Ho un riff in testa
Cosa hanno in comune "Satisfaction", "Gimme some lovin'", "Day Tripper", "You really got me", "Whole lotta love", "Smoke on the Water" e giù giù fino ad "Highway to hell" e "Smell like teen spirit" ? Beh, oltre ad essere delle grandi canzoni, sono tutte accomunate da una frase di due o quattro battute che altro non è che il "riff" di chitarra e che le rende immediatamente riconoscibili e familiari anche se non ci ricordiamo il titolo o chi la canta (cosa però altamente improbabile). Sia che il riff sia la parte più memorabile della canzone, come ad esempio in quelle degli Stones, come la succitata "Satisfaction" che è una canzone dove le strofe senza quel riff micidiale sarebbe altamente dimenticabile, sia nel caso di "Day Tripper" dei Beatles dove il riff è omogeneo al contesto armonico del resto della canzone, argomento che porta acqua al mulino sulla superiorità di compositori degli scarafaggi, fino al riff di una sola nota in "Gimme some lovin" dello Spencer Davis Group. Il riff però non è un'invenzione del rock ma era già presente nel jazz degli anni trenta ed abbe una diffusione massiccia nelle orchestre dell'era "swing", penso a quelle di Count Basie e Duke Ellington, come pure nei cantanti r'n'b. Ma come abbiamo visto prima, anche qua il riff era del tutto sganciato dal contesto armonico e ripensando alla musica degli Stones, è una conferma diretta di come il loro lavoro sia debitore in larga parte a tutta la musica tradizionale dei neri americani. Il riff è presente anche in canzoni che a prima vista sono meno inquadrabili e memorizzabili, quali ad esempio quelle dei gruppi prog, magari è nascosto nei meandri delle armonie dei tempi dispari, ma anche in questo caso, nel momento giusto, quando arrivava, il riff era accolto come una sorta di liberazione e dall'altro lato faceva si che anche quel genere di musica così compromesso con suite di sapore classico giustificava e ribadiva la sua appartenenza al rock. Ma la cosa in cui il riff è ruffiano (mi era venuta una battuta alla zelig, "riffiano"...), è la reazione che abbiamo tutte le volte che ne ascoltiamo uno; "ecco il vero rock", "ecco il rock dei bei tempi andati", il che ci può portare a dire che il riff sia ormai un armamentario dell'epoca d'oro del rock, salvo poi imbattersi trent'anni dopo in una canzone come "Smell like teen spirit" dei Nirvana che come una novella "Satisfaction" fa appoggio su di un riff memorabile e come quella fa si che le strofe siano trascurabili fino all'avvento di quelle battute micidiali. Quindi, si può oggi fare a meno del riff ? A meno che non siate appassionati di metal o di hard rock, si, per fortuna il rock non vive di soli riff, ma vedrete che quando arriverà un nuovo gruppo e quelle due o quattro battute ti inchioderanno all'ascolto, il nostro pensiero sarò sempre quello: "ecco, questo si che è rock" !
Fonte: "Il suono in cui viviamo" F. Fabbri.
Wicked Lester - Love her all I can
Questo asciutto rock and roll dei primissimi anni '70 apparve qualche anno dopo reworkato all'interno di uno dei migliori e più sobri (se così si può dire, ma sì che si può dire) album dei KISS, sto parlando di quel "Dressed to kill" che li lanciò in orbita nel 1975 con Rock and roll all nite e C'mon and love me.
LOVE HER ALL I CAN fa "leggere" quali sono gli evidenti riferimenti iniziali del duo Stanley/Simmons (i due Kiss che guidavano i Wicked Lester) in particolare si intravedono, ma che dico si intravedono si vedono benissimo 1) Who e 2) Kinks.
WICKED LESTER fu la band primigenia da cui, con il successivo inserimento di Ace Frehley e Peter Criss e con un immenso lavoro di grafic art e di make up, il grande manager Bill Aucoin (scomparso non da molto) mise in piedi il prodotto Kiss e tutta la sua iconografia (sempre con il supporto non indifferente dei ragazzi).
Io penso a quei tempi pioneristici con grande tenerezza, quando uscivano questi pezzi dei Wicked Lester Gene e Paul erano dei ragazzini squattrinati che facevano la gavetta nei localacci di new york ma con le idee chiare e l'hard rock solo un abbozzo nelle loro teste visto che il genere manco esisteva.
In realtà i due s'ispiravano sì alle tradizioni rockandroll ammericane ma con lo sguardo sempre attento alla perfida albione.
Poi vennero anche Zeppelin e Sabbath e la storia cambiò.
Ma i primissimi vagiti dei Kiss erano tutti come li sentite qua.
Serena notte.
Recycle - The Factory Years
Post di servizio per tutti quelli che hanno ancora i Joy Division nel cuore: due bloggers, 50£note e Mr. A.L. hanno realizzato un lavoro che definirei monumentale: la ripubblicazione in forma digitale[1] di tutti i singoli del gruppo, fuori catalogo da tempo, completi di parte grafica ed istruzioni per chi volesse realizzare una copia fisica dei cd.
Lavoro monumentale perchè è la seconda parte del progetto "Recycle - The Factory Years", la cui prima parte ha visto la realizzazione di 20 (!) singoli dei New Order.
Il progetto "Recycle" è un vero e proprio atto d'amore verso la musica di Joy Division/New Order: per ogni singolo i due amici sono andati a cercare la versione che "suona" meglio tra vinili e cd, andando a cercare tutti i formati esistenti (tra 7", 12", ristampe, demo, etc.), riunendo in ogni singolo tutte le diverse versioni, rimasterizzate in modo da farle suonare "bene" insieme.
Due esempi: per "Love Will Tear Us Apart" ai due pezzi del singolo originale ("Love..." e "These Days") sono stati aggiunti "The Sound of Music" e la prima versione di "Love..."[2], registrate insieme a "These Days" al Pennine Studio nel gennaio 1980.
Ci sono anche due remix di metà anni '90, il primo trascurabile e il secondo pessimo...
"Licht Und Blindheit" è invece il singolo pubblicato dalla piccola etichetta francese Sordide Sentimental contenente "Atmosphere" e "Dead Souls".
In questa riedizione sono presenti anche Ice Age (pitch corrected) e una seconda versione di Dead Souls (pitch corrected), nelle note della release è spiegato in dettaglio il motivo della pitch correction.[3]
In sintesi, durante la sovraincisione delle parti vocali di "Atmosphere" il nastro era stato accelerato per permettere una intonazione meno difficoltosa a Ian Curtis, e la stessa cosa era stata fatta per gli altri due pezzi registrati nella stessa sessione, ma mentre per il primo la velocità corretta era stata ripristinata durante il mixdown, gli altri due pezzi sono sempre stati pubblicati a una velocità errata.
Insomma, un lavoro assolutamente degno di nota, realizzato professionalmente e con grandissima cura alla qualità del risultato.
Dunque: andate sul sito dedicato al progetto Recycle, scaricate gli otto singoli dei Joy Division e almeno i primi quattro dei New Order, avrete 40 + 14 canzoni da ascoltare nel miglior modo possibile, in modo assolutamente legale e gratuito.[4]
Note e links:
[1] Sono in formato m4a/256k, ovvero il formato "nativo" di iTunes. Chi vuole può inserire qui il solito discorso su formati/supporti fonografici/confezioni. Io li ho scaricati e messi direttamente nell'iPod.
[2] La versione di "Love..." utilizzata per il singolo è quella registrata nuovamente durante le session di Closer.
[3] A margine, questo singolo appena riascoltato mi sembra in serissima competizione con "Strawberry Fields/Penny Lane" per il titolo di miglior singolo di sempre: l'accoppiata "Atmosphere/Dead Souls" è stata assurdamente rilasciata in tiratura limitata per una semi-sconosciuta etichetta francese, una specie di suicidio commerciale per la Factory Records. Che non era una major, e forse questo qualcosa vuol dire...
[4] Sono un po' le sfighe di questa era digital-internettiana, fino a pochi anni fa una cosa del genere sarebbe stata semplicemente impensabile, lasciando così che questa musica fosse conosciuta solo dai pochi eletti che erano riusciti a procurarsi i vinili originali. Ah, bei tempi...
Lavoro monumentale perchè è la seconda parte del progetto "Recycle - The Factory Years", la cui prima parte ha visto la realizzazione di 20 (!) singoli dei New Order.
Il progetto "Recycle" è un vero e proprio atto d'amore verso la musica di Joy Division/New Order: per ogni singolo i due amici sono andati a cercare la versione che "suona" meglio tra vinili e cd, andando a cercare tutti i formati esistenti (tra 7", 12", ristampe, demo, etc.), riunendo in ogni singolo tutte le diverse versioni, rimasterizzate in modo da farle suonare "bene" insieme.
Due esempi: per "Love Will Tear Us Apart" ai due pezzi del singolo originale ("Love..." e "These Days") sono stati aggiunti "The Sound of Music" e la prima versione di "Love..."[2], registrate insieme a "These Days" al Pennine Studio nel gennaio 1980.
Ci sono anche due remix di metà anni '90, il primo trascurabile e il secondo pessimo...
"Licht Und Blindheit" è invece il singolo pubblicato dalla piccola etichetta francese Sordide Sentimental contenente "Atmosphere" e "Dead Souls".
In questa riedizione sono presenti anche Ice Age (pitch corrected) e una seconda versione di Dead Souls (pitch corrected), nelle note della release è spiegato in dettaglio il motivo della pitch correction.[3]
In sintesi, durante la sovraincisione delle parti vocali di "Atmosphere" il nastro era stato accelerato per permettere una intonazione meno difficoltosa a Ian Curtis, e la stessa cosa era stata fatta per gli altri due pezzi registrati nella stessa sessione, ma mentre per il primo la velocità corretta era stata ripristinata durante il mixdown, gli altri due pezzi sono sempre stati pubblicati a una velocità errata.
Insomma, un lavoro assolutamente degno di nota, realizzato professionalmente e con grandissima cura alla qualità del risultato.
Dunque: andate sul sito dedicato al progetto Recycle, scaricate gli otto singoli dei Joy Division e almeno i primi quattro dei New Order, avrete 40 + 14 canzoni da ascoltare nel miglior modo possibile, in modo assolutamente legale e gratuito.[4]
Note e links:
[1] Sono in formato m4a/256k, ovvero il formato "nativo" di iTunes. Chi vuole può inserire qui il solito discorso su formati/supporti fonografici/confezioni. Io li ho scaricati e messi direttamente nell'iPod.
[2] La versione di "Love..." utilizzata per il singolo è quella registrata nuovamente durante le session di Closer.
[3] A margine, questo singolo appena riascoltato mi sembra in serissima competizione con "Strawberry Fields/Penny Lane" per il titolo di miglior singolo di sempre: l'accoppiata "Atmosphere/Dead Souls" è stata assurdamente rilasciata in tiratura limitata per una semi-sconosciuta etichetta francese, una specie di suicidio commerciale per la Factory Records. Che non era una major, e forse questo qualcosa vuol dire...
[4] Sono un po' le sfighe di questa era digital-internettiana, fino a pochi anni fa una cosa del genere sarebbe stata semplicemente impensabile, lasciando così che questa musica fosse conosciuta solo dai pochi eletti che erano riusciti a procurarsi i vinili originali. Ah, bei tempi...
Thunder Road - Bruce Springsteen
Born to run è l'album di Springsteen che segna il passaggio dallo status di rocker famoso solo nel New Jersey, per i suoi interminabili e super energetici concerti, a stella del firmamento internazionale della musica. I primi due album "Greetings from Asbury Park NJ" e "The Wild the Innocent & the E street shuffle" non ebbero il successo che la casa discografica si attendeva. Springsteen si trovava di fronte al bivio, da una parte una onesta carriera, probabilmente a declinare lentamente, in ambito locale, e dall'altra parte l'ultima occasione per diventare il Boss. Si sa com'è andata.Il disco si apre con "Thunder road". Comincia con le note stridenti dell'armonica a bocca e di un pianoforte. La canzone secondo me è struggente. Ha una particolarità: è posizionata in apertura di disco quando dovrebbe essere posta in chiusura. Armonica….pianoforte …la voce di Springsteen… "The screen door slams.....Roy Orbison's singing for the lonely", sottintendono che qualcosa sia già successo. Molti dicono che la canzone sia trascinante e colgono tutt'altro che il senso di nostalgia, che ravviso io. Allora per controprova provate ad ascoltarne la versione che si trova, oltre che in decine di bootleg, su "Live 1975-1985".:è' completamente diversa. Credo che si possa spiegare questa differenza di sensazioni che si provano circa la medesima canzone, facendo alcune considerazioni. Una prima è legata all'arrangiamento della stessa. Su "Born to run" , la canzone nasce, in fase di composizione, al pianoforte, gli arrangiamenti sono ricchi, forse troppo, e ne accentuano il tono epico, della partenza verso un futuro di successo, solo l'armonica ne caratterizza un aspetto che al tempo era senz'altro presente all'autore, quello del lasciare il mondo che lo ha visto crescere. Nell'arrangiamento molto più scarno e semplice proposto in "Live 1975-1985" invece mette l'accento sul passato, su qualcosa di irripetibile, sulla sua formazione, su un mondo che non c'è più, tutto ciò che è qui esplicito era già implicito nell'originale. Springsteen stava partendo, si stava trasformando, la sua sensibilità, il suo mondo poetico era cambiato, maturato. Qui il boss parla di sé e di tutti noi che cresciamo, che lasciamo le stanze, le strade della nostra infanzia, della nostra giovinezza, i nostri ricordi e gli oggetti che li ospitano. Qui non siamo più ad Asbury park, potrebbe essere qualunque luogo dell'america o del mondo.
