smaltire le varie sbornie e i due tornano a lavorare sul secondo disco, che uscirà nella primavera del 1998 e dai più viene definito il loro capolavoro, Philophobia. Moffat abbandona sempre più la batteria in favore della drum-machine e si dedica alle tastiere, Middleton viene toccato da ispirazione divina. Lasciando perdere i celebri versi introduttivi di Packs of three, che hanno sviato tante orecchie distratte e così alimentato un luogo comune duro a morire, si tratta di una specie di concept in cui si dice il cantante racconti 13 storie dedicate a 13 sue ex-ragazze, una delle quali disegnata in copertina, nuda e a gambe incrociate. Ricordo che la prima volta che lessi le liriche pensai ad un paragone ingombrante che non ho mai abbandonato, cioè quello con il grande Charles Bukowski per la franchezza disarmante, le lunghe digressioni alcoliche, le depressioni cosmiche, gli assalti continui alle donne e le impennate di dolcezza infinita a smentire qualsiasi foggia di uomo duro che potesse fuorviare il lettore. Philophobia è una svolta decisiva: gli arrangiamenti sono ricchi, curatissimi e quasi barocchi, le songs omogenee e scorrono che è un piacere lubrico. Su tutte; la splendida Here we go, con fitta trama acustica, il tintinnio del piano e sequenza di abbandono totale. New birds, variante del tema Girls of summer ma dai risultati superiori. La commovente The night before the funeral, bossanova triste impreziosita da un delizioso assolo di tromba. L’evocativa melodia di Piglet, la scura Afterwards che vede la presenza della suadente vocalist Adele Bethel, l’atmosferica My favourite muse, il quadretto elegiaco di Islands (possibilmente il miglior testo di sempre di Moffat). In tutto il disco non c’è un momento in cui scade la qualità, e il contrasto fra la musicalità prevalentemente molto tranquilla e i testi di prevalente nichilismo crea un mix che grida al mondo l’unicità totale del duo, se ancora ce ne fosse stato bisogno.
Il successo di critica attira l’attenzione delle major, mentre nel frattempo Peel li chiama per una seconda sessions (momento topico la versione di The night before the funeral, con la chitarra distorta a sostituire la tromba originale), ed escono altri due singoli. Trippy, di supporto a Here we go, è la versione post-psichedelica di The first big weekend, dodici minuti avventurosi con tanto di fase techno-rave-party. Soaps, il pezzo più accessibile di Philophobia, ha il merito di includere due inediti di razza come Toy fights e Forest hills. Ma la Chemikal non può trattenerli a lungo e la Go! Beat, label di proprietà dei Portishead, se ne assicura le prestazioni. Non prima però, di congedarsi con un live stellare, Mad for Sadness, ascrivibile a best of della prima fase di carriera, su cui ho già indugiato nel mio blog.
Cosa si aspettassero le rispettive parti in termini di successo e/o vendita, non è dato di sapere. L’anno alla Go! Beat verrà ricordato come una parentesi poco entusiasmante dagli Arab Strap stessi, riconoscendo in parte l’errore di valutazione che poi poteva anche starci. Eppure i risultati artistici sono ancora a livelli straordinari. Qualcosa è cambiato nei due, al momento entrambi legati sentimentalmente e più sereni. Elephant Shoe è un modo di dire dei teenagers scozzesi sostitutivo di I love you, e ciò testimonia che dalla paura di amare Moffat è passato rapidamente all’altra sponda. Il fatto che ciò corrisponda ad un disco musicalmente più ostico e scarno di Philophobia, costituisce un altro contrasto stridente. Il battito digitale che apre Cherubs sembra quasi un cuore pesante che pulsa iperaccelerato. Middleton architetta tutto alla meraviglia come da tendenza, con gli intarsi chitarristici che si fanno sempre più arditi ed ipnotici (One four seven one, Leave the day free), Moffat inizia a sviluppare la sua sensibilità coi sampling e le tastiere minimali (le cascate di synth di Cherubs). E nello stesso modo in cui sbatteva la testa contro le donne fino all’anno prima, ora appare iper-protettivo e vicino alla sua donna anche nelle liti (la pastorale scurissima di Pyjamas). Insomma, non è un uomo tranquillo neppure nella stabilità, neanche nella solare mediterraneità della deliziosa Tanned, con assolo finale di tromba. Ma ci sono almeno 4 capolavori rimasti ineguagliati in Elephant Shoe. La decadenza soffusa di Autumnal, scandita da violoncello e pianoforte, e quella greve, a pieno regime strumentistico di Direction of strong man, il pezzo più loud, con le coloriture di organo e il finale in crescendo. E infine le ultime perle in scaletta, vincenti sul piano acustico-intimistico: Pro(your)-life, probabilmente la cosa più commovente che i due hanno fatto, in cui Moffat racconta dell’aborto della propria compagna,e lo fa incoraggiandola, proteggendola. Hello daylight, una delle trame più belle scritte da Middleton, un risveglio interrogativo sull’amore di tutti i giorni.