I personaggi che Springsteen ci propone diventano universali, come avviene nella grande letteratura, trascendono il tempo e lo spazio e noi ci possiamo riconoscere in loro ora come trent'anni fa o fra trent'anni.L'autore diventa adulto, così come i suoi testi, la sua musica; ancora una citazione del boss:"Quando la vetrata sbatte in Thunder Road non ci troviamo più necessariamente lungo la costa del New Jersey. Potremmo essere ovunque in America. Così iniziarono a prendere forma i personaggi, di cui avrei delineato le vite nei decenni successivi. Quello fu l'album in cui superai le mie concezioni adolescenziali dell'amore e della libertà."Infine c'è una particolarità del modo di scrivere canzoni di Springsteen, che si trova già in Thunder road e per estensione nell'album Born to run. Si tratta di questo: in alcune canzoni, l'ho notato soprattutto in quelle di maggior successo, la scrittura della musica e dei testi sembrano andare in contraddizione, su due vie divergenti. Così l'arrangiamento fin troppo ricco di Thunder road evoca un incedere grandioso, di speranze e sempre nuovi orizzonti, mentre il testo è permeato di dolore e nostalgia i versi finali della canzone dicono:
"It's a town full of losers ,And i'm pulling out of here to win"
"E' una città di perdenti, e io me ne sto andando per vincere"
Questi versi dicono molte cose, dicono che si allontana dalla sua città, dai suoi affetti, costretto a cercare una rivincita e il successo altrove, è anche lui, e ne è consapevole, tra i perdenti e l'unica reazione possibile è la partenza.
Anni dopo, nella sua canzone di maggior successo "Born in the U.S.A.", accanto ad un testo durissimo, che è un pugno nello stomaco al modo di vivere americano e alle condizioni di vita dei poveri in america (ne riporto a titolo esemplificativo solo i primi due versi):
"Born down in a dead man's town, The first kick was when i hit the ground"
"Nato in una città di morti, Il primo calcio l'ho preso quando ho toccato terra"
si affianca una musica che al contrario sembra un inno all'"american way of life", tanto che la canzone fu pesantemente strumentalizzata da Reagan negli anni '80, e solo relativamente di recente Springsteen l'ha riconfezionata con un arrangiamneto acustico che ha tolto tutti i dubbi interpretativi circa il reale significato da attribuirle.Tutta la carriera di Springsteen a cominciare dalla metà degli anni settanta e ad arrivare alla maturità degli anni 90 sembra venata da questa schizofrenia testo-musica, quasi avesse bisogno di suonare dal vivo per molto tempo le sue canzoni perché queste si stabilizzino su un'interpretazione definitiva, vengano sviluppate dal loro nucleo originale.
I personaggi che Springsteen ci propone diventano universali, come avviene nella grande letteratura, trascendono il tempo e lo spazio e noi ci possiamo riconoscere in loro ora come trent'anni fa o fra trent'anni.L'autore diventa adulto, così come i suoi testi, la sua musica; ancora una citazione del boss:"Quando la vetrata sbatte in Thunder Road non ci troviamo più necessariamente lungo la costa del New Jersey. Potremmo essere ovunque in America. Così iniziarono a prendere forma i personaggi, di cui avrei delineato le vite nei decenni successivi. Quello fu l'album in cui superai le mie concezioni adolescenziali dell'amore e della libertà."Infine c'è una particolarità del modo di scrivere canzoni di Springsteen, che si trova già in Thunder road e per estensione nell'album Born to run. Si tratta di questo: in alcune canzoni, l'ho notato soprattutto in quelle di maggior successo, la scrittura della musica e dei testi sembrano andare in contraddizione, su due vie divergenti. Così l'arrangiamento fin troppo ricco di Thunder road evoca un incedere grandioso, di speranze e sempre nuovi orizzonti, mentre il testo è permeato di dolore e nostalgia i versi finali della canzone dicono:
"It's a town full of losers ,And i'm pulling out of here to win"
"E' una città di perdenti, e io me ne sto andando per vincere"
Questi versi dicono molte cose, dicono che si allontana dalla sua città, dai suoi affetti, costretto a cercare una rivincita e il successo altrove, è anche lui, e ne è consapevole, tra i perdenti e l'unica reazione possibile è la partenza.
Anni dopo, nella sua canzone di maggior successo "Born in the U.S.A.", accanto ad un testo durissimo, che è un pugno nello stomaco al modo di vivere americano e alle condizioni di vita dei poveri in america (ne riporto a titolo esemplificativo solo i primi due versi):
"Born down in a dead man's town, The first kick was when i hit the ground"
"Nato in una città di morti, Il primo calcio l'ho preso quando ho toccato terra"
si affianca una musica che al contrario sembra un inno all'"american way of life", tanto che la canzone fu pesantemente strumentalizzata da Reagan negli anni '80, e solo relativamente di recente Springsteen l'ha riconfezionata con un arrangiamneto acustico che ha tolto tutti i dubbi interpretativi circa il reale significato da attribuirle.Tutta la carriera di Springsteen a cominciare dalla metà degli anni settanta e ad arrivare alla maturità degli anni 90 sembra venata da questa schizofrenia testo-musica, quasi avesse bisogno di suonare dal vivo per molto tempo le sue canzoni perché queste si stabilizzino su un'interpretazione definitiva, vengano sviluppate dal loro nucleo originale.
Le Luci Della Centrale Elettrica - Live in Bronson, 22-01
(immagine di repertorio)
Un bel pienone al Bronson, sabato scorso, per il live di Vasco Brondi. Una data-snodo abbastanza importante per l'economia del locale, che continua ad essere IL posto della musica indie-alternative (per dirla alla vecchia maniera) dal vivo in Romagna.
Innanzitutto, la formazione. Canali ha lasciato il ragazzo libero dopo aver compiuto la sua missione di pigmalione, e sul palco sono in 4. C'è un batterista/percussionista/effettista che suona in piedi (ero un po' lontano dal palco e non ho potuto verificare se avesse dei pad o pelli reali) ed interviene a rinforzare i momenti per così dire topici, c'è un chitarrista elettrico di rinforzo spinale ma che resta abbastanza discreto, e soprattutto c'è un fantastico D'Erasmo al violino. L'Afterhours catalizza le attenzioni strumentali in lungo ed in largo, col suo stile creativo ed istrionico, che non è fatto certo di virtuosismi ma di ricerca sonora e sottolineature intelligentissime. Un ruolo, per restare in tema di gruppi visti di recente, simile a quello di Pilìa nei Massimo Volume. Ricordo in particolare un lungo drone distorto, al termine di ahimè non ricordo quale pezzo, da far venire i brividi alla schiena, in quel particolare contesto.
Brondi appare in ottima forma, modesto ed essenziale, al vertice arretrato del semitondo con cui si dispone il quartetto. Scorre tutto Per ora noi la chiameremo felicità, ed ovviamente una buona metà di Spiaggia deturpata. L'impianto strumentale punteggia le sue canzoni con sapienza, il ruggito è impeccabile e il trasporto emotivo come da copione.
Quindi? Oddio, mi sento antipatico da solo al pensiero tendenzioso che mi assale. Intendiamoci, io sono uno di quelli che è rimasto folgorato all'ascolto del famoso Demo del 2007, e sto apprezzando tanto anche il nuovo. Lo trovo autentico cantore dei giorni nostri, e come lessi in un blog tempo fa, sarebbe stato un sogno meraviglioso vederlo ospite in Vieni via con me di Saviano, al posto di uno qualsiasi di tutti quei vecchi tromboni che hanno invitato.
Ma trovo che Vasco a questo punto debba cercare di re-inventarsi un po' musicalmente, perchè la sua formula con un terzo album di questo genere potrebbe mostrare la corda, e temo che finirei solo per leggere le parole e disinteressarmi di quelle scarne canzoni sempre preziose ma troppo simili a sè stesse con quegli accordi minori, che neanche un supporto valido come l'attuale può evitare di far scadere nel ripetitivo.
Pretenderei troppo?
Innanzitutto, la formazione. Canali ha lasciato il ragazzo libero dopo aver compiuto la sua missione di pigmalione, e sul palco sono in 4. C'è un batterista/percussionista/effettista che suona in piedi (ero un po' lontano dal palco e non ho potuto verificare se avesse dei pad o pelli reali) ed interviene a rinforzare i momenti per così dire topici, c'è un chitarrista elettrico di rinforzo spinale ma che resta abbastanza discreto, e soprattutto c'è un fantastico D'Erasmo al violino. L'Afterhours catalizza le attenzioni strumentali in lungo ed in largo, col suo stile creativo ed istrionico, che non è fatto certo di virtuosismi ma di ricerca sonora e sottolineature intelligentissime. Un ruolo, per restare in tema di gruppi visti di recente, simile a quello di Pilìa nei Massimo Volume. Ricordo in particolare un lungo drone distorto, al termine di ahimè non ricordo quale pezzo, da far venire i brividi alla schiena, in quel particolare contesto.
Brondi appare in ottima forma, modesto ed essenziale, al vertice arretrato del semitondo con cui si dispone il quartetto. Scorre tutto Per ora noi la chiameremo felicità, ed ovviamente una buona metà di Spiaggia deturpata. L'impianto strumentale punteggia le sue canzoni con sapienza, il ruggito è impeccabile e il trasporto emotivo come da copione.
Quindi? Oddio, mi sento antipatico da solo al pensiero tendenzioso che mi assale. Intendiamoci, io sono uno di quelli che è rimasto folgorato all'ascolto del famoso Demo del 2007, e sto apprezzando tanto anche il nuovo. Lo trovo autentico cantore dei giorni nostri, e come lessi in un blog tempo fa, sarebbe stato un sogno meraviglioso vederlo ospite in Vieni via con me di Saviano, al posto di uno qualsiasi di tutti quei vecchi tromboni che hanno invitato.
Ma trovo che Vasco a questo punto debba cercare di re-inventarsi un po' musicalmente, perchè la sua formula con un terzo album di questo genere potrebbe mostrare la corda, e temo che finirei solo per leggere le parole e disinteressarmi di quelle scarne canzoni sempre preziose ma troppo simili a sè stesse con quegli accordi minori, che neanche un supporto valido come l'attuale può evitare di far scadere nel ripetitivo.
Pretenderei troppo?
The The: alchimista solitario degli anni '80
Per i giovanissimi forse il doppio articolo del titolo non dirà molto. Per chi invece negli anni '80 non era un bambino Matt Johnson, in arte The The, dovrebbe essere un nome noto. Riuscì a conciliare il post punk con il pop senza vendersi l'anima, malgrado l'inaspettato e clamoroso successo di Uncertain smile, singolo che nel 1983 diventò un tormentone ballato nelle discoteche pseudo-alternative e passato a ripetizione in tutte le radio. Marchi di fabbrica erano l'indimenticabile introduzione di xilofono e il lungo assolo finale di pianoforte di Jools Holland. L'album in questione era Soul Mining, ma fu con i due dischi successivi: Infected del 1987 e Mind Bomb del 1989 che The The mise a punto il suo stile da songwriter di classe, attento ai temi sociali e politici, insieme al talento da polistrumentista capace di appropriarsi dei generi e miscelarli con una formula originale ed inimitabile.
Splendidi brani, molti dei quali trasformati in video, come Infected, la title track che accenna alla diffusione dell'Aids (massimo picco proprio in quegli anni); splendidi l'introduzione serrata di percussioni tribali e l'assolo di tromba a metà brano. Sweet bird of truth, invece è il primo brano della facciata B che si scaglia contro la politica imperialista delle grandi potenze, mentre Heartland è una critica alla decadenza dell'Inghilterra thatcheriana: questo è il 51° stato degli Stati Uniti.
L'altro disco imperdibile è Mind Bomb. Con The The collaborò Johnny Marr, ex chitarrista degli Smith che fa sentire la sua presenza in tutti i brani con riff incisivi e con l'armonica; in Kingdom of Rain e Good Morning Beautiful c'è Sinead O'Connor al canto. Lo stile musicale di Johnson è piuttosto indefinibile; sicuramente originale e complesso, risente agli inizi della tipica matrice pop/dance anni '80 per poi evolversi e contaminarsi con il blues-rock, il folk ed il funk. Questo è un album dall'impatto viscerale dove i brani si sviluppano come per metamorfosi, prendendo forma lentamente; durano infatti quasi tutti dai cinque minuti in su. I testi, quasi profetici, spaziano affrontando temi come le religioni, il capitalismo e l'incombente globalizzazione. Struggente e seducente, quest'opera è forse il capolavoro del genio indefinibile di Johnson. (Scaruffi).
Curioso destino quello di The The, per certi versi simile a quello dei Talk Talk, pure loro esplosi negli anni '80 con hit da classifica come It's my life e Such a same e in seguito allontanatisi progressivamente dalla scena commerciale synthpop per esplorare territori musicali distanti anni luce da quelli dei loro esordi.
Di The The si erano perse le tracce: dopo Dusk, uscito nel 1993, ben sette anni di silenzio fino alla rottura con la propria casa discografica nel 2000 e in seguito la decisione di pubblicare in proprio e distribuire sul web Nakedself, un album che non aggiunge nulla di interessante alle sue produzioni precedenti.
Di recente è uscita la colonna sonora per un film realizzato dal fratello, il regista Gerard Johnson, intitolato Tony, in uscita a febbraio.
Jerry Garcia per 3 miseri euro
Verso la metà dello scorso Novembre sono stato in compagnia di un paio d'amici ad un mercatino dei dischi. Da tempo avevo promesso d'accompagnarli, visto che non c'erano mai stati. Arriviamo poco dopo l'apertura, però prima di entrare ci si beve un caffettino e poi giù nell'underground, nel senso letterale del termine perché la mostra mercato era proprio sotto l'edificio della fiera.
Dopo che gli amici hanno capito come è organizzata tutta la faccenda dei venditori di dischi, ci siamo separati e un po' svogliatamente me ne sono andato a zonzo. Forse mi seccava pagare un biglietto per entrare, forse perché non mi piace vedere vinili a prezzi d'alta quota (che scoperta, eh?). Insomma continuavo a camminare e a guardare, poi fra un banco e un altro trovo un tipo che vende decine e decine di libri di musica, tutti usati e pressoché in buon stato. La maggior parte erano biografie, alcune veramente insulse e patinate. Però non demordo e proseguo la ricerca perché ho sempre in testa di trovare qualche libretto "che non si sa mai ...".
Muovi quello libro, sposta quest'altra pubblicazione, sfoglia distrattamente quell'altro e intanto i miei polpastrelli si impolveravano. Poi sotto sotto trovo:
Il venditore mi ringrazia pure due volte, sia per il libro che per le monete "giuste giuste".
A casa ho iniziato a leggerlo un po' alla volta, la lettura è scorrevole e alla fine me la sono passata via bene. L'autore è sicuramente un estimatore e conoscitore profondo di Garcia e dei Dead. Non fa l'errore di scrivere un saggio critico ma "fa parlare" Jerry Garcia. Infatti Franco Bolelli ha selezionato interviste, anedotti e dichiarazioni del chitarrista che ne fanno una sorta di autoritratto a tutto tondo.
I temi vanno dalle canzoni e ai dischi dei Grateful Dead, a Bob Dylan, alla sua filosofia di vita, alle droghe e ad alcuni eventi importanti del periodo Sixties (Woodstock, la Summer of Love, Altamont). Gli argomenti sono trattati con un filo logico e delineano la fotografia di un grande personaggio della cultura alternativa.
Ovviamente non poteva mancare una discografia consigliata e qualche pagina dedicata ai bootleg, ai video e ai libri di e su Jerry Garcia.
Ripeto, veramente piacevole da leggere. Il libro, purtroppo, è fuori catalogo.
Jerry Garcia
Riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead
a cura di Franco Bollelli, Castelvecchi, Settembre 1996.
Dopo che gli amici hanno capito come è organizzata tutta la faccenda dei venditori di dischi, ci siamo separati e un po' svogliatamente me ne sono andato a zonzo. Forse mi seccava pagare un biglietto per entrare, forse perché non mi piace vedere vinili a prezzi d'alta quota (che scoperta, eh?). Insomma continuavo a camminare e a guardare, poi fra un banco e un altro trovo un tipo che vende decine e decine di libri di musica, tutti usati e pressoché in buon stato. La maggior parte erano biografie, alcune veramente insulse e patinate. Però non demordo e proseguo la ricerca perché ho sempre in testa di trovare qualche libretto "che non si sa mai ...".
Muovi quello libro, sposta quest'altra pubblicazione, sfoglia distrattamente quell'altro e intanto i miei polpastrelli si impolveravano. Poi sotto sotto trovo:
"Jerry Garcia - riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead".
Mi fermo, lo sfoglio, leggo con attenzione l'indice e guardo il prezzo: tre miseri euri. Non sono un grande appassionato dei Grateful Dead, però ho quei tre dischi psichedelici degli anni '60 che li resero famosi: "Anthem of the sun", "Aoxomoxoa" e "Live/Dead". In fondo Jerry e i Dead sono stati i protagonisti di un periodo della musica USA che mi piace, la cosidetta Summer of Love. E quindi non me la sono sentita di lasciare il buon Jerry sepolto da libri non proprio affini a lui o meglio a me. Non ci ragiono su oltre, lo prendo!Il venditore mi ringrazia pure due volte, sia per il libro che per le monete "giuste giuste".
A casa ho iniziato a leggerlo un po' alla volta, la lettura è scorrevole e alla fine me la sono passata via bene. L'autore è sicuramente un estimatore e conoscitore profondo di Garcia e dei Dead. Non fa l'errore di scrivere un saggio critico ma "fa parlare" Jerry Garcia. Infatti Franco Bolelli ha selezionato interviste, anedotti e dichiarazioni del chitarrista che ne fanno una sorta di autoritratto a tutto tondo.
I temi vanno dalle canzoni e ai dischi dei Grateful Dead, a Bob Dylan, alla sua filosofia di vita, alle droghe e ad alcuni eventi importanti del periodo Sixties (Woodstock, la Summer of Love, Altamont). Gli argomenti sono trattati con un filo logico e delineano la fotografia di un grande personaggio della cultura alternativa.
Ovviamente non poteva mancare una discografia consigliata e qualche pagina dedicata ai bootleg, ai video e ai libri di e su Jerry Garcia.
Ripeto, veramente piacevole da leggere. Il libro, purtroppo, è fuori catalogo.
Jerry Garcia
Riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead
a cura di Franco Bollelli, Castelvecchi, Settembre 1996.
Dedicato a Diego "Dick's Picks" F.
Due canzoni
Ma non due canzoni qualunque.
Quelle che per me sono le due più belle canzoni italiane degli ultimi 15 anni, e sono tutte e due di Stefano Giaccone.
Entrambe tratte dal suo primo disco "solo", quello pubblicato nel 1998 con lo pseudonimo di Tony Buddenbrook, "Le stesse cose ritornano".
E siccome la coerenza non è una virtù che molto mi interessi, metto qui i due "video" che ho caricato su YouTube e trascrivo pure i testi, che mi sembrano bellissimi.
Trovare il cd adesso non è facilissimo, ma se digitate "indieitalia" su Google potrebbe essere un buon punto di partenza per recuperarne una copia in m3p o pm3, una di quelle robe lì, digitali e orribili.
E se questi due pezzi non vi piacciono almeno un po', a mio parere potete anche cominciare a preoccuparvi: mica basta respirare per essere vivi.
Il sarto
Ci sarà tempesta dice il sarto
la sua forbice punta il cielo
la mia voce è una moneta di ferro
sepolta nella terra più lontana che so
nemmeno dopo un mese posso scambiarmi
per uno di qua, nemmeno dopo un mese
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
A qualcosa che ci dev'essere più in là
e bisogna avere occhi chiari e una poesia per ogni luna
o mille palchi o mille torri
per avvistare una vela che non so dire
come sarà, che colore avrà
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
Pure il sarto, lui, è di un altro mondo
da trent'anni taglia stoffe nel modo più esatto
vive nella stanza in affitto con sua moglie
dentro un ritratto
nuvole nere ora ci coprono
ma lui di certo non le vedrà
Le vedo io riflesse negli occhiali scheggiati
come il suo mestiere che muore
ma la sua mano resta precisa come tagliasse qualcosa
solo per me
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
un altro temporale che passerà
Cosa ci siamo persi
(Concerto in Sardegna)
Sprofondato in una nuvola grigia
che non capisco se è il fumo
o sono i miei pensieri
Nel salone del bar i soli che beviamo
gli arabi seduti sono statue
di sabbia e rancore
Non so perchè non riesco a scordare
le ultime parole dette
all'ombra della nostra fine
saranno gli occhi del ricordo
che bruceranno per primi
nella calce bianca dei giorni
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Da questo ponte è bello pensare
che laggiù nella notte
ci sono isole e montagne
La nostra voce ha un'ala spezzata
quattro muri di troppo e pazienza indurita
Da questo ponte è bello pensare
che qualcuno ci aspetta
magari solo per salutare
come vagabondi del Dharma, come Andrè Gide
come se Dio da lassù si mettesse a gridare
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Niente di niente, l'ultima bestemmia
adesso sono stanco anche di fissare le stelle
è l'amore che ci graffia e ci fa ammalare
o è la paura di non poterci lasciare
vedrai che domani anche questo cielo andrà bene
anche questo andrà bene, lo sai
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Quelle che per me sono le due più belle canzoni italiane degli ultimi 15 anni, e sono tutte e due di Stefano Giaccone.
Entrambe tratte dal suo primo disco "solo", quello pubblicato nel 1998 con lo pseudonimo di Tony Buddenbrook, "Le stesse cose ritornano".
E siccome la coerenza non è una virtù che molto mi interessi, metto qui i due "video" che ho caricato su YouTube e trascrivo pure i testi, che mi sembrano bellissimi.
Trovare il cd adesso non è facilissimo, ma se digitate "indieitalia" su Google potrebbe essere un buon punto di partenza per recuperarne una copia in m3p o pm3, una di quelle robe lì, digitali e orribili.
E se questi due pezzi non vi piacciono almeno un po', a mio parere potete anche cominciare a preoccuparvi: mica basta respirare per essere vivi.