In Maggio arriva la terza ed ultima chiamata di John Peel, che a mio avviso è la migliore mai compiuta dai nostri: col supporto dei soliti Gow e Miller, e quindi di ritmica umana, i tre estratti dal disco nuovo assumono sembianze indefinibili, quasi da jazz fumoso alla moviola. Da non perdere la coda atmosferica di The drinking eye, l’elettrificazione di Pro(your)-life, i riverberi stratificati di Leave the day free. Con l’aggiunta di una cover shockante di Iggy Pop, pare suonata esclusivamente per l’occasione, Tiny girls, per piano e voce. E’ davvero spiazzante sentire Moffat biascicare con la sua flemma il famoso pezzo, ma ancor di più è l’entrata di Middleton che sfregia tutto orrendamente con un assolo dissonante…Come Peel stesso annunciava nelle presentazioni di rito (oltre a dichiararsi entusiasta e rapito), gli Arab Strap erano tornati a casa. Rescisso il contratto con la Go! Beat, venivano riaccolti all’ovile della Chemikal senza tante storie.
In Agosto del 2000 corono il mio sogno di vederli live ad Urbino, nella fantastica cornice della Fortezza Albornoz. L’attività concertistica fin dall’inizio aveva avuto pochissime pause, e resterà uno dei punti di forza artistici maggiori; avendo ascoltato parecchi bootleg, posso suffragare con certezza che erano soliti rivoluzionare le versioni in studio senza problemi.
Preceduto dall’atipico singolo Love Detective, un lounge poliziesco avvincente, nel 2001 esce il 4° album, The red thread. Una volta che il trademark è stato fissato, occorre mantenere lo standard e perché no, cercare di mantenersi su alti livelli. E i due, miracolosamente ci riescono e sfornano un lavoro tendenzialmente più ottimistico, non certo solare ma più aperto a situazioni melodiche a presa diretta. La delicatissima ballad d’apertura, Amor veneris, è poco più di un bozzetto elegiaco. Last orders e Scenery sono ritmate e con arrangiamenti ricchi, con una forma canzone ben definita. Moffat fa addirittura progressi con la modulazione del canto: l’iperbole sinfonica di Haunt me e l’atmo-disco di Turbulence non cercano tanto un consenso maggiore, ma finiscono per essere fra le cose più accessibili fino ad allora. Per chi preferisce ancora i lati oscuri, le perle sono ben selezionate: l’ipnosi bassistica di Infrared, il volo statico di Screaming in the trees. E soprattutto il meglio del lotto, ovvero il crescendo cosmico da pelle d’oca di The devil-tips e il mare tempestoso di The long sea.