Il sarto
Ci sarà tempesta dice il sarto
la sua forbice punta il cielo
la mia voce è una moneta di ferro
sepolta nella terra più lontana che so
nemmeno dopo un mese posso scambiarmi
per uno di qua, nemmeno dopo un mese
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
A qualcosa che ci dev'essere più in là
e bisogna avere occhi chiari e una poesia per ogni luna
o mille palchi o mille torri
per avvistare una vela che non so dire
come sarà, che colore avrà
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
Pure il sarto, lui, è di un altro mondo
da trent'anni taglia stoffe nel modo più esatto
vive nella stanza in affitto con sua moglie
dentro un ritratto
nuvole nere ora ci coprono
ma lui di certo non le vedrà
Le vedo io riflesse negli occhiali scheggiati
come il suo mestiere che muore
ma la sua mano resta precisa come tagliasse qualcosa
solo per me
E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
un altro temporale che passerà
Cosa ci siamo persi
(Concerto in Sardegna)
Sprofondato in una nuvola grigia
che non capisco se è il fumo
o sono i miei pensieri
Nel salone del bar i soli che beviamo
gli arabi seduti sono statue
di sabbia e rancore
Non so perchè non riesco a scordare
le ultime parole dette
all'ombra della nostra fine
saranno gli occhi del ricordo
che bruceranno per primi
nella calce bianca dei giorni
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Da questo ponte è bello pensare
che laggiù nella notte
ci sono isole e montagne
La nostra voce ha un'ala spezzata
quattro muri di troppo e pazienza indurita
Da questo ponte è bello pensare
che qualcuno ci aspetta
magari solo per salutare
come vagabondi del Dharma, come Andrè Gide
come se Dio da lassù si mettesse a gridare
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Niente di niente, l'ultima bestemmia
adesso sono stanco anche di fissare le stelle
è l'amore che ci graffia e ci fa ammalare
o è la paura di non poterci lasciare
vedrai che domani anche questo cielo andrà bene
anche questo andrà bene, lo sai
Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi
Supper's Ready - Genesis
"Supper's ready" dall'abum Foxtrot dei Genesis anno 1972. Tutto è bello in questo capolavoro dei Genesis. L'incredibile copertina surreale, barocca, simbolista. Quanto tempo passato a guardarla. La misteriosa "FoxyLady" sul lastrone di ghiaccio. I cacciatori, quello con il naso da Pinocchio, quello che si asciuga le lacrime, quello con la faccia da scimmia ed un orecchio alla "spock" quello con la faccia verde. Il ciclista che si sta avvicinando a gran velocità, i sette membri del ku-klux-klan in processione con la croce, la balena (di pinocchio?) il sottomarino (ventimila leghe sotto i mari?). Non lo so, ci ho sognato su questa come su mille altre copertine, fantasticato, cercato di trovare simboli, significati, faceva parte del gioco. In questo momento sto confrontando la copertina dell'album e quella del cd, in quest'ultima mancano metà dei personaggi che ho elencato prima, si vedono giusto la "foxylady" e tre dei cacciatori, pochino per poter ancora viaggiare con la fantasia.
"Supper's ready" occupa, con "Horizons" tutta la facciata B dell'album ed è lunga 23 minuti; minutaggi d'altri tempi, dei tempi eroici del progressive-rock. Una suite, una miniera di idee, quanto ad invenzioni ci si potrebbero ricavare parecchi album. Ma quelli erano per i Genesis tempi di incontrollabile creatività, bisogno artistico di esprimersi incontenibile. Qui la forma canzone per Gabriel già non è più sufficiente, ha bisogno di spazio di esprimersi artisticamente su più livelli contemporaneamente, il livello musicale, letterario, teatrale: i suoi famosi travestimenti vera sceneggiatura dei testi delle canzoni, invenzioni continue tese all'arte totale. Tempi di grande speranze ed illusioni per la musica rock, stava diventando grande ed aveva bisogno di affermarlo, aveva sete di riconoscimenti. Li ha avuti.La suite è divisa in sette movimenti (di solito si parla di movimenti nella musica classica...forse vorrà dire qualcosa pure questo) senza soluzioni di continuità, non ci sono spazi "bianchi" tra un movimento e l'altro."Walking across the sitting room..." così comincia il primo movimento: "Lover's Leap". La voce di Gabriel, bellissima, molto espressiva, sostenuta da un arpeggio leggerissimo di chitarra, interpreta ogni sfumatura, ogni piega del testo, prende letteralmente per mano l'ascoltatore e lo accompagna in "Lover's Leap" e poi per tutta la canzone non abbandonandolo mai, esattamente come la voce di un adulto che legge una fiaba ad un bambino, affascinante!"I know a farmer who looks after the farm" e si passa dalla voce sostenuta solo dall'arpeggio di chitarra a tutti gli altri strumenti in particolare il fantastico mellotron di Banks e la qui splendida batteria di Collins, con quel suono di pelli tese pieno che fosse una pietanza riempirebbe rotonda tutto il palato. Da qui in avanti i cambi fantasmagorici di tempi ed atmosfere non si contano. Un crescendo di virtuosismi strumentali e vocali. Il suono delle tastiere detta i tempi, sostenuto dalla batteria sempre perfetta.I giochi di parole di Gabriel diventano arte trascendendo i testi:
"Supper's ready" occupa, con "Horizons" tutta la facciata B dell'album ed è lunga 23 minuti; minutaggi d'altri tempi, dei tempi eroici del progressive-rock. Una suite, una miniera di idee, quanto ad invenzioni ci si potrebbero ricavare parecchi album. Ma quelli erano per i Genesis tempi di incontrollabile creatività, bisogno artistico di esprimersi incontenibile. Qui la forma canzone per Gabriel già non è più sufficiente, ha bisogno di spazio di esprimersi artisticamente su più livelli contemporaneamente, il livello musicale, letterario, teatrale: i suoi famosi travestimenti vera sceneggiatura dei testi delle canzoni, invenzioni continue tese all'arte totale. Tempi di grande speranze ed illusioni per la musica rock, stava diventando grande ed aveva bisogno di affermarlo, aveva sete di riconoscimenti. Li ha avuti.La suite è divisa in sette movimenti (di solito si parla di movimenti nella musica classica...forse vorrà dire qualcosa pure questo) senza soluzioni di continuità, non ci sono spazi "bianchi" tra un movimento e l'altro."Walking across the sitting room..." così comincia il primo movimento: "Lover's Leap". La voce di Gabriel, bellissima, molto espressiva, sostenuta da un arpeggio leggerissimo di chitarra, interpreta ogni sfumatura, ogni piega del testo, prende letteralmente per mano l'ascoltatore e lo accompagna in "Lover's Leap" e poi per tutta la canzone non abbandonandolo mai, esattamente come la voce di un adulto che legge una fiaba ad un bambino, affascinante!"I know a farmer who looks after the farm" e si passa dalla voce sostenuta solo dall'arpeggio di chitarra a tutti gli altri strumenti in particolare il fantastico mellotron di Banks e la qui splendida batteria di Collins, con quel suono di pelli tese pieno che fosse una pietanza riempirebbe rotonda tutto il palato. Da qui in avanti i cambi fantasmagorici di tempi ed atmosfere non si contano. Un crescendo di virtuosismi strumentali e vocali. Il suono delle tastiere detta i tempi, sostenuto dalla batteria sempre perfetta.I giochi di parole di Gabriel diventano arte trascendendo i testi:
If you go down to Willow Farm,
to look for butterflies, flutterbyes,
gutterflies Open your eyes,
it's full of surprise,
everyone lies,
like the focks on the rocks,
and the musical box.
Ed ancora
There's Winston Churchill dressed in drag,
He used to be a British flag,
plastic bag, what a drag.
The frog was a prince,
the prince was a brick,
the brickWas an egg,
and the egg was a bird
Ci sono poi punti nella suite che trovo inarrivabili per inventività e bellezza della musica. Siamo circa a metà del 5° movimento, "Willow farm", c'è un cambio di tempo che è anche cambio di canzone, di tutto, di prospettiva: uno stop, un colpo di fischietto, una porta d'automobile?! (yellow submarine?) che si chiude una voce fuori campo dice ok! la voce di Gabriel e quella di Collins!? che dialogano (Collins in falsetto!).Un flauto dolce introduce "Apocalypse in 9/8", un crescendo strumentale, Gabriel che incalza raccontando lo scontro finale con il Drago che esce dal mare e le fiamme che scendono dal cielo, un intermezzo in cui c'è un assolo splendido e molto progressivo di Banks con la batteria di Collins che lo sostiene e che gli dà continui spunti: sono senza parole. Gabriel riprende urlando "666 is no longer alone".Finalmente, come in ouverture 1812 di Tchaikovsky a celebrare la vittoria su Napoleone, le campane introducono l'ultimo movimento.
Lord Of Lords,King of Kings,
To take them to the new Jerusalem.
The British Everly's
La premiata ditta Mc Cartney-Lennon si vide affibbiare, all'inizio della carriera, il nomignolo di "British Everly's", grazie agli intrecci vocali dei loro primi brani, tipici del gruppo americano degli "Everly Brothers", la cui peculiarità era appunto quella di scrivere canzoni dove la parte armonica vocale era predominante. Sicuramente all'inizio del loro cammino, i Beatles resero omaggio a quel modo di scrivere canzoni, ad esempio "Please, please me" paga un debito nei confronti di "Cathy's Clown" dei fratelli americani, ma la similitudine più marcata e secondo me il vero omaggio alle canzoni degli Everly's, fu quel gioiellino di melodia posto come lato B di "I Want to Hold Your Hand", ovvero "This Boy", che possiamo definire la risposta british a "All I have to do is dream", un brano dove veramente i quattro di Liverpool meritarono l'appellativo di Everly's britannici.
Le due canzoni iniziano tutte e due con un intro, strumentale per i Beatles e vocale, dopo un breve arpeggio di chitarra, per gli Everly's, per poi spiegarsi in due chorus modulati a due voci, dove però se per gli americani si va quasi all'unisono, nel brano dei Beatles sono da rimarcare le modulazioni vocali di Paul alla voce guida di John. Ma il punto che fa pendere la bilancia in favore dei baronetti è nell'inciso. Prima cosa da dire, in "This Boy" a differenza dell'altro brano, l'inciso viene cantato una sola volta, dove Lennon passa dalla nota tonica alla sottodominante, cioè se ne parte dalla prima nota della scala musicale e arriva alla quarta è qualcosa che pur nella sua semplicità spacca in due la canzone e mi fa dire che in questo caso, l'inciso è bello quanto il chorus, e qui è la dimostrazione che il punto di forza del primo Lennon era tutto nella voce. Se infatti l'inciso in "All I Have to do is dream" è lineare come il resto della canzone, in "This Boy" prende il volo e contrasta con il resto del brano. Per finire, tutte e due le canzoni terminano con una coda a sfumare.
L'intuizione dei Beatles fu quella di spezzare la classica formula della canzone perfetta canonizzata dell'epoca, perlomeno di quella anglosassone che era formata da un verse, specialmente nelle canzoni in stile Broadway ma che verrà progressivamente abbandonato nel corso del tempo, da un intro, da due chorus inframezzati da due incisi o bridge cantati e dalla coda. Loro l'inciso, nella seconda parte, lo ripetevano quasi sempre in forma strumentale, o come in questo caso, una sola volta, creando però un bel contrasto tra le due parti, facendo si che ti si stampasse in testa e ti spingesse a riascoltare la canzone per coglierne le sfumature, come dire un caso di sottrazione che valeva come una somma.
Un omaggio sentito e sincero quindi, originale, ben lontano dalle scopiazzature di certi presunti campioni nostrani, vero Zucchero ?
P.s. Un ringraziamento a Franco Fabbri e al suo libro "Il suono in cui viviamo" pieno di spunti e riflessioni che mi hanno aiutato in questo post, chiedendo scusa per eventuali imprecisioni "tecniche".
Wish You Were Here - Pink Floyd
Una metafora culinaria per uno dei miei album preferiti dei Floyd: Wish You Were Here.
5 canzoni in tutto per uno degli album più famosi e più di successo della storia della musica rock.
Milioni di copie vendute, una straordinaria e surreale copertina, testi nostalgici, a tratti di alto lirismo e tutti dedicati al fondatore del gruppo: Syd Barrett.
Penso che sia Syd quella foto della copertina interna e precisamente quel sacchetto di cellophane che corre tra i filari d'alberi trascinato non più dalla sua volontà ma dal vento che scompiglia i capelli.
Un metafora culinaria dicevo: lo immagino come un enorme e succoso hamburger (mica uno di quelli di McDonald, eh) con Shine on You Crazy Diamond parte 1 e parte 2 a far da fette di pane, fragranti e croccanti, con Welcome To The Machine, Have a Cigar e Wish You Were Here a costituire l’imbottitura.
Welcome To The Machine, inquietante, quasi sperimentale, algida che preannuncia i temi disperati di Animals citando Huxley e preparando l’avvento dei testi orwelliani di Animal Farm.
Have a Cigar ovvero l’alienazione da successo, segue temporalmente e logicamente Money: i segni di saturazione e alienazione sono ormai evidentissimi.
E poi c’è Wish You Were Here, il canto ed il suono di due amici per chi non c’è più. Loro stessi si sono persi tra le braccia di una creatura mostruosa, una macchina da soldi, lontani dalla sperimentazione, dal divertimento, perfetti ingranaggi dell show business.
Quanta nostalgia in quelle parole:
Canzone sempre fantastica, nonostante il tempo che passa. Ha dentro di sé una montagna di nostalgia vera, non costruita a tavolino. Può non piacere la canzone ma dentro c’è vita, c’è verità c’è vissuto.
E poi resterebbero delle cose da dire pure “sulle due fette di pane”, dopo aver parlato della deliziosa imbottitura, e così per Shine On You Crazy Diamond preferisco linkarvi qui.
Per sempre:
"Remember when you were young, you shone like the sun. Shine on you crazy diamond".
5 canzoni in tutto per uno degli album più famosi e più di successo della storia della musica rock.
Milioni di copie vendute, una straordinaria e surreale copertina, testi nostalgici, a tratti di alto lirismo e tutti dedicati al fondatore del gruppo: Syd Barrett.
Penso che sia Syd quella foto della copertina interna e precisamente quel sacchetto di cellophane che corre tra i filari d'alberi trascinato non più dalla sua volontà ma dal vento che scompiglia i capelli.
Un metafora culinaria dicevo: lo immagino come un enorme e succoso hamburger (mica uno di quelli di McDonald, eh) con Shine on You Crazy Diamond parte 1 e parte 2 a far da fette di pane, fragranti e croccanti, con Welcome To The Machine, Have a Cigar e Wish You Were Here a costituire l’imbottitura.
Welcome To The Machine, inquietante, quasi sperimentale, algida che preannuncia i temi disperati di Animals citando Huxley e preparando l’avvento dei testi orwelliani di Animal Farm.
Have a Cigar ovvero l’alienazione da successo, segue temporalmente e logicamente Money: i segni di saturazione e alienazione sono ormai evidentissimi.
E poi c’è Wish You Were Here, il canto ed il suono di due amici per chi non c’è più. Loro stessi si sono persi tra le braccia di una creatura mostruosa, una macchina da soldi, lontani dalla sperimentazione, dal divertimento, perfetti ingranaggi dell show business.
Quanta nostalgia in quelle parole:
How I wish, how I wish you were here.
We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the same old ground. What have we found?
The same old fears,
wish you were here.
We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the same old ground. What have we found?
The same old fears,
wish you were here.
Canzone sempre fantastica, nonostante il tempo che passa. Ha dentro di sé una montagna di nostalgia vera, non costruita a tavolino. Può non piacere la canzone ma dentro c’è vita, c’è verità c’è vissuto.
E poi resterebbero delle cose da dire pure “sulle due fette di pane”, dopo aver parlato della deliziosa imbottitura, e così per Shine On You Crazy Diamond preferisco linkarvi qui.
Per sempre:
"Remember when you were young, you shone like the sun. Shine on you crazy diamond".
"Parental Guidance: Explicit Lyrics"
"Contro chi ci ribelleremo, adesso che non abbiamo più niente contro cui ribellarci?"
(Paul Williams)
Non mi viene davvero niente da aggiungere, così rispalmo qui il pezzo come l'ho trovato. La dàve non arrivò il Parents Music Resource Center....
Era una canzone davvero brutta, in effetti.
Money for Nothing dei Dire Straits censurata dalle radio canadesi
Slang giudicato omofobo nel testo della canzone
Ventisei anni dopo la sua pubblicazione, l’autorità garante per la radiofonia canadese ha deciso di proibire la messa in onda di Money for Nothing, classico dei Dire Straits. Il motivo è da imputarsi alla presenza ripetuta tre volte della parola “faggot”, termine dispregiativo per indicare un omosessuale, nella versione completa non editata. La Canadian Broadcast Standards Council (CBSC) ha preso la decisione la scorsa settimana dopo aver ricevuto un reclamo da un ascoltatore di Terranova che si appellava alle clausole sui diritti civili contenute nel codice etico della Canadian Association of Broadcasters.
Guy Fletcher, tastierista dei Dire Straits, ha fatto notare che di questo passo l’autorità dovrebbe censurare il 75% di tutti i dischi; inoltre ha sottolineato che la canzone fa uso di linguaggio comune di strada e la parola è usata da un personaggio presente nella canzone, e non è quindi espressione del pensiero dell’autore.
Ovviamente la decisione ha scatenato le proteste dei fan dei Dire Straits che stanno inviando petizioni alla CBSC. Anche alcune stazioni radio canadesi hanno protestato contro il provvedimento suonando la versione integrale di continuo per un’ora.
Ma se la canzone va proibita perché “faggot” è una parola che oggi non si usa più e non è politicamente corretta, quante canzoni si dovrebbero censurare per i termini dispregiativi usati per definire le donne da chi interpreta il testo, e non per riportare il pensiero di un personaggio fittizio? Oppure “bitch”, “ho”, “slut” fanno ancora parte del linguaggio comune contemporaneo? La risposta è sì, soprattutto in ambito hip hop e rock. Se il criterio fosse esteso come dovrebbe, le playlist delle radio sarebbero intervallate da lunghe pause di silenzio.
Un milione di album
What.cd, nato nel 2007, ha da poco festeggiato il milionesimo torrent. Stiamo parlando di un tracker per scaricare musica (molti già lo conosceranno) che vanta 5 milioni di utenti, 3500 richieste al secondo e che nel suo archivio ha a disposizione circa 350.000 artisti. Si potrà ancora definire pirateria, ma mi pare che la questione abbia raggiunto una dimensione e una complessità tali per cui i governi e le major invece di escogitare improbabili strategie repressive come quelle introdotte di recente in Francia, avrebbero dovuto cercare di capire fenomeni di tale portata. A tal fine una lettura molto interessante di cui ho già parlato sei mesi fa è Punk capitalismo (come e perché la pirateria crea innovazione) di Matt Mason.
Secondo i responsabili, gli utenti di What.cd non sono pirati occasionali ma fanatici della musica che pensano realmente ad essa come forma d'arte e quindi sono interessati dalla qualità, non a scaricare i top brani del momento. Sempre secondo i responsabili del sito, per questi audiofili non ci sono negozi di download legale che offrono la stessa qualità del materiale presente su What.cd e i prezzi sono proibitivi per costruire una collezione sufficientemente ampia, così confluiscono nel sito formando la spina dorsale della comunità. (jBlogP2P)
La regola che vige in questo tipo di comunità è do ut des: i vampiri succhiatori (leech) hanno vita breve. Sempre ottima inoltre la qualità dei brani. (mp3, flac, AAC).
La fine della musica? Da anni c'è chi lo annuncia solennemente. Io non credo, forse solo la pietra tombale sulla musica a pagamento così come è stata concepita per mezzo secolo.
Il rischio bulimia è in agguato, ma come sempre in tutte le cose è una questione di scelte, di gusti e di senso della misura. Il fatto che io sia goloso e che abbia sempre libero accesso alla migliore pasticceria della città non significa che tutti i giorni debba fare indigestione di dolci (a parte l'inevitabile abbuffata iniziale).
Concludo aggiungendo che un vero amante della musica, qualsiasi fonte download utilizzi nel web, dovrebbe mantenere un minimo di etica, continuando a comprare ciò che lo entusiasma come segno di riconoscenza nei confronti di quegli artisti che rendono migliori le sue giornate grazie alla musica. Confesso che per me è impossibile rinunciare al piacere di scartare ogni tanto un nuovo cd.
Conosco un sacco di artisti che hanno fatto dischi senza le case discografiche, ma non conosco nessuna casa discografica che ha fatto dischi senza gli artisti. DJ Jazzy Jeff
Secondo i responsabili, gli utenti di What.cd non sono pirati occasionali ma fanatici della musica che pensano realmente ad essa come forma d'arte e quindi sono interessati dalla qualità, non a scaricare i top brani del momento. Sempre secondo i responsabili del sito, per questi audiofili non ci sono negozi di download legale che offrono la stessa qualità del materiale presente su What.cd e i prezzi sono proibitivi per costruire una collezione sufficientemente ampia, così confluiscono nel sito formando la spina dorsale della comunità. (jBlogP2P)
La regola che vige in questo tipo di comunità è do ut des: i vampiri succhiatori (leech) hanno vita breve. Sempre ottima inoltre la qualità dei brani. (mp3, flac, AAC).
La fine della musica? Da anni c'è chi lo annuncia solennemente. Io non credo, forse solo la pietra tombale sulla musica a pagamento così come è stata concepita per mezzo secolo.
Il rischio bulimia è in agguato, ma come sempre in tutte le cose è una questione di scelte, di gusti e di senso della misura. Il fatto che io sia goloso e che abbia sempre libero accesso alla migliore pasticceria della città non significa che tutti i giorni debba fare indigestione di dolci (a parte l'inevitabile abbuffata iniziale).
Concludo aggiungendo che un vero amante della musica, qualsiasi fonte download utilizzi nel web, dovrebbe mantenere un minimo di etica, continuando a comprare ciò che lo entusiasma come segno di riconoscenza nei confronti di quegli artisti che rendono migliori le sue giornate grazie alla musica. Confesso che per me è impossibile rinunciare al piacere di scartare ogni tanto un nuovo cd.
Conosco un sacco di artisti che hanno fatto dischi senza le case discografiche, ma non conosco nessuna casa discografica che ha fatto dischi senza gli artisti. DJ Jazzy Jeff
The Sidewinder - Lee Morgan
La canzone che poi diede anche il titolo all'LP di Morgan è uno di quegli instant-hits che negli anni d'oro del jazz capitavano come poi nella musica rock. The Sidewinder al pari del serpente da cui prende il nome si muove e si svolge con sinuosità, trasversalmente, punzecchiando la testa, annidandosi per sempre nel cervello e non uscendone più, attaccandosi lì come un qualche tormentone estivo. Un pezzo con un ritmo che diventò negli anni successivi un pattern per decine e decine di Lps che cominciavano con un gran bel pezzo funkeggiante che serviva poi però solo a nascondere la pochezza di cui era poi composto il resto dell'album.
Jazz hits, oggi qualcosa di sconosciuto e persino inconcepibile, ma al tempo, tra la fine degli anni 50 ed i primi 60 non era rarità anche se delle dimensioni di The Sidewinder, così su due piedi mi vengono in mente solo So What del divino Miles e Watermelon Man di Herbie Hancock.
The Sidewinder fu anche il miglior album di Lee Morgan, non essendo più riuscito dopo a raggiungere quelle vette, avendo però mantenuto comunque una produzione più che buona.
All'album, registrato il 21 dicembre 1963 da Rudy Van Gelder negli omonimi studi di Engelwood Cliffs, parteciparono Joe Henderson al sax tenore, Barry Harris piano, Bob Crenshaw basso e Billy Higgins batteria. Henderson è protagonista di alcuni assoli veramente rimarchevoli all'altezza di quelli di Morgan con un interplay da manuale tra tromba e sassofono. Il piano di Harrs scandisce il ritmo come un metronomo, ascoltate il lavoro che fa in The Sidewinder, perfettamente accompagnato dal duo basso batteria.
La bellezza ed il successo del pezzo d'apertura oscurarono le altre canzoni, in realtà tutte meritevoli e di grande bellezza, in particolare Totem Pole (che avrebbe potuto benissimo essere un altro hit) e la finale Hocus Pocus.
Se posso insistere vi consiglierei di procurarvi un qualche modo l'album (ora i Blue Note i trovano nei negozi e pochi euro) che questo è un disco che piace anche a chi non è appassionato di jazz.
Jazz hits, oggi qualcosa di sconosciuto e persino inconcepibile, ma al tempo, tra la fine degli anni 50 ed i primi 60 non era rarità anche se delle dimensioni di The Sidewinder, così su due piedi mi vengono in mente solo So What del divino Miles e Watermelon Man di Herbie Hancock.
The Sidewinder fu anche il miglior album di Lee Morgan, non essendo più riuscito dopo a raggiungere quelle vette, avendo però mantenuto comunque una produzione più che buona.
All'album, registrato il 21 dicembre 1963 da Rudy Van Gelder negli omonimi studi di Engelwood Cliffs, parteciparono Joe Henderson al sax tenore, Barry Harris piano, Bob Crenshaw basso e Billy Higgins batteria. Henderson è protagonista di alcuni assoli veramente rimarchevoli all'altezza di quelli di Morgan con un interplay da manuale tra tromba e sassofono. Il piano di Harrs scandisce il ritmo come un metronomo, ascoltate il lavoro che fa in The Sidewinder, perfettamente accompagnato dal duo basso batteria.
La bellezza ed il successo del pezzo d'apertura oscurarono le altre canzoni, in realtà tutte meritevoli e di grande bellezza, in particolare Totem Pole (che avrebbe potuto benissimo essere un altro hit) e la finale Hocus Pocus.
Se posso insistere vi consiglierei di procurarvi un qualche modo l'album (ora i Blue Note i trovano nei negozi e pochi euro) che questo è un disco che piace anche a chi non è appassionato di jazz.
Greil Marcus - Mystery Train. Visioni d'America nel Rock
Libro consigliato da Paolo Vites nella discussione relativa al post sui 40 anni di musica italiana.