L’attività live procede incessante in tutto il mondo, Australia compresa. Al ritorno a casa, i due staccano un attimo la spina e nel 2002 fanno uscire le prime puntate dei loro progetti personali. Middleton resta sul tradizionale con 5.14, Moffat si butta a pesce sulla macchina umanoide di Lucky Pierre. All’epoca non si pensava minimamente che tali prove fossero avvisaglie del futuro che li aspettava, ma in realtà segnavano un po’ la fine di un epoca, si sentiva il bisogno di qualche rinnovamento. I vecchi e fedeli compagni Miller e Gow abbandonano (il primo la musica del tutto, il secondo stava fondando i mediocri Sons And Daughters insieme alla Bethel) e vengono assoldate due ragazze fisse a violino e violoncello, Rieve e Sievewright. Segno eloquente che la propensione agli archi che era affiorata a tratti negli anni aveva bisogno di un impianto stabile. Monday at the Hug And Pint, che esce nella primavera del 2003, li vede pertanto protagonisti nella quasi totalità dei 13 pezzi in elenco. Una maggiore accessibilità ed eleganza caratterizza il suono generale: il primo singolo, The shy retirer, è una disco da camera ad alta velocità. L’altro, migliore Who named the days?, dolcissimo e soffuso pastorale. A parte la violenta ed epica Fucking little bastards, è un disco molto morbido in cui Moffat appare polemico, quasi sprezzante nei confronti della/e donna/e di turno, sempre più incapace di relazionarsi in modo diplomatico col mondo femminile, (apice la splendida Glue, la composizione migliore), ma non disdegna un tentativo romantico dei suoi (Serenade). Molto belle anche il valzer di Peep peep e la ballad pianistica di Middleton The week never starts round here. Peccato che altrove invece regni una stucchevolezza a tratti eccesiva, non tanto dovuta agli archi quanto ad un momento di ispirazione debole o comunque inadatta al crooning da poeta maledetto e alle tessiture del rosso. Di conseguenza, ritengo che Monday si possa inquadrare come il disco meno entusiasmante degli Arab Strap, tendenza confermata anche dal live a tiratura privata The cunted circus, che lascia pochissimo spazio al passato ed include due cover alquanto bizzarre (AC/DC e Van Halen), non propriamente entusiasmanti.
Evidentemente anche i due non restano molto convinti, anche se il pubblico che li apprezza è in continua espansione. Un altro live privato (Acoustic request show) li vede in solitudine, chitarra acustica e voce, ed è eloquente: i pezzi vengono scelti tramite sondaggio fra i fans, che privilegiano di gran lunga i primi due album, particolarmente Philophobia. Ma è evidente che i due hanno già la testa altrove e pubblicano, curiosamente sempre in contemporanea, la seconda puntata dei loro side project. Lucky Pierre con l’eccellente Touchpool, e Middleton con l’ottimo, più elettrico Into the woods.
Le coincidenze potrebbero far pensare al peggio, eppure i due hanno un colpo di reni, una scossa d’orgoglio e nel 2005 escono con The last romance, titolo programmatico che inizia a far preoccupare seriamente i fans su voci di scioglimento. Messi via gli archi, si tratta del disco più compatto ed asciutto che hanno mai realizzato, di breve durata (poco più di mezz’ora), e perché no, anche potente. Stink e No hope for us sono schegge furenti di spleen elettrificato senza tanti fronzoli. Non c’è più traccia di batterie elettroniche, e la mano di Middleton appare predominante in lungo e in largo, mentre Moffat è costantemente impegnato al canto, con i risultati migliori mai ottenuti. Gli highlights, oltre ai due titoli sopra, sono le rocciose Don’t ask me to dance, Speed-date, e l’atmosferica Dream sequence. E alla fine, ciò che sembra una sigla finale dal disorientante titolo There is no ending, sarabanda di fiati quasi pop. Escono in rapida successione ben tre singoli, e stupisce il fatto che alcune b-sides siano di assoluta eccellenza ed escluse dall’album, come la stupenda ballad The girl I loved before I fucked e la cupa Dead Air.
Nel febbraio 2006 il tour include Bologna e il set è improntato ovviamente su Last romance. Questa volta sul palco con i due ci sono un trio di giovani strumentisti, ineccepibili tecnicamente, specialmente il pianista. L’impressione di freddezza e sbrigatività però mi lascia un po’ interdetto, salvo poi ricredermi quando nel finale si concentrano sulle perle del passato. Poco tempo dopo l’annuncio diventa ufficiale, lo scioglimento è stato decretato. Un ultimo tour rifà il giro dell’Europa e a dicembre ritornano, sempre all’Estragon. La tristezza che mi attanaglia per la notizia viene mitigata da un bellissimo concerto, in cui appare chiaro che i due non si guardino in faccia neanche un momento. Mentre smontano il palco chiedo ad Aidan il perché della fine. Sconsolato, allarga le braccia, fa uno sguardo dispiaciuto e mormora That’s life!
In realtà il sito ufficiale (che curiosamente verrà bombardato e distrutto dagli spammers poco tempo dopo) fa chiarezza sul fatto che i due si dividono amichevolmente, consapevoli di aver portato l’esperienza ad una naturale conclusione e perché no, comunque aperti a future collaborazioni. La Chemikal sigilla il tutto con una compilation ai primi del 2006, Ten Years of Tears, eterogenea quanto destinata allo zoccolo duro di fans delusi. La cover è sarcastica: i due appaiono seduti ai lati di una stanza addobbata a festa, sguardi corrucciati e un cartello alle spalle che recita Enjoy your retirement. L’antologia è un accozzaglia di rarità, remix e ripescaggi in ordine puramente casuale, ma ha il merito di riportare alla luce alcuni episodi minori ma assolutamente di prestigio come Racket take your turn e To all a goodnight.
Fine delle trasmissioni, e della magia. I due prendono esclusivamente la loro strada solista, che purtroppo si rivela soltanto una discesa graduale nella mediocrità. Middleton negli ultimi 4 anni ha fatto uscire ben 3 album, uno più deludente dell’altro, contrassegnati da un cantautorato sterile e scontato. Dopo un altro episodio a nome Lucky Pierre, Moffat ha realizzato un disco spoken-word incomprensibile e ha varato A.M. & The best ofs, di fatto un duo con un giovane chitarrista. How to get heaven from Scotland, uscito l’anno scorso, è quasi imbarazzante nella sua pochezza stilistica. Segnali che in un certo senso fanno capire che è stato meglio così, lo scioglimento è avvenuto al momento giusto, i due hanno capito che il ciclo era chiuso e non sarebbe stato giusto imboccare il declino con quella sigla che li ha portati ad essere una stella di primissima grandezza del firmamento britannico a cavallo del millennio.
Però ci mancano. Come accennavo all’inizio, la Chemikal proprio quest’anno ha fatto uscire i primi due dischi in deluxe edition con aggiunte gustose, per chi magari si fosse perso la saga in tempo reale. Ed addirittura, in seconda battuta, rilascia un cofanetto limitato a 1000 copie intitolato Scenes of a sexual nature, mastodontica operazione che ripesca demos, EPs, inediti, Peel Sessions, a ruota libera. Queste operazioni nostalgiche contribuiscono ulteriormente ad alimentare il rimpianto di un grande gruppo alfiere e portabandiera dei sentimenti a 360°, venuto fuori dal nulla e con pochissimi mezzi a disposizione, ma stracolmo di idee e dalla cifra personale incalcolabile.
DISCOGRAFIA ALBUM
The week never starts round here (1996) 7/10
Philophobia (1998) 8,5/10
Elephant Shoe (1999) 8,5/10
The red thread (2001) 8/10
Monday at The Hug And Pint (2003) 6,5/10
The last romance (2005) 7/10
LIVE
Mad for sadness (1999) 8,5/10
The cunted circus (2003) 6,5/10
Acoustic request show (2004) 7/10
ANTOLOGIE
Singles (1998) 8/10
Ten years of tears (2006) 7/10
Scenes of a sexual nature (2010) 8/10
Island
We were lying in bed, staring at the moon, and I was wondering if I was supposed to be in love.