Letto e non piaciuto, nonostante il brillante lavoro di traduzione.[1]
Non mi è piaciuto perchè l'ho trovato poco interessante, meglio: è scritto con un'impostazione critica che in questo momento mi interessa davvero poco.
Wikipedia (versione inglese) di questo libro dice: "Il suo libro del 1975, "Mystery Train", ridefinì i parametri della critica della musica rock. Il libro piazza il rock and roll nel contesto degli archetipi culturali Americani, da Moby Dick al Grande Gatsby a Stagger Lee."
Ed è proprio questo il problema: Marcus parla dei testi delle canzoni, mettendoli a confronto con le opere letterarie che definiscono la "cultura americana".
E' un libro in cui si parla fondamentalmente dei testi delle canzoni, e a me interessa la musica.
E' un libro che dovrebbe quindi piacere a parecchi di quelli che girano qui: non parla di musica, ma di tutto quello che c'è intorno, perdendo di vista quello che c'è al centro, parlando tantissimo dei testi, e di quello che ha ispirato quei testi e di quello che quei testi hanno ispirato, e soprattutto di quali pensieri questi testi abbiano ispirato all'autore del libro.
E' un approccio che trovo molto "giornalistico", condito con le classiche banalità da "critico musicale rock" (batterie incalzanti, chitarre taglienti, bassi rotolanti e via stereotipando).
Trovo difficile appassionarmi a questo tipo di scrittura, soprattutto dopo aver letto i libri di Franco Fabbri che mettono al centro del discorso sulla musica, pensa te, la musica!
Per fortuna ci sono anche cose per cui vale lo stesso la pena di leggere questo libro: ad esempio, la visione della società americana degli anni '70 "in diretta" (la prima edizione del libro è del 1975), oppure il capitolo su Elvis Presley "da vivo".
Ma sono cose che hanno poco a che vedere con la musica, anzi, l'approccio musicologico è completamente ignorato[2] a favore di un più banale approccio da critico/fan[3], e la visione della storia della musica di Marcus è fortemente nordamericocentrica[4].
Bontà sua, l'autore ammette che anche qualche inglese (Beatles, Rolling Stones, Clash) ha contribuito alla musica rock, ma questi li chiama "americani immaginari"...
L'analisi sociologica mi sembra appena abbozzata (i Padri Pellegrini, il linguaggio[5] del rock come reazione allo spirito calvinista della società americana) mentre più interessanti sono le parti in cui si parla delle lotte civili e del movimento di liberazione dei neri d'america.
Ma nel complesso, ripeto: un libro sulla musica che non parla di musica.
Parla di testi e contesti, aspetti sociologici e culturali, parla delle copertine dei dischi e della grafica.
E così, la parte più interessante per me è l'intervista che gli fa Paolo Vites in appendice.
Note e links:
[1] Non è uno scherzo, è tradotto piuttosto bene davvero, soprattutto da qualcuno che sa quando è giusto lasciare una parola inglese senza tradurla :)
[2] E' anche vero che lo IASPM è stato fondato solo nel 1981.
[3] Simile in questo, giuro che mi spiace scriverlo, allo stile di Lester Bangs, che in più scriveva quasi sempre di sè stesso, e quasi mai di musica.
[4] E fortemente limitata per al prospettiva storica che evidentemente non poteva avere 35 anni fa, quando oltretutto aveva solo 30 anni: Randy Newman? The Band?
[5] Proprio nel senso puro del termine: le parole delle canzoni...
Letto e non piaciuto, nonostante il brillante lavoro di traduzione.[1]
Non mi è piaciuto perchè l'ho trovato poco interessante, meglio: è scritto con un'impostazione critica che in questo momento mi interessa davvero poco.
Wikipedia (versione inglese) di questo libro dice: "Il suo libro del 1975, "Mystery Train", ridefinì i parametri della critica della musica rock. Il libro piazza il rock and roll nel contesto degli archetipi culturali Americani, da Moby Dick al Grande Gatsby a Stagger Lee."
Ed è proprio questo il problema: Marcus parla dei testi delle canzoni, mettendoli a confronto con le opere letterarie che definiscono la "cultura americana".
E' un libro in cui si parla fondamentalmente dei testi delle canzoni, e a me interessa la musica.
E' un libro che dovrebbe quindi piacere a parecchi di quelli che girano qui: non parla di musica, ma di tutto quello che c'è intorno, perdendo di vista quello che c'è al centro, parlando tantissimo dei testi, e di quello che ha ispirato quei testi e di quello che quei testi hanno ispirato, e soprattutto di quali pensieri questi testi abbiano ispirato all'autore del libro.
E' un approccio che trovo molto "giornalistico", condito con le classiche banalità da "critico musicale rock" (batterie incalzanti, chitarre taglienti, bassi rotolanti e via stereotipando).
Trovo difficile appassionarmi a questo tipo di scrittura, soprattutto dopo aver letto i libri di Franco Fabbri che mettono al centro del discorso sulla musica, pensa te, la musica!
Per fortuna ci sono anche cose per cui vale lo stesso la pena di leggere questo libro: ad esempio, la visione della società americana degli anni '70 "in diretta" (la prima edizione del libro è del 1975), oppure il capitolo su Elvis Presley "da vivo".
Ma sono cose che hanno poco a che vedere con la musica, anzi, l'approccio musicologico è completamente ignorato[2] a favore di un più banale approccio da critico/fan[3], e la visione della storia della musica di Marcus è fortemente nordamericocentrica[4].
Bontà sua, l'autore ammette che anche qualche inglese (Beatles, Rolling Stones, Clash) ha contribuito alla musica rock, ma questi li chiama "americani immaginari"...
L'analisi sociologica mi sembra appena abbozzata (i Padri Pellegrini, il linguaggio[5] del rock come reazione allo spirito calvinista della società americana) mentre più interessanti sono le parti in cui si parla delle lotte civili e del movimento di liberazione dei neri d'america.
Ma nel complesso, ripeto: un libro sulla musica che non parla di musica.
Parla di testi e contesti, aspetti sociologici e culturali, parla delle copertine dei dischi e della grafica.
E così, la parte più interessante per me è l'intervista che gli fa Paolo Vites in appendice.
Note e links:
[1] Non è uno scherzo, è tradotto piuttosto bene davvero, soprattutto da qualcuno che sa quando è giusto lasciare una parola inglese senza tradurla :)
[2] E' anche vero che lo IASPM è stato fondato solo nel 1981.
[3] Simile in questo, giuro che mi spiace scriverlo, allo stile di Lester Bangs, che in più scriveva quasi sempre di sè stesso, e quasi mai di musica.
[4] E fortemente limitata per al prospettiva storica che evidentemente non poteva avere 35 anni fa, quando oltretutto aveva solo 30 anni: Randy Newman? The Band?
[5] Proprio nel senso puro del termine: le parole delle canzoni...
Guardando Meddle dei Pink Floyd
Quando la musica ancora non correva su supporti digitali materiali quali i cd o percettivamente immateriali quali le memory stick, le foto di copertina, le copertine degli album erano parte imprescindibile dei dischi stessi, erano porzioni di musica.
I migliori, i più apprezzati erano gli album che si aprivano a libretto, dentro potevano esserci testi, foto, o entrambi.
Non era probabilmente solo il fascino del supporto vinilico, dischi con grandi copertine che facevano apprezzare maggiormente la musica ma anche, paradossalmente, la penuria di musica reperibile. Se non pagavi non potevi averla (vabbè d'accordo c'erano le musicassette e i registratori, ma non certo la facilità di schiacciare un pulsante e trovarsi intere discografie a disposizione).
Ascoltare la musica era spesso totalizzante, vuoi che si avevano meno album a disposizione e quindi ogni nuovo acquisto veniva ascoltato, riascoltato, quasi consumandone i solchi, vuoi perchè ogni album era una scelta precisa a costruire un percorso, una discografia. Ricordiamoci che, per costruirisi una discoteca degna di questo nome, ci volevano anni se non una vita. Ogni pezzo aveva un suo senso, ricordava un periodo, una sensazione, una motivazione ed era un passo verso il successivo acquisto, verso il successivo delinearsi di un percorso che veniva costruendosi nel tempo e che rifletteva in toto la propria evoluzione e persino oserei dire personalità.
Come simbolo delle copertine di quel periodo, ho scelto una copertina mancata: quella interna di Meddle.
Quei quattro brutti ceffi dei Pink Floyd ancora giovanissimi, già affermati, ma ancora ad un passo di distanza dal successo mondiale. Quanto le ho fissate qulle foto segnaletiche ascoltando Echoes, One of these days, A pillow of winds, etc.
Le immagini erano rare, non vi era inflazione di video, notizie, interviste, show televisivi vi era ancora la possibilità di fantasticare. In realtà la fantasia vi è ancora oggi ma è molto più difficile esercitarla in un mondo che tende ad esibire tutto. Il pericolo dell'abbondanza odierna e della scelta è di farsi sfuggire i Pink Floyd d'oggi, i Rolling Stones o i Beatles e così via.
Difficile scegliere una strada, costruire un percorso personale in mezzo a una miriade di strade già segnate e perfettamente asfaltate, difficile infine apprezzare appieno musica che si può ottenere senza alcun sforzo e a costo zero.
L'abbondanza sembra distrarci, sembra difficile.
Io non rimpiango un tempo in cui la musica era di difficile reperibilità, oppure un tempo in cui la musica bisognava pagarla a caro prezzo, come a dire: se non costa non vale nulla. No il mio discorso è differente. Trovo sconcertante di questo tempo e del suo modo di fruire della musica vedere persone che non capiscono un'acca avere discografie che nemmeno il più incallito dei completisti si è mai sognato di possedere, vedere persone che senza apprezzare quello che ascoltano sono prese da bulimia per cui hanno migliaia di dischi sul disco rigido (scusate il gioco di parole) senza avene mai ascoltato alcuno. Rimpiango anche in parte che qualcuno che si intenda di musica molto, ma molto, più di me faccia una scrematura preventiva dell'infinita produzione odierna: in altre parole oggi anche cani e porci possono pubblicare le loro cazzate, mentre, quando al lavoro vi erano fior di produttori (penso, per dirne uno al mitico produttore di Miles, Teo Macero) certe ciofeche non arrivavano in studio o ne arrivavano molte meno. Oggi quel lavoro di scrematura dalle cazzate me lo deve fare da solo. Bè è una rottura clamorosa e posso pure prendere qualche bel granchio, olte a perdere un sacco di tempo. Tra l'altro, l'atteggiamento del non appassionato, che accede comunque a discografie intere per il semplice gusto di accumulare, in una qualche misura nutre nell'inconscio collettivo l'idea che la musica, per il fatto di essere liberamente accessibile, sia solo un semplice oggetto di consumo senza alcun valore intrinseco. E addio all'arte o a quel che ne è rimasto.
Infine ci sarebbe anche da parlare della funzione dei critici musicali. Oggi vengono snobbati allegramente (anche da me che tendo a far le mie scelte da solo o su consiglio di amici fidati i.e. : che hanno i miei stessi gusti :) ), ma invece avevano e potrebbero ancora avere una loro funzione “specialistica” di aiutare l'amante della musica in un suo percorso di crescita ed evoluzione culturale. Ma magari, su questo specifico aspetto della critica si accenderà un dibattito (me lo auguro), e mi riprometto di tornarci su in modo più specifico e meno superficiale.
I migliori, i più apprezzati erano gli album che si aprivano a libretto, dentro potevano esserci testi, foto, o entrambi.
Non era probabilmente solo il fascino del supporto vinilico, dischi con grandi copertine che facevano apprezzare maggiormente la musica ma anche, paradossalmente, la penuria di musica reperibile. Se non pagavi non potevi averla (vabbè d'accordo c'erano le musicassette e i registratori, ma non certo la facilità di schiacciare un pulsante e trovarsi intere discografie a disposizione).
Ascoltare la musica era spesso totalizzante, vuoi che si avevano meno album a disposizione e quindi ogni nuovo acquisto veniva ascoltato, riascoltato, quasi consumandone i solchi, vuoi perchè ogni album era una scelta precisa a costruire un percorso, una discografia. Ricordiamoci che, per costruirisi una discoteca degna di questo nome, ci volevano anni se non una vita. Ogni pezzo aveva un suo senso, ricordava un periodo, una sensazione, una motivazione ed era un passo verso il successivo acquisto, verso il successivo delinearsi di un percorso che veniva costruendosi nel tempo e che rifletteva in toto la propria evoluzione e persino oserei dire personalità.
Come simbolo delle copertine di quel periodo, ho scelto una copertina mancata: quella interna di Meddle.
Quei quattro brutti ceffi dei Pink Floyd ancora giovanissimi, già affermati, ma ancora ad un passo di distanza dal successo mondiale. Quanto le ho fissate qulle foto segnaletiche ascoltando Echoes, One of these days, A pillow of winds, etc.
Le immagini erano rare, non vi era inflazione di video, notizie, interviste, show televisivi vi era ancora la possibilità di fantasticare. In realtà la fantasia vi è ancora oggi ma è molto più difficile esercitarla in un mondo che tende ad esibire tutto. Il pericolo dell'abbondanza odierna e della scelta è di farsi sfuggire i Pink Floyd d'oggi, i Rolling Stones o i Beatles e così via.
Difficile scegliere una strada, costruire un percorso personale in mezzo a una miriade di strade già segnate e perfettamente asfaltate, difficile infine apprezzare appieno musica che si può ottenere senza alcun sforzo e a costo zero.
L'abbondanza sembra distrarci, sembra difficile.
Io non rimpiango un tempo in cui la musica era di difficile reperibilità, oppure un tempo in cui la musica bisognava pagarla a caro prezzo, come a dire: se non costa non vale nulla. No il mio discorso è differente. Trovo sconcertante di questo tempo e del suo modo di fruire della musica vedere persone che non capiscono un'acca avere discografie che nemmeno il più incallito dei completisti si è mai sognato di possedere, vedere persone che senza apprezzare quello che ascoltano sono prese da bulimia per cui hanno migliaia di dischi sul disco rigido (scusate il gioco di parole) senza avene mai ascoltato alcuno. Rimpiango anche in parte che qualcuno che si intenda di musica molto, ma molto, più di me faccia una scrematura preventiva dell'infinita produzione odierna: in altre parole oggi anche cani e porci possono pubblicare le loro cazzate, mentre, quando al lavoro vi erano fior di produttori (penso, per dirne uno al mitico produttore di Miles, Teo Macero) certe ciofeche non arrivavano in studio o ne arrivavano molte meno. Oggi quel lavoro di scrematura dalle cazzate me lo deve fare da solo. Bè è una rottura clamorosa e posso pure prendere qualche bel granchio, olte a perdere un sacco di tempo. Tra l'altro, l'atteggiamento del non appassionato, che accede comunque a discografie intere per il semplice gusto di accumulare, in una qualche misura nutre nell'inconscio collettivo l'idea che la musica, per il fatto di essere liberamente accessibile, sia solo un semplice oggetto di consumo senza alcun valore intrinseco. E addio all'arte o a quel che ne è rimasto.
Infine ci sarebbe anche da parlare della funzione dei critici musicali. Oggi vengono snobbati allegramente (anche da me che tendo a far le mie scelte da solo o su consiglio di amici fidati i.e. : che hanno i miei stessi gusti :) ), ma invece avevano e potrebbero ancora avere una loro funzione “specialistica” di aiutare l'amante della musica in un suo percorso di crescita ed evoluzione culturale. Ma magari, su questo specifico aspetto della critica si accenderà un dibattito (me lo auguro), e mi riprometto di tornarci su in modo più specifico e meno superficiale.
Mogwai - Hardcore will never die, but you will
Ed io ancora lì, a sperarci, fiducioso.
Ogni 2-3 anni i Mogwai tornano e confido in una rinascita, in un colpo di classe che cancelli i passi falsi precedenti. Perchè a mio avviso il sentiero discendente è stato imboccato inesorabilmente, a partire da Happy songs for happy people che già denotava qualche segno di stanchezza, giusto riscattato da alcune gemme indimenticabili.
Se Mr. Beast già faceva storcere un po' il naso, The hawk is howling mi aveva a dir poco orripilato. Ed ora Hardcore, disponibile da una settimana. Mah.
Il mese scorso c'era stato l'antipasto di Rano Pano e pensavo, siamo alle solite. Con quei chitarroni muscolari, quelle ritmiche così squadrate e piene, scomparso anche il buongusto di Burns che cade in banali frasi di synth. Dove sono finiti i miei idoli? Ma sono ancora loro?
Amaro il destino di chi parte subito in quarta e sconvolge con capolavori capisaldi di un genere intero. Ricordo pochissimi shock nella mia vita eguali a Young team, rare conferme come Come on die young. In me li difendevo anche quando venivano discussi con Rock Action e My father my king. Ad andar bene quelli che dubitavano allora, sono quelli che adesso li osannano.
In sostanza Hardcore è un altra cocente delusione. La classe non basta più. Non c'è più il senso di avventura, la voglia di sorprendere o di estremizzare. Ovvio che non si pretendesse da loro di eguagliare gli highlights degli inizi, ma neanche di scavare sotto il barile. San Pedro e George square thatcher death part, tanto per partire dai peggiori, sono imbarazzanti balzelli di neo-new-wave. Voglio dire, già gli ultimi Interpol sono alquanto pessimi, non abbiamo bisogno certo che i Mogwai ne facciano una parodia. Oltretutto quando Braithwaite attiva il vocoder non c'è tanto da ridere: Mexican Grand Prix inizia come un qualsiasi pezzo degli Stereolab e finisce su lidi Trans Am di mezzo, senza avere nè il genuino candore dei primi nè l'autoironia dissacrante dei secondi.
Un grosso problema è la latente autoindulgenza che sembra permeare i 5 dall'inizio alla fine, anche quando cercano di stabilire un contatto con i migliori episodi degli ultimi anni. La solennità plastificata di White Noise, il minimale girare a vuoto di How to be a werewolf, la zavorra tronfia di You're Lionel Richie, è tutto un immane buco nell'acqua.
Alla fine, purtroppo, sono solo un paio i pezzi che si salvano. Il crescendo sinfonico di Too raging to cheers perlomeno tiene desta l'attenzione. E soprattutto la bella Letters to the metro, tenue e delicata contemplazione autunnale. Chissà perchè, è anche quella più modesta strumentalmente, in cui non cercano di strafare.
Hardcore non m'impedirà comunque di andarli a vedere live, per la mia prima volta, all'Estragon in Marzo. Confidando di sentire almeno qualche inno del passato.
Ogni 2-3 anni i Mogwai tornano e confido in una rinascita, in un colpo di classe che cancelli i passi falsi precedenti. Perchè a mio avviso il sentiero discendente è stato imboccato inesorabilmente, a partire da Happy songs for happy people che già denotava qualche segno di stanchezza, giusto riscattato da alcune gemme indimenticabili.
Se Mr. Beast già faceva storcere un po' il naso, The hawk is howling mi aveva a dir poco orripilato. Ed ora Hardcore, disponibile da una settimana. Mah.
Il mese scorso c'era stato l'antipasto di Rano Pano e pensavo, siamo alle solite. Con quei chitarroni muscolari, quelle ritmiche così squadrate e piene, scomparso anche il buongusto di Burns che cade in banali frasi di synth. Dove sono finiti i miei idoli? Ma sono ancora loro?
Amaro il destino di chi parte subito in quarta e sconvolge con capolavori capisaldi di un genere intero. Ricordo pochissimi shock nella mia vita eguali a Young team, rare conferme come Come on die young. In me li difendevo anche quando venivano discussi con Rock Action e My father my king. Ad andar bene quelli che dubitavano allora, sono quelli che adesso li osannano.
In sostanza Hardcore è un altra cocente delusione. La classe non basta più. Non c'è più il senso di avventura, la voglia di sorprendere o di estremizzare. Ovvio che non si pretendesse da loro di eguagliare gli highlights degli inizi, ma neanche di scavare sotto il barile. San Pedro e George square thatcher death part, tanto per partire dai peggiori, sono imbarazzanti balzelli di neo-new-wave. Voglio dire, già gli ultimi Interpol sono alquanto pessimi, non abbiamo bisogno certo che i Mogwai ne facciano una parodia. Oltretutto quando Braithwaite attiva il vocoder non c'è tanto da ridere: Mexican Grand Prix inizia come un qualsiasi pezzo degli Stereolab e finisce su lidi Trans Am di mezzo, senza avere nè il genuino candore dei primi nè l'autoironia dissacrante dei secondi.
Un grosso problema è la latente autoindulgenza che sembra permeare i 5 dall'inizio alla fine, anche quando cercano di stabilire un contatto con i migliori episodi degli ultimi anni. La solennità plastificata di White Noise, il minimale girare a vuoto di How to be a werewolf, la zavorra tronfia di You're Lionel Richie, è tutto un immane buco nell'acqua.
Alla fine, purtroppo, sono solo un paio i pezzi che si salvano. Il crescendo sinfonico di Too raging to cheers perlomeno tiene desta l'attenzione. E soprattutto la bella Letters to the metro, tenue e delicata contemplazione autunnale. Chissà perchè, è anche quella più modesta strumentalmente, in cui non cercano di strafare.
Hardcore non m'impedirà comunque di andarli a vedere live, per la mia prima volta, all'Estragon in Marzo. Confidando di sentire almeno qualche inno del passato.
Venus on a Marquee Moon
Non ho mai capito Tom Verlaine, e per questo lo adoro. Un paio di anni fa sono andato a vederlo in concerto, erano lui e un altro tizio, non ricordo il nome, un produttore di grido di certa New York. Penso sia stato uno dei concerti più brutti visti in vita mia. Verlaine sembrava fosse stato costretto a trovarsi sul palco altrimenti, se non lo avesse fatto, qualcuno lo avrebbe ucciso. Sembrava cercasse nella sua chitarra lo splendore e la magia che una volta sapeva tirare fuori come un mago impazzito. L’ho visto almeno un paio di volte anche con Patti Smith, e anche in quelle occasioni era come se sul palco non ci fosse stato per niente. Una presenza ingombrante per il nome che porta ma assolutamente incapace di rendersi palpabile. Non ho mai capito Tom Verlaine. Ho letto proprio stamattina che esiste una versione che dura quasi 50 minuti, live, di Marquee Moon, registrata nel 1978 al CBGB’s. La voglio.
Perché se non ho mai capito Tom Verlaine, ho capito fin dalla prima volta che ci misi le mani sopra la stupefacente bellezza del primo disco dei Television, Marquee Moon, e di quella canzone in particolare. Anche se a me piace tantissimo anche la dichiarazione di intenti che è See No Evil.Che secondo me è il segreto del Tom Verlaine-pensiero. Non ricordo chi scrisse una volta che i Television erano la versione punk dei Grateful Dead. Io non credo che i Television abbiano nulla a che fare con la musica punk, ed è proprio questo che mi rende così affascinato dalla musica che venne prodotta in America tra il 1975 e il 1979, mentre, a parte i Clash e i Sex Pistols, di quanto avveniva in Inghilterra nello stesso periodo mi importa un fico secco. Marquee Moon è un disco a cui “devo” ritornare almeno una volta all’anno, e non ci torno per scelta mia, ma è Marquee Moon che mi obbliga a tornare a lui. Secondo me è un disco stregato, dotato di poteri magici.
E’ lui che sa, in quel particolare periodo della mia vita, che ho bisogno di lui. Così è stato ad esempio stanotte: probabilmente non sarei qui stamattina a scrivere queste righe se stanotte non avessi ascoltato un milione di volte Marquee Moon, pianto tutte le lacrime che si possono piangere e accettato di ricominciare daccapo. Marquee Moon se ne sta in un angolino nascostissimo in uno dei miei scaffali dei dischi, se ne sta quieto per dodici mesi all’anno e poi reclama la sua presenza. Vuole che lo ascolti. E non sarò io a dire di no. Non riuscirei mai a farlo. Ma non ho mai capito Tom Verlaine.
Perché se non ho mai capito Tom Verlaine, ho capito fin dalla prima volta che ci misi le mani sopra la stupefacente bellezza del primo disco dei Television, Marquee Moon, e di quella canzone in particolare. Anche se a me piace tantissimo anche la dichiarazione di intenti che è See No Evil.Che secondo me è il segreto del Tom Verlaine-pensiero. Non ricordo chi scrisse una volta che i Television erano la versione punk dei Grateful Dead. Io non credo che i Television abbiano nulla a che fare con la musica punk, ed è proprio questo che mi rende così affascinato dalla musica che venne prodotta in America tra il 1975 e il 1979, mentre, a parte i Clash e i Sex Pistols, di quanto avveniva in Inghilterra nello stesso periodo mi importa un fico secco. Marquee Moon è un disco a cui “devo” ritornare almeno una volta all’anno, e non ci torno per scelta mia, ma è Marquee Moon che mi obbliga a tornare a lui. Secondo me è un disco stregato, dotato di poteri magici.