But we couldn't quite decide if the moon was full, but I thought, well, tonight it's full enough.
And this morning I was casually trying to sniff my fingers on the way back home.
I could smell you and I felt like a little boy.
Now we've been on these open seas far too long so take a breath, take my hand, there's land ahoy.
Pro-(your) life
Now you always say terminated,
I never hear you say aborted.
You just have to accept mistakes happen
And sometimes they have to be sorted.
You know I'd love it - a little us would be sweet.
But don't take that from your pro-life pal, she doesn't even eat meat.
It's as simple as this: the time's not right.
You need a new job and some sleep tonight.
The night before the funeral
The night before the funeral, I got some - I sneaked a young girl up the stairs and past my mum.
I took off her clothes and I played with her bits and she did the same but it took ages for me to come.
Too drunk and getting old...
It was a lovely show for a god I don't believe in.
I couldn't sing a single note at the service.
When they did "How Great Thou Art" all I could think of was my old l.p. of hymns by Elvis.
There's no such thing as sin...
I said to Laura, "I hope I know you forever and when I'm going, I'm going the Viking way. Lay me in a boat with my favourite things and set me on fire and send me on my way. Kick me out to sea..."
Here We Go
How am I supposed to walk you home when you're at least fifty feet ahead?
Cause you walked off in a huff and I'm that pissed I can't even remember what it was I said.
And I don't doubt you wouldn't touch him now, but let's face it, you always use to go for that kind.
And if you ever really wanted two men at once, all I'm saying is I better be one of the guys you've got in mind.
Here we go same time, same place.
I don't like the way you kiss his face.
It's not that there's no trust as such.
I'd love to make up but I've had to much.
Now you know fine well I'm staying, I've only ever carried out that threat once before.
And even then I coudn't get far and you're mum came and called me back before I'd even made it to the door.
Here we go same time, same place.
My embarassment versus your damp face.
We could down here or we could talk in bed.
But I'm afraid that's all, as I've already said.
We were lying in bed, staring at the moon, and I was wondering if I was supposed to be in love.
But we couldn't quite decide if the moon was full, but I thought, well, tonight it's full enough.
And this morning I was casually trying to sniff my fingers on the way back home.
I could smell you and I felt like a little boy.
Now we've been on these open seas far too long so take a breath, take my hand, there's land ahoy.
Pro-(your) life
Now you always say terminated,
I never hear you say aborted.
You just have to accept mistakes happen
And sometimes they have to be sorted.
You know I'd love it - a little us would be sweet.
But don't take that from your pro-life pal, she doesn't even eat meat.
It's as simple as this: the time's not right.
You need a new job and some sleep tonight.
The night before the funeral
The night before the funeral, I got some - I sneaked a young girl up the stairs and past my mum.
I took off her clothes and I played with her bits and she did the same but it took ages for me to come.
Too drunk and getting old...
It was a lovely show for a god I don't believe in.
I couldn't sing a single note at the service.
When they did "How Great Thou Art" all I could think of was my old l.p. of hymns by Elvis.
There's no such thing as sin...
I said to Laura, "I hope I know you forever and when I'm going, I'm going the Viking way. Lay me in a boat with my favourite things and set me on fire and send me on my way. Kick me out to sea..."
Here We Go
How am I supposed to walk you home when you're at least fifty feet ahead?
Cause you walked off in a huff and I'm that pissed I can't even remember what it was I said.
And I don't doubt you wouldn't touch him now, but let's face it, you always use to go for that kind.
And if you ever really wanted two men at once, all I'm saying is I better be one of the guys you've got in mind.
Here we go same time, same place.
I don't like the way you kiss his face.
It's not that there's no trust as such.
I'd love to make up but I've had to much.
Now you know fine well I'm staying, I've only ever carried out that threat once before.
And even then I coudn't get far and you're mum came and called me back before I'd even made it to the door.
Here we go same time, same place.
My embarassment versus your damp face.
We could down here or we could talk in bed.
But I'm afraid that's all, as I've already said.