E’ lui che sa, in quel particolare periodo della mia vita, che ho bisogno di lui. Così è stato ad esempio stanotte: probabilmente non sarei qui stamattina a scrivere queste righe se stanotte non avessi ascoltato un milione di volte Marquee Moon, pianto tutte le lacrime che si possono piangere e accettato di ricominciare daccapo. Marquee Moon se ne sta in un angolino nascostissimo in uno dei miei scaffali dei dischi, se ne sta quieto per dodici mesi all’anno e poi reclama la sua presenza. Vuole che lo ascolti. E non sarò io a dire di no. Non riuscirei mai a farlo. Ma non ho mai capito Tom Verlaine.
Perle dal passato: The Dragons - Food For My Soul (1970)
Metto nel virgolettato il commento originale che ho trovato su Youtube, che informa benissimo sulla genesi di questa edizione "postuma" di una registrazione del 1970 dei Dragons, gruppo abbastanza "mitologico" e mai esistito agli occhi del pubblico ma solo per breve periodo in sala di incisione. Ad ogni modo è tutto scritto dettagliatamente dal titolare del canale di youtube, un certo artmaniac53 che ogni tanto visito alla ricerca di perle dimenticate dal passato, e non voglio ripetere più di tanto ciò che egli racconta benissimo. Aggiungo di mio solo che vale la pena ascoltare e, forse, rimpiangere un pò che non ci abbiano dato dentro con più convinzione e non si siano smontati alle prime difficoltà. Le potenzialità mi pare le avessero tutte.
'There's a story below and the moral of this story is: keep your master tapes. Whatever you do, keep your master tapes. It's the late sixties. Three brothers, Doug, Daryl and Dennis Dragon are living in Malibu, surfing and gigging around the Los Angeles area and having their minds blown by the music of The Beatles, Hendrix and The Doors. The multi-instrumentalist sons of a symphony conductor and an opera singer, the Dragon brothers decide it's time to create their own psychedelic soul/rock masterpiece. A high school friend of Dennis, Donn Landee, is working as a recording engineer at Sunwest Recording Studios in Hollywood and they begin to go there to put tracks down in 'off time' often working from 3am, when they finish their regular gigs, until morning. They call the sessions 'Blue Forces Intelligence', find themselves layering their instruments in new ways, adding deep, bassy vocal lines and then ramming them up against falsetto harmonies, adding organs and space age sound effects, recording spirituals and pop and crazy rock opera. The effect is increasingly spacey and weird, but also funky - a missing link between new directions others are exploring in jazz and soul as well as rock music. Unfortunately, the suits at the West Coast offices of the major labels aren't ready, complaining that they don't hear a hit. After shopping the record, now called just 'BFI', for a few months, the boys become disillusioned and focus instead on their session work. They all end up working in the Beach Boys' backing band. Doug moves to Hawaii, tours Australia. Dennis becomes a successful record producer. Daryl hooks up with Toni Tennille and experiences international chart success as The Captain. The Dragons' 'BFI' is forgotten. Jump on 37 years. Strictly Kev/DJ Food, influential mixologist and designer for Ninja Tune and obsessive record collector picks up a new batch of vinyl from a record dealer he knows. In amongst them is a 500-run private pressing of the soundtrack to a surf movie called A Sea For Yourself. On it is a track called Food For My Soul by a band called the Dragons. Kev being a fan of all possible food-based puns and currently putting together the mix for his new Solid Steel mix cd for Ninja, drops the needle on the groove. What he finds amazes him a true psychedelic original from a band he's never heard of. Using his extensive contacts in the world of vinyl mania, he manages to track Dennis Dragon down. He emails him, asks him if he can include Food For My Soul on the mix. Sure, says Dennis. There's a whole album of the stuff if he's interested. Dennis checks. Donn still has the master tapes. He converts them to mp3 and emails them to Kev. Kev is blown away. He forwards them to Ninja Tune. Ninja Tune think it's a scam. But then they listen. And they listen again. And then, after nearly forty years sitting on a recording engineer's shelf, Ninja Tune decide to release 'BFI'. Beautifully played and produced, full of crazy invention and a loveably naive lack of self-consciousness, 'BFI' is a miniature masterpiece, a lost classic of psych-whimsy, West Coast sexiness and serious musical chops. Surely we're ready by now..?''
Cowboy Junkies - Sun Comes Up, it's Tuesday Morning
O è un caso oppure sono proprio i miei gusti ad essere fatti così, ma ogni volta che mi viene in mente una canzone per un post della serie "tecnica", comincio ad analizzare la canzone di cui voglio parlare e mi accorgo, ogni volta, che la struttura è semplicissima.
Anche "Sun Comes Up, it's Tuesday Morning" non sfugge alla regola: e sì che i Cowboy Junkies sono già di loro un gruppo anomalo.
Canadesi, e basterebbe questo ad essere strano per dei Cowboys, che in più sono anche "Junkies", tossicomani. Non esattamente la prima parola che si associa alla figura del Cowboy.
E parlando di musica, anche lì siamo solo vagamente dalle parti dei Cowboy: suonano piuttosto una via di mezzo tra il country, il blues e il folk, "americana" ma vent'anni prima che il termine diventasse di uso comune, e per fortuna avendo cura di non limitarsi mai ad essere esattamente nessuna di quelle cose.
Il mood delle canzoni è blues, malinconico, la strumentazione è country (la lap steel guitar, soprattutto), le canzoni stanno da qualche parte tra rock e folk.
Sono elettricamente acustici, e pure abbastanza noiosi sulla distanza di un album completo. Ma se penso ai Cowboy Junkies mi vengono in mente subito due canzoni straordinarie: la prima è una cover, "Sweet Jane" naturalmente (e naturalmente dei Velvet Underground), tratta dal primo leggendario album dei fratelli Timmins, quello registrato nella chiesa sconsacrata direttamente su un dat[1].
Grande interpretazione ed arrangiamento[2], lo stesso Lou Reed aveva detto che quella dei Cowboy Junkies era la versione del pezzo che lui preferiva.
L'altra canzone è, ovviamente, "Sun Comes Up, it's Tuesday Morning".
Tecnicamente, usa gli accordi di un blues (E A Bsus4), ma del blues non usa nè la struttura nè la cadenza. Non sono assolutamente esperto di musica country, ma da quello che sono riuscito a "scoprire" questa non è neppure una situazione troppo strana per il country.
Nessuna informazione ho trovato invece sulla seconda particolarità della canzone: è composta da due parti leggermente differenti, che potremmo forse identificare come Chorus I e Chorus II[3], che si ripetono alternandosi per tutto il pezzo, una dopo l'altra, quasi due parti complementari.
La prima parte (Chorus I - 8 battute) è:
E - A - B sus4 - A
E - A - B sus4 - A
la seconda parte (Chorus II - altre 8 battute) è:
A - E - A - E
A - E - B sus4 - A
Queste due parti si alternano per 5 volte durante la canzone, e il testo non si ripete mai, scorrendo in un racconto dall'inzio alla fine che ignora la diffferenza tra i due Chorus.
Una particolarità del canto di Margo Timmins è come lega la fine del secondo Chorus all'inzio del primo: le ultime parole vengono cantate sul primo accordo del Chorus seguente, e pronunciate senza soluzione di continuità con la prima parola del Chorus seguente, dopo la quale c'è una breve pausa che "stacca" le parole successive: questo rende ancora più indefinito il passaggio tra i due Chorus, che si legano in modo molto naturale uno con l'altro.[4]
Una breve intro strumentale e una coda finale (dominata dall'assolo di pedal lap steel) incorniciano un pezzo che, a distanza di tanti anni, non mi sembra aver perso nulla del suo fascino.
Note e links:
[1] Dat sta per digital audio tape, ovvero una parolaccia (un registratore che registra numeri, orrore...)
[2] Accidenti, un'altra parolaccia... Domando scusa, oggi mi scappano.
[3] Ho deciso di usare la terminologia proposta da Franco Fabbri (vedi ad esempio le parti dedicate nel libro "Il suono in cui vivamo" all'analisi strutturale delle canzoni di musica popular), la differenza tra la struttura Chorus/Bridge (C/B) e quella Strofa/Ritornello (S/R) va ben al di là della semplice differenza lessicale. Impossibile farne un riassunto in due righe, ma in estrema sintesi la prima è tipica delle canzoni pop/rock, mentre la seconda è tipica della "canzone italiana".
[4] Questo spostare la parte cantata rispetto al susseguirsi degli accordi strumentali è uno stile che si può sentire molto bene, ad esempio, in parecchie canzoni di Nick Drake.
Anche "Sun Comes Up, it's Tuesday Morning" non sfugge alla regola: e sì che i Cowboy Junkies sono già di loro un gruppo anomalo.
Canadesi, e basterebbe questo ad essere strano per dei Cowboys, che in più sono anche "Junkies", tossicomani. Non esattamente la prima parola che si associa alla figura del Cowboy.
E parlando di musica, anche lì siamo solo vagamente dalle parti dei Cowboy: suonano piuttosto una via di mezzo tra il country, il blues e il folk, "americana" ma vent'anni prima che il termine diventasse di uso comune, e per fortuna avendo cura di non limitarsi mai ad essere esattamente nessuna di quelle cose.
Il mood delle canzoni è blues, malinconico, la strumentazione è country (la lap steel guitar, soprattutto), le canzoni stanno da qualche parte tra rock e folk.
Sono elettricamente acustici, e pure abbastanza noiosi sulla distanza di un album completo. Ma se penso ai Cowboy Junkies mi vengono in mente subito due canzoni straordinarie: la prima è una cover, "Sweet Jane" naturalmente (e naturalmente dei Velvet Underground), tratta dal primo leggendario album dei fratelli Timmins, quello registrato nella chiesa sconsacrata direttamente su un dat[1].
Grande interpretazione ed arrangiamento[2], lo stesso Lou Reed aveva detto che quella dei Cowboy Junkies era la versione del pezzo che lui preferiva.
L'altra canzone è, ovviamente, "Sun Comes Up, it's Tuesday Morning".
Tecnicamente, usa gli accordi di un blues (E A Bsus4), ma del blues non usa nè la struttura nè la cadenza. Non sono assolutamente esperto di musica country, ma da quello che sono riuscito a "scoprire" questa non è neppure una situazione troppo strana per il country.
Nessuna informazione ho trovato invece sulla seconda particolarità della canzone: è composta da due parti leggermente differenti, che potremmo forse identificare come Chorus I e Chorus II[3], che si ripetono alternandosi per tutto il pezzo, una dopo l'altra, quasi due parti complementari.
La prima parte (Chorus I - 8 battute) è:
E - A - B sus4 - A
E - A - B sus4 - A
la seconda parte (Chorus II - altre 8 battute) è:
A - E - A - E
A - E - B sus4 - A
Queste due parti si alternano per 5 volte durante la canzone, e il testo non si ripete mai, scorrendo in un racconto dall'inzio alla fine che ignora la diffferenza tra i due Chorus.
Una particolarità del canto di Margo Timmins è come lega la fine del secondo Chorus all'inzio del primo: le ultime parole vengono cantate sul primo accordo del Chorus seguente, e pronunciate senza soluzione di continuità con la prima parola del Chorus seguente, dopo la quale c'è una breve pausa che "stacca" le parole successive: questo rende ancora più indefinito il passaggio tra i due Chorus, che si legano in modo molto naturale uno con l'altro.[4]
Una breve intro strumentale e una coda finale (dominata dall'assolo di pedal lap steel) incorniciano un pezzo che, a distanza di tanti anni, non mi sembra aver perso nulla del suo fascino.
Note e links:
[1] Dat sta per digital audio tape, ovvero una parolaccia (un registratore che registra numeri, orrore...)
[2] Accidenti, un'altra parolaccia... Domando scusa, oggi mi scappano.
[3] Ho deciso di usare la terminologia proposta da Franco Fabbri (vedi ad esempio le parti dedicate nel libro "Il suono in cui vivamo" all'analisi strutturale delle canzoni di musica popular), la differenza tra la struttura Chorus/Bridge (C/B) e quella Strofa/Ritornello (S/R) va ben al di là della semplice differenza lessicale. Impossibile farne un riassunto in due righe, ma in estrema sintesi la prima è tipica delle canzoni pop/rock, mentre la seconda è tipica della "canzone italiana".
[4] Questo spostare la parte cantata rispetto al susseguirsi degli accordi strumentali è uno stile che si può sentire molto bene, ad esempio, in parecchie canzoni di Nick Drake.